Città sicure

 

I Quaderni di Città sicure

Intervento introduttivo di Massimo Pavarini

Coordinatore del Comitato scientifico di "Città sicure"

 

Quale coordinatore del Comitato scientifico del Progetto Città sicure della Regione Emilia-Romagna nella presente occasione mi spetta il compito di presentarVi i risultati dell’intenso lavoro di ricerca portato avanti dal Comitato scientifico, di cui il rapporto sullo stato delle sicurezza nelle nostre città che Vi è stato questa mattina distribuito - unitamente a quello qui presentato solo un mese fa in tema di criminalità organizzata - costituisce solo un momento di sintesi di attività più ampie e complesse che hanno trovato e nel prosieguo ancora troveranno diffusione attraverso la collana dei quaderni di Città sicure.

Il compito proprio di ogni presentazione ai risultati di sintesi di un lavoro di ricerca che ha impegnato molte persone è certo quello di indicare, sia pure in termini sintetici, il "senso" complessivo di questo impegno collettivo, se un "senso" c’è. Ed è mia seria convinzione che esso emerga con forza dall’attività svolta, in particolare in questo terzo anno di intenso lavoro.

Per intendere a pieno ciò, pur nello spazio contenuto di una introduzione, è utile indicare i soli risultati a cui faticosamente è pervenuta l’attività di ricerca e nei cui confronti si esprime un elevato consenso da parte del Comitato scientifico di "Città sicure". Certo, molto altro la ricerca ha prodotto, ma spesso si tratta di conoscenze che meritano di essere altrimenti approfondite e verificate e come per ogni attività scientifica in fieri non merita soffermarsi nella presente occasione che vuole fare il punto sui dati di conoscenza scientificamente più sicuri.

Lo strumento della comunicazione orale certo non è il più consono a comunicare dati di conoscenza complessi, che possono essere pienamente intesi solo nell’attenta lettura di un rapporto che, pur volendo essere di sintesi, quest’anno ha sfondato le quattrocento pagine (contando il primo e il secondo volume in cui è stato diviso il rapporto 1997 sullo stato della sicurezza nella regione Emilia e Romagna), dense di tavole, tabelle, proiezioni, insomma di tanti numeri.

Pertanto non potrò che essere estremamente sintetico, facendo breve cenno alle sole questioni di fondo, quelle che a parere del Comitato scientifico meritano di essere più di ogni altra poste alla Vostra attenzione. Mi riserverò infine nella seconda parte di questa mia presentazione un congruo spazio di tempo per comunicarVi, come per altro in ossequio a quanto avvenuto nelle precedenti presentazioni, alcune raccomandazioni di natura più squisitamente politica che il Comitato scientifico di città sicure si sente di rivolgere a chi ha responsabilità nel governo del bene pubblico della sicurezza a livello nazionale, regionale e cittadino.

Procederò pertanto per punti.

1 Rischio criminale e panico sociale: due continenti tra loro distanti.

Un luogo comune della ricerca in tema di sicurezza è quello di proporre da un lato la doverosa distinzione tra insicurezza oggettiva e insicurezza soggettiva, per poi, in un secondo momento insistere nel trovare tra queste due realtà un qualche rapporto di dipendenza. In buona sostanza ci si interroga se la "misura" del panico sociale sia o meno proporzionale a quella del rischio materiale che effettivamente la collettività corre in un determinato momento, come se le paure collettive potessero essere giudicate come più o meno realistiche, nel senso di più o meno proporzionate ai rischi. In effetti la diversa natura dei fenomeni che si vuole misurare - e la possibilità stessa di "misurare" distintamente la criminalità dalla paura dalla criminalità lascia scientificamente perplessi - impedisce di confrontare realtà ontologicamente disomogenee. Tenere invece distinti i due fenomeni e le conoscenze che si possono produrre su questi, sembra allo stato attuale delle nostre investigazioni molto più proficuo anche nella produzione di strategie di governo degli stessi.

