Governo delle città...

 

"Il governo delle città e il bene pubblico della sicurezza"

 

Relazione di Massimo Pavarini (coordinatore del Comitato scientifico di "Città sicure") al Convegno promosso dalla Regione Marche il 13 gennaio 1998: la topica della sicurezza cittadina - tanto a livello delle politiche di governo locale della sicurezza oggi agite internazionalmente, quanto dei discorsi sulla cultura della "nuova" prevenzione pronunciati dai linguaggi scientifici - pone, tanto più quanto assunta superficialmente come normalità delle politiche di controllo sociale di questo fine millennio, l’interrogativo semplice quanto radicale del "perché": perché oggi e non ieri o non sempre e non ovunque la sicurezza dei consociati (o meglio: nei consociati) si declina come questione di governo locale, in primis delle città?

Una risposta soddisfacente purtroppo non è banale quanto l’interrogativo.

Accontentarsi, rispondendo che è un dato di realtà empiricamente percepibile che sempre più le collettività imputano responsabilità nel governo della sicurezza a chi democraticamente ha compiti di governo dei territori locali, lascia obbiettivamente insoddisfatti: la descrizione di un effetto ben poco ci illumina sulla ragione della/e causa/e.

Per tentare una risposta, cominciamo a liberarci dell’inutile, vale a dire di quanto nella proposizione del "governo locale del bene pubblico della sicurezza" all’analisi critica sembra resistere come un dato non soggetto a mutamenti significativi nei tempi brevi.

Affatto paradossalmente, la nozione più resistente alle variabili diacroniche e sincroniche è proprio quella di "sicurezza", per lo meno nell’accezione da essa assunto in epoca moderna: è infatti sulla promessa della sicurezza nella società civile che si fonda il patto sociale, vale a dire l’avocazione in capo al Principe e all’autorità dei nascenti stati nazionali di diritto del potere monopolistico di "governare" i conflitti attraverso l’esercizio della forza legale. La nozione giuridica di "sicurezza pubblica" traduce quindi fedelmente quella di "sicurezza interna della Nazione", o almeno così certo è stato in epoca moderna come il "dover essere" fondante dello stato nazionale. Altra cosa è se così effettivamente sia stato, se cioè i diversi stati nazionali abbiamo garantito la sicurezza dei cittadini, quanto lo abbiano garantita, in quale effettivo rapporto monopolistico o di concorrenza con altri diversi sistemi di governo non statuale. Certo ogni Stato fa storia a sé, anche se oggi si conviene che solo in parte quella promessa della modernità è stata effettivamente mantenuta ovunque.

Insomma: gli stati moderni, e ancor più quelli di sviluppato stato sociale di diritto, si sono legittimati come capaci di garantire la sicurezza interna, cioè la sicurezza nazionale, nel governo repressivo e preventivo dei conflitti. Pertanto il governo del bene pubblico della sicurezza a pieno titolo appartiene al patrimonio originario della storia dello Stato moderno.

Altrettanto deve dirsi per il favore posto sul governo preventivo piuttosto che repressivo delle condotte, degli attori e delle situazioni avvertite come capaci di minacciare la sicurezza sociale; anche in questo caso il governo del bene pubblico nello stato sociale di diritto si qualifica essenzialmente come preventivo - definendo pertanto lo stato sociale di diritto come stato della prevenzione e le politiche di controllo sociale da questo agite come politiche preventive di difesa sociale. Ma ancora una volta, tutto ciò rappresenta il "dover essere", un’altra promessa della modernità, sovente non mantenuta.

Pertanto l’elemento che attribuisce novità alla topica del governo del bene pubblico della sicurezza è oggi la specificazione di "locale" contra "nazionale".

Se il senso della specificazione oppositiva è chiaro, meno evidenti sono le ragioni, vale a dire perché oggi il tema del governo del bene pubblico della sicurezza: a.) non viene più assunto come monopolistico compito statuale; b.) viene sovente declinato anche - sia pure non esclusivamente - a livello locale.

