Ripensare il carcere...

 

Il Giubileo come opportunità per ripensare il carcere

  di Sergio Segio

 

"Tu conterai sette settimane di anni, sette volte sette anni, il periodo di sette settimane di anni è quarantanove anni. Farai risuonare il corno dell’acclamazione nel settimo mese, il dieci del mese; nel giorno di espiazione farai risuonare il corno in tutta la vostra terra. Dichiarerete sacro il cinquantesimo anno e proclamerete nel paese la libertà per ogni suo abitante. Sarà per voi un giubileo; ognuno tornerà nei suoi possessi, ognuno tornerà nella sua famiglia".
(Lv 25, 8-10)
 
L’origine del Giubileo è quella di un evento riparatorio: per restituire le terre, i possedimenti e, assieme, la giustizia e la libertà. Restituire, riparare, consentire a ognuno di tornare alla famiglia, ritrovare e rinnovare periodicamente condizioni di parità e di eguaglianza tra gli uomini, riveste sia il senso della riconciliazione, sia quello della correzione delle imperfezioni delle leggi degli uomini e dell’amministrazione della giustizia.
Il tema della redistribuzione delle ricchezze e della remissione del debito internazionale trovano oggi, nell’anno giubilare che si affaccia, una nuova ed evidente attualità, non solo sotto il profilo etico e morale ma anche della stessa proposta politica e sociale.
Un’attualità, peraltro, che in questo scorcio di secolo ha assunto tratti di crescente drammaticità, con l’estendersi dei processi di globalizzazione, con il radicalizzarsi delle politiche liberiste, con la prepotente primazia delle ragioni economiche e delle logiche del mercato, con l’indiscusso potere di indirizzo politico gestito dal Fondo monetario e dalla Banca mondiale, attraverso la subordinazione dei crediti internazionali ai Paesi del Terzo mondo, ma anche dell’Europa orientale e della stessa CSI a determinati parametri, ovvero a scelte interne sul piano sociale che, non di rado, producono o rafforzano povertà (vecchie e nuove, materiali e spirituali), disuguaglianze, sfruttamento, pregiudizio del futuro, annichilimento della dignità e della speranza per centinaia di milioni di uomini, donne e bambini ai quattro angoli della Terra.
Da qui, anche, i ripetuti moniti e accorati inviti da parte di Giovanni Paolo II a ristabilire equità economica e dignità umana, ridistribuendo le risorse, contenendo gli sprechi e l’egoismo dei Paesi ricchi e, specificatamente, ribadendo la proposta di "cogliere nel presente tempo storico, in cui ci si prepara al grande Giubileo, il tempo opportuno per una consistente riduzione, se non proprio per il totale condono, del debito internazionale che grava come un macigno sul destino di molte nazioni del mondo" (cfr. preghiera dell’Angelus, 1° marzo 1998).
Ed è certo solo attraverso gesti concreti e sinceri che contribuiscano a sgretolare questo "macigno" che i credenti, ma non solo loro, potranno degnamente varcare la soglia del nuovo millennio. Sfuggendo così, oltre tutto, il rischio che tale straordinario evento, anziché opportunità di riconciliazione e di ristabilimento di giustizia, risulti semplice celebrazione o, addirittura, occasione di affari e arricchimento; anziché diventare momento di pellegrinaggio nel segno del perdono e dell’indulgenza, anziché essere "esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore" (Giovanni Paolo II, Bolla di indizione del Grande Giubileo dell’Anno 2000), si riduca a turismo nel segno del commercio o della speculazione.
Ma tra i segni che accompagnano e caratterizzano storicamente il Giubileo, oltre al pellegrinaggio (il cammino) e alla porta santa (il passaggio), vi è indubbiamente l’indulgenza. Tema che può con più evidenza collegarsi direttamente all’impegno specifico e agli obiettivi culturali e sociali della Fondazione Carcere e Lavoro e costituire una traccia, un filo conduttore per le prime iniziative, proprio per sollecitare e per contribuire a una riflessione pubblica sul complesso problema del carcere, che anch’esso, in certo senso, costituisce un piccolo "macigno" che condiziona la vita e pregiudica le speranze di tante persone. Un piccolo macigno che si affianca (ma in qualche modo anche somiglia) a quello, enorme e certo più drammatico, che schiaccia e umilia intere aree del pianeta e che si chiama povertà e ingiustizia sociale.
Seguendo questo filo di ragionamento, infatti, non possiamo non tenere presente (e, soprattutto, dobbiamo cercare di rendere più evidente nella coscienza e nell’informazio-ne della società intera) che i nostri penitenziari sono, al 90%, pieni di poveri, anzi di poveri due volte: perché persone prive di libertà e, prima e assieme, di istruzione e di mezzi economici. Dei 52.854 presenti in carcere al 1° gennaio 2000 (al 31 marzo 2000 erano già saliti a 53.538), meno del 5% ha effettuato studi superiori (1.939 diplomati alla scuola media superiore e 445 laureati: cifre, peraltro, innalzate dalla forte presenza extracomunitaria, spesso più scolarizzata). Solo un quarto (12.951 persone) di essi possedeva un’oc-cupazione lavorativa prima della reclusione.
Insomma, "Il carcere è una specie di moderno lazzaretto, chiamato a contenere fasce di povertà culturale e materiale, di disagio e di malattia": una definizione cruda, ma purtroppo realistica e veritiera, del resto ormai ufficializzata in atti istituzionali (cfr. Bozza di Relazione sull’attività del Comitato permanente per i problemi penitenziari della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, aprile 1999).