Dal nostro osservatorio regionale ci risulta quindi che la paura dei cittadini siano in parte disgiunte dal rischio effettivo di vittimizzazione.

Esaminiamo per ora separatamente le due realtà - sicurezza oggettiva e sicurezza soggettiva - ci sembra utile per potere individuare l’emergere di una questione problematica di notevole peso politico.

2. Le nostre città un tempo così sicure

Per quanto concerne le conoscenze per ora acquisite in tema di insicurezza oggettiva nel territorio regionale, possiamo affermare che la delittuosità nel suo complesso in Emilia-Romagna segna nel tempo una crescita, sia pure assai disomogenea per le diverse famiglie di reato e altrettanto disomogeneamente distribuita sul territorio; che questa tendenza è sostanzialmente e con ben poche eccezioni nel senso di quella registrata a livello nazionale, sia pure di intensità sovente maggiore; ed infine che comparativamente i tassi di delittuosità sono di norma al di sotto della media nazionale e rispetto agli altri territori regionali collocano la nostra in una posizione sostanzialmente intermedia. Si può cioè convenire che la criminalità "apparente" sia di molto aumentata nel tempo e ancor di più di quanto di norma sia dato registrare a livello nazionale, pur essendo relativamente alla popolazione residente ancora contenuta.

In particolare i reati contro la proprietà hanno conosciuto nel nostro territorio regionale un incremento eccezionale negli ultimi anni; per quanto i tassi di criminalità predatoria siano ancora inferiori a quelli della media nazionale, la nostra regione spunta il settimo posto nella graduatoria delle regioni, superando nel 1995 il Piemonte ed il Veneto, dietro ai quali si collocava solo l’anno precedente. Diversamente invece per i reati contro la persona rispetto ai quali l’Emilia-Romagna registra negli ultimi anni tassi di crescita leggermente superiori alla media nazionale, collocandosi ciò nonostante ancora tra le ultime regioni per questa classe di reati. Per altre famiglie di reato, come i delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio e quelli contro la famiglia, se pure variazioni nel tempo si registrano ed anche in contro-tendenza con quelle nazionali, unitariamente intese e relativizzate alla popolazione residente, esse collocano ancora la nostra regione in una posizione abbondantemente lontana dalle prime posizioni.

Nella città dell’Emilia-Romagna sono quindi in forte aumento borseggi, scippi, rapine e furti in appartamento: Rimini, Bologna e Modena sono quelle con il maggior numero percentuale di reati denunciati, Forlì, Ravenna e Ferrara quelle che sotto quest’ottica ci appaiono come più sicure.

E’ insomma difficile sfuggire all’evidenza palesata da questi dati di sintesi: ciò che segna inequivocabilmente il nostro territorio è la forte crescita nel tempo delle denuncie nei confronti dei reati contro la proprietà. Ed in effetti ciò che stupisce non sono tanto i tassi raggiunti nelle denuncie nei confronti della criminalità predatoria - per altro sempre e tuttora inferiori alle medie nazionali - quanto i livelli sorprendentemente "bassi" che solo un decennio fa segnavano la nostra regione. E questa è una circostanza di non facile spiegazione. Si è infatti avvezzi a giustificare la crescente esposizione al rischio di illegalità opportunistica facendo riferimento alla diffusa ricchezza economica del nostro territorio secondo il paradigma esplicativo della criminalità come opportunità. Se questo modello interpretativo può essere utile per dare conto nel lungo periodo dell’incremento crescente della criminalità predatoria nelle società segnate da diffuso benessere, esso non è in grado di spiegare esaurientemente la realtà nel breve periodo: l’Emilia Romagna risultava altrettanto ricca o più ricca di altre regioni italiane anche dieci anni fa e comunque essa era ed è più ricca della media delle altre pur registrando ancora un tasso di delittuosità predatoria comparativamente inferiore al resto del paese. La questione pertanto dovrebbe essere esaminata tenendo nel dovuto conto che livelli anche invidiabili di benessere economico non sempre si accompagnano a livelli altrettanto soddisfacenti di benessere sociale e che pertanto nelle trasformazione di quest’ultimo dovrebbero probabilmente essere cercate le ragioni della crisi del modello emiliano-romagnolo anche sotto il profilo della sicurezza.