  1. Una utile approssimazione al cuore della questione, tende a dare conto delle ragioni della progressiva crisi dell’egemonia statuale nel governo del bene pubblico della sicurezza. E sotto quest’ottica fortunatamente esiste già una ricca letteratura. In buona sostanza si possono elencare - senza pretesa di gerarchizzare - almeno tre ragioni della crisi del governo statuale della sicurezza:

il governo statuale del bene pubblico della sicurezza si è storicamente realizzato privilegiando la risorsa reattiva, e non quella proattiva, secondo quanto promesso: l’azione repressiva, in primis il sistema di giustizia penale, entra però inesorabilmente in crisi palesando la sua inefficacia di fronte alla dimensione diffusa e di massa dei conflitti. Insomma: il sistema della giustizia criminale si mostra da un lato sempre più inefficace rispetto al governo materiale dei conflitti - e pertanto è causa esso stesso della produzione di sentimenti diffusi di insoddisfazione; dall’altro lato - ma di conseguenza - esso si è progressivamente valorizzato come semplice risorsa simbolica nel tentativo di soddisfare i sentimenti sociali di insicurezza (ovvero l’insicurezza soggettiva), stante l’impossibilità di garantire livelli soddisfacenti di sicurezza oggettiva;

la natura stessa dei nuovi disagi - il fuggire degli stessi dalla classica riconduzione al paradigma del conflitto tra capitale-lavoro - li riconduce eziologicamente a ragioni strutturali oramai non più governabili a livello nazionale: effetti della globalizzazione, squilibri tra nord e sud del mondo, ecc.

le politiche nazionali di governo dei conflitti sono sempre più vincolate da strategie sovra-nazionali, ovvero materialmente agite da agenzie indipendenti o relativamente indipendenti dai governi nazionali.

  1. Più incerte invece le ragioni plausibili della torsione verso la dimensione locale - prevalentemente metropolitana - che il tema del governo del bene pubblico della sicurezza sta assumendo progressivamente di fronte alla crisi di egemonia statuale sul tema. Anche in questo caso, posso disordinatamente indicarne alcune:

Se le cause dei nuovi conflitti non sono più governabili a livello statuale, gli effetti degli stessi - vale a dire la produzione della sofferenza, del disagio, dei costi sociali, della paura - tendono sempre più a dimensionarsi e specificarsi diversamente in ragione delle variabili locali presenti, cioè la natura degli effetti è sempre più in ragione della dimensione locale all’interno della quale il conflitto determina insicurezza: come dire che i nuovi conflitti si producono in una dimensione irrelata o sempre più distante da quella in cui determinano i loro effetti a livello di insicurezza oggettiva e soggettiva. Si pensi all’immigrazione.

Nella misura in cui l’attenzione viene progressivamente sempre più posta sulle conseguenze sociali dei conflitti - in ragione anche del disincanto progressivo nella fede di potere governare le cause degli stessi - la dimensione locale necessariamente prende il sopravvento, in quanto è questa dimensione e solo questa in cui il conflitto produce i suoi effetti.

L’attenzione progressiva alla conseguenze sociali dei conflitti risulta culturalmente quanto istituzionalmente in sintonia con le strategie "del farsi carico" (del to care), storicamente proprie delle politiche socio-assistenziali dei governi locali. Non è pertanto casuale che l’assunzione di responsabilità nel governo locale della sicurezza venga approcciato sotto il versante delle politiche preventive, nel senso che appunto esse hanno di "presa in carico" del disagio, della situazione problematica ben più che della rimozione delle cause che hanno presumibilmente determinato il conflitto.

  1. Unitariamente intese, le ragioni sopra esposte parrebbero dare ragione dell’emergenza del governo locale della sicurezza come di una tendenza non occasionale, né anomala. Peraltro la dimensione internazionale del fenomeno rinforza questa convinzione. Ma di più: se il processo è dinamicizzato effettivamente dalle ragioni "forti" sopra richiamate, e presumibile che la tendenza a "spostare" o ad "investire" sul "locale" nelle politiche di governo della sicurezza tenderà nel tempo ad accentuarsi.

E tutto ciò non è di piccolo conto. Voglio dire che il tema del governo locale del bene pubblico della sicurezza non è nella sostanza - come sovente appare nel panorama italiano - una "rivendicazione stravagante" dei governi locali rispetto a quello nazionale, una sorta di inopportuna conflittualità del partito dei sindaci contro il potere centrale, ma un processo "oggettivo", che certo può essere diversamente declinato nel linguaggio delle politiche nazionali, ma che pur sempre rappresenta una tendenza strutturale di fondo. A questo proposito si rifletta che in altri contesti nazionali il processo di decentramento di funzioni di governo della sicurezza a livello locale è stato promosso, se non forzato, proprio dal centro, voluto ed imposto dai governi centrali.