È indubbio - e anche questo va detto con nettezza - che la condizione di povertà e sia pure la sottrazione o privazione di quelle opportunità sancite dalle leggi e affermate dalla Costituzione quali diritti da garantirsi a ogni cittadino (per primi quelli all’istruzione, all’abitazione e al lavoro) non giustificano il delitto, il ricorso a reati.
Ma nemmeno è giustificabile e accettabile (per un sistema penale e carcerario civile, per una società democratica e per la comunità dei credenti) la rinuncia ad adoperarsi sino in fondo per consentire il recupero del reo, ovvero il reinserimento del recluso nella società: perché è questo l’obiettivo e la necessità – il reinserimento, un positivo percorso educativo e risocializzante - che, veramente e pienamente, garantisce, a un tempo, sicurezza sociale e rispetto dell’ina-lienabile dignità di ogni uomo. È solo così che si promuove veramente la possibilità di cambiamento, vale a dire, seguendo l’etimologia, di conversione. "Il perdono, concesso gratuitamente da Dio, implica come conseguenza un reale cambiamento di vita, una progressiva eliminazione del male interiore, un rinnovamento della propria esistenza" (Giovanni Paolo II, Bolla di indizione del Grande Giubileo dell’Anno 2000).
Ecco perché se, riguardo ai poveri, e seguendo sempre le parole del Pontefice, il Giubileo deve anche essere occasione e richiamo affinché "specialmente i Paesi ricchi e il settore privato assumano la loro responsabilità per un modello di economia al servizio di ogni persona", lo stesso evento può e deve diventare momento di riflessione e proposta rivolta ai poveri di libertà, a quanti vivono la condizione di reclusi e possono e debbono essere aiutati a compiere un cammino, a operare il passaggio dal delitto alla responsabilità e, assieme, dalla disperazione alla speranza, dalla solitudine alla comunità, dall’errore alla dignità. Ma, allora, diventa nostra responsabilità il costruire le condizioni, rafforzare le opportunità, promuovere le possibilità affinché vi possa essere effettivamente, per chi è in carcere, rinnovamento della propria esistenza, un nuovo cammino da percorrere, delle nuove porte che si aprano.
Ciò significa determinare dentro i penitenziari maggiori possibilità di formazione, di lavoro, di percorsi educativi, di cura. Ma, prima ancora, significa riflettere più approfonditamente sul senso stesso della pena, determinando, all’esterno delle carceri, una nuova solidarietà e accoglienza, una maggiore informazione, una diversa opinione diffusa, una cultura sociale più attenta all’uomo e al cambiamento.
Nell’opinione pubblica e nel senso comune, nella società civile e nello stesso mondo ecclesiale facilmente si tende a considerare il carcere come unica modalità di esecuzione di una pena. Da qui anche derivano molte polemiche e certi ricorrenti allarmismi verso e contro determinate norme (legge "Simeone-Saraceni", riforma "Gozzini") e, in generale, verso le cosiddette pene alternative. Pene che, già nel linguaggio corrente, vengono chiamate "benefici", di nuovo e così smarrendo la loro natura di sanzione e il loro contenuto che è, comunque, di controllo e limitazione della libertà.
Di certo, nella pratica, la pena alla reclusione anziché essere, come dovrebbe, extrema ratio, soluzione ultima e dolorosa, ancorché reputata, in particolari casi, difesa sociale necessaria in quanto inevitabile, diventa frequentemente la pena più diffusa e immediata, quella più facilmente comminata, a prescindere dalla effettiva gravità del bene pubblico e privato leso o della reale pericolosità dell’autore. Ciò è comprovato dalla stessa composizione della popolazione carceraria: in gran parte tossicodipendenti e immigrati extracomunitari. Sui 90.486 nuovi ingressi in carcere nel corso del 1999, 29.115 hanno riguardato tossicodipendenti e 28.204 stranieri. Al 1° gennaio 2000, oltre la metà (14.820) dei 28.298 detenuti definitivi scontava una condanna sotto i cinque anni, dunque relativamente bassa. Ben 8.783, sempre sui 28.298 condannati definitivamente, aveva una pena residua ancora da scontare inferiore a 1 anno. Cifre che dimostrano come la gran parte sconti per intero in carcere le condanne, a dispetto delle polemiche sulla presunta ineffettività delle pene, e che molti potrebbero (per scarsa pericolosità del reato compiuto, per quantità di pena già espiata, per cammino di responsabilizzazione e recupero già compiuto) essere scarcerati o ammessi a pene alternative (peraltro con beneficio economico, poiché tenere persone in carcere costa assai più che reinserirle).
Questi accenni servono a ricordare che il carcere spesso è inutile, antieconomico e può risultare addirittura dannoso e produrre ingiustizie. Di fronte a un suo utilizzo crescente e spesso eccessivo, risulta ancor più difficile ricordare, e spiegare a un’opinione pubblica allarmata, che, se il concetto della punizione affonda nella notte dei tempi, il carcere non è sempre esistito: anzi, si tratta di un’istituzione relativamente recente.
L’anno giubilare, nel corso della meditazione attorno ai compiti e ai limiti della giustizia umana, può e deve incontrare la dimensione laica della riflessione sul nodo pena-carcere. Anche su questo, in particolare, vi può essere il contributo delle nostre iniziative, con lo sforzo di saper tenere assieme l’internità e collegamento con la riflessione specifica sul Giubileo che anima la comunità dei credenti ed ecclesiale, con un’analisi alta, anche sul piano etico e filosofico, sulla pena e con proposte concrete sul carcere.
 