Affatto paradossalmente ciò che emerge come questione meritevole di essere spiegata non è tanto l’aumento nel tempo di alcune forme di criminalità nel territorio regionale emiliano-romagnolo tale da avvicinarci sempre più alla normalità nazionale, quanto piuttosto perché questo processo di "rincorsa" si sia determinato solo nell’ultima decade, e soprattutto perché i livelli di partenza per lungo tempo ci distanziassero e di tanto dalle medie nazionali.

Questi interrogativi hanno animato in più occasioni la discussione all’interno del comitato scientifico. Ricordo con piacere i momenti di più partecipata tensione interpretativa, quando appunto si è cercato di superare il primo livello descrittivo delle nostre ricerche per tentare un possibile approccio esplicativo capace di dare ragione di questa singolare particolarità che ha visto per così lungo tempo le nostre città relativamente preservate" dai processi criminali che si stavano diffondendo altrove. Il tema di discussione poteva essere ricondotto a quello appunto della specificità del modello di vita emiliano-romagnolo, in cui il grado elevato di senso civico, la condivisione radicata dei valori di solidarietà e della democrazia, nonché la tradizionale tensione politica dei cittadini delle nostre città felicemente convivevano con un benessere economico diffuso e una tradizione di buona amministrazione. Possiamo assumere che tutto ciò ci rendesse "diversi" anche sotto il profilo della sicurezza oggettiva ?; ed anche se pur parzialmente convenissimo in ciò, alla sola crisi di quello stile di vita - politica, culturale, sociale - dobbiamo attribuire la causa prima del processo di "normalizzazione" criminale?. Ovvero, la repentina crescita nei tassi di delittuosità predatoria, deve essere ricercata nella determinazione altrettanto repentina nel territorio della nostra regione di nuove diseguaglianze sociali ? Ovvero ancora: le agenzie reattive di contrasto alla criminalità sono progressivamente venute assumendo un atteggiamento di maggiore severità ? Domande che non hanno ancora trovato risposta; certo è che se dovessimo attribuire un qualche peso al processo di "omologazione" negli stili di vita collettiva e individuale quanto al determinarsi di processi di diseguaglianza sociale, dovremmo azzardare l’infausta prognosi di un ulteriore aumento nel prossimo futuro di alcune fenomenologie devianti e criminali nel nostro territorio.

3. Nostalgie, indignazione e fragilità sociali

Se il rischio oggettivo da criminalità è in aumento - e forse ancora aumenterà nel tempo - non possiamo semplicisticamente attribuire a ciò solamente il "diffondersi" nella nostra comunità del panico sociale.

L’interesse nei confronti dei risultati oramai confermati da tre rilevamenti periodici sull’opinione pubblica in tema di rappresentazioni collettive si esalta appunto nell’avere progressivamente messo in crisi la stessa funzionalità euristica della nozione di insicurezza soggettiva, come sentimento indifferenziato di ordine sociale o se si vuole di cultura della legalità diffuso nell’opinione pubblica emiliano-romagnola. Ben diversamente da quanto potevano presupporre, i bisogni e le domande sociali che esprimono le cittadine e i cittadini delle nostre città di fronte ai fenomeni assunti convenzionalmente come produttori di disordine si dispiegano in un ventaglio assai variegato e spesso anche contraddittorio di indicazioni non univocamente e neppure prevalentemente orientate alla riconferma dell’ordine legale; come dire che assumere un rapporto diretto tra diffondersi del panico sociale e domanda sociale di maggiore penalità è solo imputabile ad un vizio nella comunicazione politica.