  1. Convenire che il governo locale del bene pubblico è una tendenza strutturale dettata dalla irresistibile forza delle cose del presente e ancor più del prossimo futuro a cui non è dato sottrarsi, non vuole certo dire che non esista invece una pluralità di "opzioni", e certo tra loro opposte o quantomeno divaricanti, su come assumere la sfida. Almeno in astratto. Per ragioni di chiarezza espositivo voglio qui di seguito tratteggiare i profili essenziali di due scenari non solo distanti, ma opposti, di governo locale della sicurezza, capaci di segnare i punti limite ed estremi di un arco di possibili ed intermedie posizioni.

5.1Un primo possibile scenario è quello offerto da un governo "amministrativo" del controllo sociale secondo le indicazioni offerte dalla criminologia attuariale, nei cui confronti certo non va la mia personale simpatia, ma che devo riconoscere essere la deriva più facile in cui è possibile scivolare.

In estrema sintesi questo possibile, e purtroppo probabile, scenario può essere così sintetizzato: il governo locale del bene pubblico della sicurezza si esaurisce in azioni amministrative (proattive o reattive che siano) volte ad elevare la soglia di controllo - con finalità tendenzialmente incapacitative o di semplice contenimento - nei confronti dei soggetti e/o delle situazioni avvertite più a rischio nella produzione di insicurezza

Se la dimensione locale esalta la conoscenza del territorio, e quindi di riflesso la maggiore efficacia dell’intervento, la medesima dimensione esaspera anche la pressione condizionante dell’opinione pubblica nell’indicazione dei gruppi sociali e delle realtà situazioni nei cui confronti deve essere indirizzata l’azione di controllo stesso. In buona sostanza un elevamento della sorveglianza - più o meno soffice, ma sostanzialmente di solo contenimento - su luoghi e su gruppi sociali nella fede che ciò possa ridurre il rischio che le situazioni percepite socialmente come problematiche degenerino ulteriormente.

Sia chiaro: il pericolo di una deriva attuariale si determina quando il governo locale del bene pubblico della sicurezza si esaurisce in questa sola politica amministrativa di controllo incapacitativo (nel senso proprio di ridurre o contenere le opportunità delle condotte avvertite come socialmente pericolose) nei confronti delle situazioni e dei gruppi a rischio; mentre altrettanto non deve dirsi se il governo locale del bene pubblico della sicurezza si avvale anche, ma non esclusivamente, di azioni mirate - e comunque strumentali ad interventi di altra natura - di contenimento della soglia del rischio. Un esempio per tutti: le strategie di "riduzione del danno" certo appartengono ad una criminologia attuariale se sono fine a sé stesse, nel senso appunto che sono o possono essere utili a contenere e a ridurre i rischi - ben più per la collettività che per gli attori del disagio - insiti in alcune condotte proprie di ben definiti target di soggetti; diversamente, ove la medesima politica sia strumentalmente agita per potere più agevolmente implementare una politica efficace di presa in carico, di aiuto e di soccorso dei soggetti portatori del disagio.

Comunque l’azione di "contrasto" o di intervento sulle opportunità della criminologia attuariale ove agita a livello locale, nel farsi carico delle situazioni problematiche - senza possibilità o volontà di agire sulle cause delle stesse - necessita di un elevato investimento in vis repressiva: non potendo istituzionalmente utilizzare direttamente quella offerta dal sistema di giustizia penale (che ovviamente rimane di stretta riserva statuale), corre sempre il rischio di dovere da un lato, invocare l’intervento repressivo statuale (favorendo ulteriormente l’inflazione dello stesso, nonché la sua vocazione ad esaurirsi in pura funzione simbolica) e dall’altro lato, di valicare i confini tra sfera del penale e dell’amministrativo, operando vere e proprie truffe d’etichetta.

La situazione che può pertanto facilmente determinarsi rischia un esito nefasto: quello di portare le politiche locali della sicurezza a percorrere la scorciatoia di trasformarsi in cassa di risonanza dell’allarme sociale; le amministrazioni locali possono seriamente essere indotte a guadagnare consenso sociale trasformandosi in agenzie di pressione politica sul governo centrale e sulle agenzie reattive (polizia e magistratura) in favore di risposte di natura prevalentemente repressiva.

