Comunità per ex detenuti di Rebibbia

 

Carcere, una comunità per il "dopo"

A Torrespaccata la parrocchia offre alloggio temporaneo a ex detenute di Rebibbia

 

Avvenire, 5 aprile 2003

 

"Dove andare quando uscirò dal carcere? Non lo so". Una frase pronunciata spesso dalle detenute e sentita troppe volte da padre Angelo Di Giorgio, francescano conventuale, cappellano nella sezione femminile del carcere di Rebibbia dal 1993 al 2001. Diventato parroco a San Bonaventura, a Torrespaccata, ha coltivato un sogno divenuto realtà da pochi giorni: offrire per tre settimane una casa alle ex detenute in cerca di alloggio e lavoro, e alle detenute in permesso premio, in affidamento in prova con una pena residua inferiore a quattro mesi. Un punto di riferimento originale, visto che il sacerdote ha ristrutturato una parte dei locali parrocchiali, trasformati in "Casa S. Antonio" grazie all'aiuto della Caritas Antoniana di Padova e di alcune iniziative di beneficenza promosse dai parrocchiani, che in passato hanno partecipato a liturgie e incontri in carcere.

Inaugurata e benedetta nei giorni scorsi da monsignor Guerino Di Tora, direttore della Caritas diocesana di Roma, la struttura è dotata di ingresso indipendente e dispone di 5-6 posti letto, cucina, bagno e terrazza. È un'impresa ardua, soprattutto per le straniere che escono dal penitenziario, trovare in breve tempo un'occupazione e un alloggio o una stanza in affitto, come per le ex tossicodipendenti non accolte dalle loro famiglie: "In ogni caso lo stigma sociale, la chiusura e il pregiudizio nei loro confronti è molto forte", osserva padre Di Giorgio, precisando che l'appartamento verrà autogestito dalle ospiti sotto la sua responsabilità, con la collaborazione di alcuni volontari. Ora il cappellano della Casa circondariale femminile di Rebibbia - carcere sia giudiziario che penale, con condanne definitive - è un confratello del parroco, padre Giuseppe Forlai, impegnato a incontrare circa 300 detenute, la maggioranza delle donne presenti nelle carceri del Lazio. Straniere nel 65-70% dei casi (latinoamericane, africane e nomadi, molte delle quali con figli minori di tre anni), numerose tossicodipendenti e sieropositive, molte detenute sono cristiane di diverse confessioni; meno numerose le musulmane: talvolta alcune assistono alla Messa, cantando con le cattoliche.

"Veniamo a pregare lo stesso Dio", dicono. L'animazione della celebrazione "è sempre molto vivace e in diverse lingue, intensa la partecipazione delle detenute: c'è un grande rispetto reciproco delle diverse fedi", ricorda l'ex cappellano, che dietro le sbarre ha celebrato matrimoni e battesimi. Le catechesi in Avvento e Quaresima hanno fatto "maturare conversioni di persone non battezzate o atee". Le pagine della Scrittura più amate dalle detenute? Il commento al Padre nostro, ma le sudamericane prediligono i Salmi. Nei colloqui con il cappellano le donne chiedono "un aiuto materiale, ma soprattutto morale e spirituale", sottolinea il francescano, che ha imparato spagnolo e inglese per poter comunicare con loro.

Dal Veneto sono già arrivate a padre Di Giorgio alcune richieste di lavoro per le ospiti di "Casa S. Antonio": una dovrebbe partire per Treviso e lavorare in un negozio di giocattoli e ferramenta, altre si dedicheranno all'assistenza domiciliare agli anziani. All'interno del carcere le ex detenute "acquisiscono competenze in pelletteria, sartoria serigrafia, allevamento, coltivazione, florovivaistica, ma non hanno una qualifica vera e propria. Spesso alcune persone sensibili si fidano delle nostre referenze positive", riferisce il parroco. Tuttavia nella capitale mancano strutture di questo tipo; talvolta le ragazze sono accolte dalle Missionarie della carità di madre Teresa di Calcutta. Ma i vuoti restano e i bisogni rimangono enormi, "soprattutto per le ragazze madri e per le immigrate".

 

 

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