Risulta anche messo in crisi il luogo comune del diffondersi dell’allarme sociale nelle nostre collettività cittadine; nella ricerca condotta quest’ultimo anno, la paura in astratto delle cittadine e dei cittadini della nostra regione tende significativamente a diminuire rispetto ai livelli registrati negli anni passati e ad avvicinarsi sempre più a quello della paura in concreto, lasciando emergere il peso determinante di alcune variabili soggettive - quelle che stigmatizzano situazioni di fragilità sociale - nella produzione di sentimenti di paura.

Dalle ricerche fino ad ora condotte in tema di rappresentazioni sociali di sicurezza/insicurezza dalla criminalità abbiamo anche potuto registrare non solo come il passaggio dalla paura in astratta a quella in concreto e da questa alle azioni effettive di evitamento registri, nel tempo, un andamento meno accentuato, ma soprattutto come ciò che viene soggettivamente più temuto è sovente qualche cosa di profondamente irrelato con il rischio criminale. In altre parole le paure non si rapportano quasi mai ai rischi effettivi di vittimizzazione, ma, in alcune limitate ipotesi, alla presenza di persone, situazioni e modalità comportamentali avvertite come culturalmente estranee - e pertanto sofferte come segni di degrado sociale; altre volte, e certo con più frequenza, esse ci appaiono come espressione di identità socialmente fragili e quindi più esposte nella determinazione di sentimenti sospesi tra nostalgia per il passato ed insofferenza per il presente.

Se la categoria della paura della criminalità non ci sembra quindi utile nel definire e comprendere i sentimenti diffusi di estraneità e ostilità presenti in alcuni ed ancora limitati segmenti delle collettività cittadine della nostra regione, probabilmente altrettanto sembra doversi argomentare del modo usuale in cui si ritiene si costruisca la domanda sicuritaria. Questa, quando emerge, non sempre è eziologicamente determinata dal panico sociale, ovvero solo da questo. I comitati di cittadini contro la criminalità - come ci viene testimoniato dalla ricerca condotta su un campione rappresentativo di essi e di cui diamo conto anche nel presente rapporto, e come mi è stato possibile constatare di persona solo venerdì scorso alla presentazione in Consiglio Comunale del secondo rapporto sullo stato di sicurezza a Modena, con l’ampia democratica e positiva partecipazione attiva di alcuni rappresentanti dei comitati cittadini - sembrano fondamentalmente costruirsi più nella condivisione di sentimenti di sgomento e di indignazione morali per la nuova visibilità sociale di alcune realtà problematiche e devianti (appunto come lo spaccio di droga e la prostituzione), che su quelli di vera e propria paura della criminalità.

In altre parole, ci sembra di potere convenire sulla presenza di un complesso processo di ridefinizione dei confini dell’ordine morale in atto nelle nostre comunità cittadine, processo che potrebbe qualificarsi anche diversamente nel nostro territorio in ragione della crisi di quel sentimento forte di condivisione ad uno stile di vita collettiva ed individuale che ci rendeva, con una punta di meritato orgoglio, più diversi ieri che oggi al resto del Paese.

Da queste brevi osservazioni, alcune note di intensa problematicità politica:

Allo stato delle nostre conoscenze, è realistica una prognosi infausta per quanto concerne un ulteriore aumento della criminalità diffusa nel nostro territorio, ma nel contempo possiamo azzardare che i sentimenti di insicurezza delle nostre collettività cittadine non tanto rispetto a questi saranno particolarmente sensibili; essi invece tenderanno sempre più a soffrire degli effetti dei processi di trasformazione - e dei relativi squilibri conflitti esasperazioni - oggi in atto, che caratterizzano sempre più il nostro disordinato pianeta di fine millennio. Penso in primis ai processi connessi al fenomeno dell’immigrazione, quale effetto delle insopportabili diseguaglianze tra nord e sud del mondo.