"Lo spirito del Signore Dio è su di me,
perché il Signore mi unse,
mi inviò a evangelizzare gli umili,
a fasciare quelli del cuore spezzato
e proclamare la libertà ai deportati,
la liberazione ai prigionieri,
a proclamare un anno di grazia da parte del Signore,
un giorno di vendetta da parte del nostro Dio,
per consolare tutti gli afflitti,
per dare loro un diadema invece di cenere,
olio di letizia invece di un abito di lutto,
lode invece di animo mesto.
Si chiameranno Querce di giustizia,
Piantagione del Signore per la sua gloria"
(Is 61, 1-3)
 
Dal profeta viene quest’inno alla sete di giustizia e alla liberazione del popolo di Israele, forte, caldo, spinto oltre la riconciliazione, fino alla vendetta.
Cristo depura il calore dell’odio in forza dell’amore, oscurando il passaggio sulla vendetta e inserendo, riprendendola dal brano di Isaia sul vero digiuno, la liberazione degli oppressi: un’affermazione così fuori dal tempo da apparire valida in tutti i tempi. Dice Luca:
 
"Si recò a Nazaret, dove era stato allevato. Era sabato e, come al solito, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu presentato il libro del profeta Isaia ed egli, apertolo, si imbatté nel passo in cui c’era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me,
per questo mi ha consacrato
e mi ha iniziato a portare ai poveri
il lieto annuncio,
ad annunziare ai prigionieri la liberazione
e il dono della vista ai ciechi;
per liberare coloro che sono oppressi
e inaugurare l’anno di grazia del Signore.
Poi, arrotolato il volume, lo restituì al servitore e si sedette. Tutti coloro che erano presenti nella sinagoga, tenevano gli occhi fissi su di lui. Allora cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa scrittura per voi che mi ascoltate"" (Luca 4,14-21).
 