5.2.Uno scenario a quello sopra esposto diametralmente opposto, nei cui confronti invece va la mia incondizionata simpatia, è quello che assume il governo della sicurezza come contenuto essenziale di una "nuova" - o forse originaria - concezione del welfare, ove il concetto di "benessere" si ampli, dalla sua primitiva e riduttiva sfera di soddisfazione dei bisogni economici a quello di godimento pieno dei diritti .

In effetti il bisogno di sicurezza dei cittadini non è solamente un bisogno di protezione dalla criminalità, ovvero per i soggetti svantaggiati un bisogno di protezione dai processi di criminalizzazione e/o di vittimizzazione. E le nostre ricerche sull’opinione pubblica e sui sentimenti di panico sociale ci confermano in questa convinzione. Il bene pubblico della sicurezza corrisponde al bisogno di essere e di sentirsi sicuri e garantiti nell’esercizio di tutti i propri diritti: diritto alla vita, alla libertà, al libero sviluppo della personalità e delle proprie capacità, diritto di espressione e di comunicazione, diritto alla qualità della vita, così come il diritto di controllare e influenzare realmente le condizioni da cui dipende, in concreto, l’esistenza di ognuno.

  1. E’ di tutta evidenza che le politiche possibili di governo del bene pubblico della sicurezza finiranno per collocarsi all’interno delle posizioni comprese da queste due scenari estremi. Insomma: è improbabile, quanto auspicabile, che il governo della sicurezza si realizzi completamente e felicemente nella massima valorizzazione dell’esercizio dei diritti democratici per tutti; e difficile, anche se possibile, che le politiche locali di governo del bene pubblico della sicurezza si sviliscano in azioni di solo controllo amministrativo del tipo offerto dalla criminologia attuariale.

La questione che pertanto interessa da un punto di vista politico e pertanto "verso" quale scenario ci si avvicina o ci si può avvicinare.

E’ mio convincimento che esistano almeno due condizioni pregiudiziali che ove non si determinassero, porterebbero quasi necessariamente ad allontanarsi pericolosamente dal modello di un governo locale della sicurezza come godimento pieno dei diritti per tutti; con questo non affermo che la realizzazione delle stesse garantisca da ogni pericolo di uno slittamento verso la deriva attuariale.

  1. La prima condizione è data dalla realizzazione di una prospettiva federativa o di forte decentramento amministrativo in favore di un diverso allocazione delle competenze utili ad un governo del bene pubblico a livello locale. Insomma: comunque è fondamentale che i governi locali siano messi in grado di potere governare il bene pubblico della sicurezza.

Dall’analisi attenta degli atti della bicamerale questa speranza rischia di sembrare oramai illusoria: non solo sul tema si tace, ma neppure con sforzi esegetici si può ragionevolmente argomentare una possibilità di intendere diversamente: ogni area attinente alla sicurezza dalla criminalità è ancora assunto come questione di ordine pubblico nell’intransigente affermazione di una riserva assoluta statuale

La situazione così venutasi a determinare, obiettivamente pregiudiziale ad un "fisiologico" diffondersi di una cultura e di una politica della sicurezza delle città, confligge sempre più contraddittoriamente con la circostanza che comunque sulle amministrazioni delle città continuano ad indirizzarsi le aspettative e le domande di sicurezza delle cittadine e dei cittadini e soprattutto che a queste aspettative e domande sociali le amministrazioni locali di fatto non riescano più a sottrarsi.

Siamo quindi costretti a confidare quindi nella ripresa di una prospettiva di riforma istituzionale capace di diversamente declinare nuove forme di partecipazione democratica con il governo della sicurezza. Se a ciò non credessimo come prospettiva ancora possibile per quanto difficile, temo che sarebbe per noi facile pronosticare esiti infausti al processo di crescita democratica delle nostre città di fronte alle sfide presenti e a quelle che ci attendono.

  1. La seconda condizione, altrettanto decisiva ad uno sviluppo in senso democratico delle politiche locali di governo della sicurezza, è data dalla crescita di un movimento riformatore capace di ridefinire i confini di una legalità compatibile al governo stesso della sicurezza.