Si corre pertanto il rischio, che su sollecitazione dell’opinione pubblica, ci si illuda di volere contrastare tutti i nuovi fenomeni di disordine sociale sotto la fallace disciplina dell’ordine normativo repressivo, che vi vada cioè incontro ad un pericolosissimo fenomeno di ampliamento della sfera dell’illecito. Ma questa è solo una possibilità: la situazione aggi determinatasi apre anche un possibile diverso versate: che di fronte ai nuovi fenomeni di disordine sociale, si sperimentino più saggiamente anche strategie di disciplina e di ordine che utilizzino strumenti diversi da quello solo penale.

4 Disordine sociale, mercati illegali e pericolosità

La nostra analisi della questione sicuritaria nel territorio emiliano-romagnolo non si è pertanto limitata allo studio dei fenomeni normativamente definiti come criminali, nella consapevolezza che lo stato di sicurezza o insicurezza di una comunità non può certo essere dedotto da definizioni convenzionali, quali appunto quelli fornite dalla legge penale.

Gli interessanti approfondimenti tematici sul fenomeno dell’abusivismo commerciale e della prostituzione di strada nella riviera romagnola sono due esempi pertinenti di complesse realtà che sfuggono da ogni diretta definizione criminale - come per altro deve dirsi dello stesso consumo massivo di droghe illecite - ma che ciò nonostante ben più di altre realtà penalmente illegali, sono sempre più al centro di ciò che noi assumiamo come questione della sicurezza, cioè sono sempre più elementi decisivi nella produzione del disordine sociale, sia nelle percezioni soggettive quando nelle politiche di governo del bene pubblico della sicurezza.

In particolare alcuni di questi fenomeni - come la prostituzione e lo spaccio di droghe - si offrono con la particolarità (che la letteratura criminologica definisce di "devianza senza vittime"), ma che noi possiamo altrimenti riconoscere in un’ottica economica, come offerta di prestazioni all’interno di mercati segnati da livelli diversi di illegalità, ma singolarmente di una illegalità nei confronti di chi offre e mai di chi domanda. Ebbene questi mercati hanno subito nel tempo rilevantissime trasformazioni - tanto sul piano della domanda, che certo è di molto aumentata, che dell’offerta -, a tal punto che alcuni processi ad essi connessi, sono oggi al centro più che mai della preoccupazione sia dei cittadini che di chi ha responsabilità di governo delle città.

Diverse le peculiarità che segnano le trasformazioni di questi mercati ad offerta illegale e a domanda lecita: la prima è certo la palesata incapacità di governarli attraverso politiche reattive mirate ai soli attori dell’offerta; la seconda - in parte quale conseguenza delle politiche di criminalizzazione del mercato - è poi costituita dal rapido ricambio sul fronte degli attori dell’offerta, cioè del prevalente reclutamento tra gli immigrati di chi offre nelle strade delle nostre città, droga e sesso mercenario. Questi fenomeni oggi particolarmente sofferti in molte città della nostra regione sovente lo sono non perché inusitati - la prostituzione e lo spaccio di droga da lungo tempo segnano pesantemente alcune zone delle nostre città, spesso le medesime - ma per la visibilità che questi mercati sono venuti progressivamente acquistando, visibilità connessa sia alla loro crescita quantitativa sia soprattutto alle modalità, percepite come offensive, in cui sovente i nuovi attori dell’offerta, gli immigrati, sfidano la concorrenza

Certo siamo ben lontani (ancora) da una percezione sociale diffusa portata ad appiattire la figura dell’immigrato su quella dello spacciatore e della prostituta, e in questo senso si può dire che lo straniero immigrato, neppure quando clandestino, sia percepito nelle nostre comunità come pericoloso in sé, in quanto criminale o deviante. Ma il rischio che questo processo di eticchettamento possa determinarsi è presente, in particolare ove non fossimo in grado di produrre politiche efficaci di integrazione sociale nei confronti di chi emigra nel nostro paese e nelle nostre città.

5. La risorsa locale

Dalle compilazioni delle grandi mappe in cui si cerca con fatica di descrivere la questione della sicurezza nel territorio emiliano-romagnolo l’attività del comitato scientifico di "Città sicure" si è anche misurato con i risultati prodotti da ricerche-azioni su territori limitati e/o su tematiche definite: da quelle che si sono concentrate su alcuni profili di disagio in alcuni quartieri delle nostre città ovvero su piccoli comuni, a quelle che hanno privilegiato solo alcune situazioni problematiche (come appunto la prostituzione di strada a Rimini e l’abusivismo commerciale sulla costa romagnola).

Queste diverse esperienze concordano nel confermarci un aspetto di fondo, apprezzabile politicamente: tanto più si affronta un tema specifico e limitato nell’intento non solo di conoscerlo ma soprattutto di indicare possibili strategie di governo, tanto più si scoprono risorse e potenzialità inaspettate capaci di suggerire gestioni alternative possibili ed effettivamente praticabili alla problematicità stessa. E l’inaspettata sorpresa che sovente è possibile rispondere diversamente ad un problema facendo riferimento alle opportunità specifiche di quel territorio, rischia di contrapporsi alla sconsolata consapevolezza dell’impossibilità di diversamente governarlo a livello di politiche generali, come appunto quelle nazionali.

Mi sembra quindi che si possa trarre da queste esperienze di ricerca-azione un primo suggerimento che se ulteriormente confermato definisce un terreno nuovo di riflessione politica, così sintetizzabile: per quanto i fenomeni che definiscono la situazione della sicurezza anche a livello locale di norma siano da ricondurre a complessi processi che sfuggono a questa dimensione (e a ben intendere spesso anche a quella nazionale), a determinate condizioni il governo degli stessi è spesso non solo passibile, ma più agevole, facendo riferimento alla sola dimensione locale.

Ma appunto solo a determinate condizioni; esse, in estrema sintesi mi sembrano due: una prima, che si sostanzia nella possibilità effettiva del governo locale di agire, possibilità in effetti non sempre data dal quadro normativo di riferimento in tema di competenze; una seconda, altrettanto vitale, che impone che l’azione di governo locale sul problema possa trovare una sponda robusta nelle politiche nazionali. Ma conviene esaminare separatamente le due questioni.

6. La prospettiva federalista: fine di una illusione?

Le raccomandazioni al secondo rapporto sullo stato della sicurezza nella nostra regione si fondavano su un auspicio: che il dibattito nazionale allora agli inizi in tema di riforme istituzionali conoscesse in una prospettiva federativa o di forte decentramento amministrativo una chiara indicazione in favore di un diverso allocazione delle competenze utili ad un governo del bene pubblico a livello locale.

Dall’analisi attenta degli atti della bicamerale questa speranza rischia di sembrare oramai illusoria: non solo sul tema si tace, ma neppure con sforzi esegetici si può ragionevolmente argomentare una possibilità di intendere diversamente: ogni area attinente alla sicurezza dalla criminalità è ancora assunto come questione di ordine pubblico nell’intransigente affermazione di una riserva assoluta statuale

La situazione così venutasi a determinare, obiettivamente pregiudiziale ad un "fisiologico" diffondersi di una cultura e di una politica della sicurezza delle città, confligge sempre più contraddittoriamente con la circostanza che comunque sulle amministrazioni delle città continuano ad indirizzarsi le aspettative e le domande di sicurezza delle cittadine e dei cittadini e soprattutto che a queste aspettative e domande sociali le amministrazioni locali di fatto non riescano più a sottrarsi.