Certo, quindi, più poteri ai governi delle città, ma nella consapevolezza che la possibilità di governare il bene pubblico della sicurezza nelle città dipende dalle opportunità di offrire anche normativamente un diverso ordine ai grandi disordini sociali..

Con forza ed evidenza diverse, la questione del governo della sicurezza oggi sempre più palesa come inefficace l’arsenale tradizionale e già sperimentato delle politiche di produzione di ordine sociale, tanto quelle repressive che quelle preventive.

Taccio di quelle repressive, di cui è evidente oramai l’inefficacia. Ma anche quelle preventive "tradizionali" - fondate prevalentemente sull’aiuto e sulla solidarietà - si mostrano certo necessarie, ma non sufficienti nella produzione di un governo efficace della sicurezza. In effetti, queste, in buona parte si sono venute costruendo su un modello di intervento nei confronti delle problematicità sociali fondamentalmente imperniate sul paradigma del "deficit" e della "territorialità", nel senso appunto dell’attivazione delle reti che vincolano gli attori sociali portatori di conflitto e di disagio al territorio di appartenenza e nel soddisfacimento, sia pure sempre parziale, dei loro bisogni insoddisfatti..

Purtroppo le nuove soggettività della pericolosità come gli immigrati sempre più sfuggono ad ogni criterio tradizionale di appartenenza al territorio, quantomeno fino a quando non si sarà determinata una situazione avanzata di integrazione, e nel contempo le dimensioni della loro presenza in sfortunata coincidenza con la crisi dello stato sociale, non consentano di essere governate solo con le tradizionali politiche assistenziali

Ma ciò che più emerge con prepotenza è ben altro: nel processo in atto i nuovi soggetti della pericolosità si collocano essenzialmente o prevalentemente e comunque inizialmente come "salariati" - all’interno di mercati illegali che solo ed in quanto perché così "artificialmente" definiti - cioè a prescindere dalla loro "dannosità sociale" e dalla circostanza che comunque essi soddisfano bisogni sociali diffusi e insopprimibili - non possono poi essere disciplinati, ove appunto qualsiasi possibile ordine può essere solo quello criminale. La definizione di questi mercati come illegali - quello della droga, del sesso mercenario, ad esempio - colloca gli stessi in spazi di "libertà selvaggia", pre-contrattuale, egemonizzabili e di fatto egemonizzati da logiche queste sì socialmente pericolose.

La possibilità di un governo quindi della sicurezza suggerisce quindi che si prenda in seria considerazione anche l’opportunità di condurre sia pure in parte questi mercati fuori dalla illegalità, stante che essi non possono comunque essere soppressi fino a quando esisterà una domanda sociale non altrimenti soddisfatta.

  1. Certo, nella situazione presente oggi in Italia. siamo ancora assai lontani dalla realizzazione di queste condizioni "minime" quanto essenziali. Nel contempo, il processo sociale di imputazione di responsabilità nel governo del bene pubblico in capo ai governi locali - certo favorito dal nuovo sistema di elezione del primo cittadino - è in progressiva quanto inarrestabile crescita. La situazione è pertanto quanto mai delicata e politicamente anche pericolosa.

Il poco che si sta muovendo nel senso di un’assunzione responsabile e possibile a livello locale di cultura politica e amministrativa nel governo della sicurezza - penso alla mia Regione ed ad alcune città emiliano - romagnole, penso alle città che partecipano alla sezione italiana del Forum europeo per la sicurezza metropolitana, penso anche all’occasione in cui si inserisce il presente Convegno - soffre del ridotto se non trascurabile spazio di crescita offerto dal dibattito nazionale al tema. Eppure nel programma che sorregge il presente governo nazionale il tema della sicurezza viene indicato, sia pure alquanto timidamente quanto confusamente, come un obiettivo prioritario. Secondo un cattivo costume italico, si rischia ancora una volta di utilizzare un tema, in questo caso quello della sicurezza dei cittadini, non come oggetto di produzione di azione politica quanto come nuovo lessico di comunicazione e di scambio simbolico-politico. Insomma: si corre il rischio che si facciano più convegni, tavole rotonde, si pubblichino libri e ricerche, si affermi a livello di pronunciamento l’eccellenza del governo locale della sicurezza, di quanto non si agisca effettivamente per il governo locale della sicurezza.

 

 

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