Si assiste così al determinarsi di una situazione rischiosa: nel momento in cui - con più o meno convinzione, con più o meno consapevolezza - i governi democratici delle nostre città di fatto aderiscono al pressante invito di "farsi carico" della sicurezza cittadina, ebbene, nello stesso momento, si affievolisce la speranza di potere contare su quelle competenze sempre più avvertite come necessarie per un appropriato governo della stessa. La situazione venutasi così a determinare rischia pertanto un esito nefasto, per altro sempre paventato nelle raccomandazioni del comitato scientifico di "Città sicure": quello, da un lato, di delegittimare i governi delle città, perché impossibilitati, a dare risposte soddisfacenti in tema di governo della sicurezza; dall’altro lato - ma di conseguenza, al fine appunto di sfuggire ai pericoli di delegittimazione - di costringere le politiche locali della sicurezza a percorrere la scorciatoia di trasformarsi in cassa di risonanza dell’allarme sociale; le amministrazioni locali possono seriamente essere indotte a guadagnare consenso sociale trasformandosi in agenzie di pressione politica sul governo centrale e sulle agenzie reattive (polizia e magistratura) in favore di risposte che ben sappiamo quanto siano inefficaci.

Sciolti oramai gli ormeggi dal sicuro porto del "non mi compete", sospinti velocemente nel procelloso mare del governo del bene pubblico della sicurezza, l’imputazione sociale di responsabilità in capo ai governi delle città è stato di intensità tale da non consentire più azioni di arretramento verso mari meno agitati. La sola alternativa capace a questo punto di scongiurare il pericolo sopra evidenziato è che al crescere dell’impegno e della cultura politica delle città in tema di governo del bene pubblico della sicurezza faccia seguito un diverso assetto delle competenze e poteri.

Non possiamo che confidare quindi nella ripresa di una prospettiva di riforma istituzionale capace di diversamente declinare nuove forme di partecipazione democratica con il governo della sicurezza. Se a ciò non credessimo come prospettiva ancora possibile per quanto difficile, temo che sarebbe per noi facile pronosticare esiti infausti al processo di crescita democratica delle nostre città di fronte alle sfide presenti e a quelle che ci attendono.

E le cose già stanno muovendosi, ma quanto confusamente e con quanti rischi se non si arriva in tempi brevi a porre ordine. Le proposte sono appunto tante: da quelle che prudentemente si limitano ad invocare una partecipazione formalizzata dei sindaci ai Comitati provinciali per l’ordine alla sicurezza; a quelle che suggeriscono l’istituzione di un comitato territoriale di coordinamento a livello regionale con l’abolizione degli attuali comitati provinciali; da quelle che auspicano una sorta di cabina di regia che si collochi a monte dei comitati provinciali e che sia presieduta dal sindaco; a quelle che pensano alla possibilità che il sindaco possa avvalersi delle polizie di stato; da quelle emerse dalla conferenza delle città metropolitane che indicano il Sindaco come autorità politica per la sicurezza urbana e il Prefetto per la sola criminalità organizzata; a quelle che confermano il Sindaco come autorità di sola polizia locale con il compito di garantire il diritto alla sicurezza delle città avvalendosi della sola polizia municipale; da quelle - in altre occasioni avanzate dalla presidenza di questa giunta regionale - che ipotizzano l’arma dei Carabinieri come polizia di contrasto alla criminalità organizzata e la polizia di stato come polizia dedicata alla sicurezza delle città; a quell’ ultima avanzata dal Polo che indica il Sindaco come autorità locale di pubblica sicurezza e capo della polizia municipale al fine di contrastare la criminalità con misure di prevenzione ante-delictum e controllare l’immigrazione clandestina.

Se a tutte guardiamo con interesse, dobbiamo anche stigmatizzare come esse siano spesso tra loro conflittuali. Si avverte l’urgenza di un principio ordinatore, di un quadro di riferimento d’insieme che consenta di valorizzare i diversi punti di vista e di contenere nel contempo le spinte corporative che sovente le animano.

Da qui una raccomandazione che il Comitato scientifico si sente di rivolgere al Presidente del Consiglio: perché non istituire al più presto una commissione - come appunto proficuamente si è fatto per la riforma dello stato sociale - presso la presidenza del Consiglio che assuma come oggetto di studio e di proposta riformatrice il tema della sicurezza e della necessaria riforma degli apparati (giudiziari e di polizia)?

7. Legalità e ordini "possibili" nelle città

Certo, quindi, più poteri ai governi delle città, ma nella consapevolezza che la possibilità di governare il bene pubblico della sicurezza nelle città dipende dalle opportunità di offrire anche normativamente un diverso ordine ai grandi disordini metropolitani..

Con forza ed evidenza diverse, la questione del governo della sicurezza oggi sempre più palesa come inefficace l’arsenale tradizionale e già sperimentato delle politiche di produzione di ordine sociale, tanto quelle repressive che quelle preventive.

Taccio di quelle repressive, di cui è evidente oramai l’inefficacia. Ma anche quelle preventive "tradizionali" - fondate prevalentemente sull’aiuto e sulla solidarietà - si mostrano certo necessarie, ma non sufficienti nella produzione di un governo efficace della sicurezza. In effetti, queste, in buona parte si sono venute costruendo su un modello di intervento nei confronti delle problematicità sociali fondamentalmente imperniate sul paradigma del "deficit" e della "territorialità", nel senso appunto dell’attivazione delle reti che vincolano gli attori sociali portatori di conflitto e di disagio al territorio di appartenenza e nel soddisfacimento, sia pure sempre parziale, dei loro bisogni insoddisfatti..

Purtroppo le nuove soggettività della pericolosità come gli immigrati sempre più sfuggono ad ogni criterio tradizionale di appartenenza al territorio, quantomeno fino a quando non si sarà determinata una situazione avanzata di integrazione, e nel contempo le dimensioni della loro presenza in sfortunata coincidenza con la crisi dello stato sociale, non consentano di essere governate solo con le tradizionali politiche assistenziali

Ma ciò che più emerge con prepotenza è ben altro: nel processo in atto i nuovi soggetti della pericolosità si collocano essenzialmente o prevalentemente e comunque inizialmente come "salariati" - all’interno di mercati illegali che solo ed in quanto perché così "artificialmente" definiti - cioè a prescindere dalla loro "dannosità sociale" e dalla circostanza che comunque essi soddisfano bisogni sociali diffusi e insopprimibili - non possono poi essere disciplinati, ove appunto qualsiasi possibile ordine può essere solo quello criminale. La definizione di questi mercati come illegali - quello della droga, del sesso mercenario - colloca gli stessi in spazi di "libertà selvaggia", pre-contrattuale, egemonizzabili e di fatto egemonizzati da logiche queste sì socialmente pericolose.

La possibilità di un governo quindi della sicurezza suggerisce quindi che accanto alla oramai non più procrastinabile politica di integrazione sociale dei nuovi cittadini immigrati nel perseguimento dell’estensione dei diritti di piena cittadinanza, si prenda in seria considerazione anche l’opportunità di condurre sia pure in parte questi mercati fuori dalla illegalità, stante che essi non possono comunque essere soppressi fino a quando esisterà una domanda sociale non altrimenti soddisfatta.

Certo il discorso non è nuovo, anzi. Nuova, ci sembra invece la prospettiva che il comitato scientifico di "Città sicure" assume nel rivolgere anche questa raccomandazione al governo della regione Emilia-Romagna, di farsi cioè promotore di un rilancio a livello nazionale del tema politico di una redifinizione più ampia della legalità.

Questa raccomandazione non ci pare ideologica; essa al contrario fa tesoro di quanto abbiamo potuto indagare scientificamente nel territorio di questa ragione ed è animata dall’intento comune di produrre le condizioni di un governo possibile della sicurezza nelle nostre città. Come persone che apprezzano il bene pubblico della sicurezza, invochiamo quindi i soli ordini possibili, ovvero le migliori possibilità per produrre più ordine.

 

 

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