Non c'è perdono senza giustizia, ma, allo stesso modo, non vi è giustizia possibile se essa affonda le radici o trae alimento dall'assenza di perdono, dalla mancanza di tensione verso la riconciliazione. Riconciliazione dell'uomo con l'uomo, del reo con la vittima, ma anche della società con entrambi e di entrambi con Dio. Chi ha offeso e peccato non va schiacciato sotto il peso della colpa ma, anzi, aiutato a risollevarsene; chi è rimasto vittima va riconosciuto e sostenuto nella dignità e nella sofferenza dell'offesa patita.
Perdonare "settanta volte sette" (Matteo 18,21-22) non è semplice invito alla bontà, non è solo rinuncia al risentimento o una scelta di tolleranza di grande significato morale, ma in certo modo passiva. All'opposto, è vera e propria strategia di giustizia, di conversione, vale a dire di cambiamento: non solo del cuore dell'uomo, anche delle sue azioni, del suo pensiero, delle sue relazioni con gli altri, dunque della società in cui vive.
"Non restituite a nessuno male per male …Vinci il male con il bene" (Romani 12,17-21): i fondamenti morali e i precetti della vita cristiana sono invito perentorio alla rinuncia all'odio e alla vendetta. Il perdono illimitato di cui dice Gesù è atto profondo di giustizia, è strategia di trasformazione e riconciliazione che, sola, può portare a vincere.
Se la giustizia travalica le esigenze di difendere il singolo e la collettività dal male e dalle offese, facilmente somiglia alla vendetta, la quale, ancor più facilmente, diventa rivalsa cieca, monito simbolico che perde di vista l'uomo che ha davanti.
Nel 1983, Giovanni Paolo II ha fatto risuonare le vibrazioni del brano di Luca nelle celle di Rebibbia, dove si era recato in visita pastorale. Andando a trovare l’uomo che lo aveva gravemente ferito. Il contesto rendeva acute le tonalità della commozione. Ma non era l’emotività facile di chi ode parole che riguardano il proprio destino: tutti sentivano come la liberazione non fosse, non sia un semplice e legittimamente desiderato richiamo alla libertà dei corpi, ma come fosse e sia un invito pressante a riflettere sulla colpa e sull’errore, a vivere il percorso della loro rielaborazione. I passaggi della riconciliazione non sono mai unidirezionali. Anche se non bisogna dimenticare che l’uomo sconfitto, in catene, è portato in modo molto più incisivo a indagare sul senso dell’esistenza, sulla finitezza dell’uomo, sul delirio di onnipotenza che attraversa invece i vincenti e coloro che non hanno tempo per fermarsi nella corsa verso obiettivi che nascondono miseria e fine.
La riflessione si svolge nei paesaggi del tempo interiore. Il tempo come misura dell’anima, proiettata oltre se stessa verso l’assoluto. "Più esatto sarebbe dire: "Tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro". Queste ultime tre forme esistono nell’anima, né vedo possibilità altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa". Nessuno più di Agostino, nulla più delle Confessioni, moto autentico e non strumentale dell’anima, sono capaci di ridurre il tempo del cristiano a tempo dell’uomo.
Nel tempo cristiano convivono infatti tre dimensioni: ciò che scorre da un prima a un dopo, l’attesa e l’eternità, quindi Dio che va incontro all’uomo. Il senso del Giubileo, dell’anno promesso, sta nel ritrovarsi dei tre aspetti.
Il tempo di Dio va incontro al tempo dell’uomo, ricordandogli il rapporto tra assoluto e relativo. La Terra è stata affidata all’uomo, ma non è sua proprietà: "Le terre non si venderanno per sempre; perché la terra è mia, e voi state da me come forestieri e avventizi" (Levitico 25,23).
L’amministrazione della giustizia, come ogni altra attività umana, ha impresso il carattere della precarietà: attraverso il Giubileo, ha il modo di correggere gli eccessi, deve tendere al riequilibrio, alla considerazione delle ragioni dei perdenti, di chi è stato espulso o messo ai margini dagli aspetti prepotenti dell’economia e dalle differenziazioni indotte nella società.
Come per Caino, protetto dal marchio: nessuno deve permettersi di ucciderlo. L’uomo, anche quando si dice cristiano, ha spesso dimenticato questi insegnamenti, utili e difficili allo stesso tempo. La pena di morte continua ad attraversare gli Stati, così come la forbice della diseguaglianza tende ad allargarsi sempre di più.
Il senso nobile, alto del Giubileo, sta tutto qui. Lo ricordava il cardinale di Milano, monsignor Martini, nella risposta ai detenuti di San Vittore che gli chiedevano un intervento della Chiesa a favore di un provvedimento di amnistia. Un invito alla riflessione sul senso dell’esistenza, sulla possibilità dell’errore e della sua correzione.
Amnistia forse non è il termine più adatto; ha la stessa radice etimologica di amnesia: cancellazione della memoria. Nessuno può permettersi di dimenticare: chi ha sbagliato i propri errori, la legge la sua precarietà e storicità. La libertà dei prigionieri come passaggio nella riconciliazione tra gli uomini, prova forte nel cammino che avvicina a Dio.
Il Giubileo non è solo un percorso nel tempo, ma, appunto, un viaggio verso la libertà. La metafora si incarna nel raggiungimento della Terra Promessa, luogo della pace e della felicità. "Riposare è dunque segno di libertà. Il sabato è la celebrazione di una libertà ricevuta in dono ma mai data per sempre" (Mario Russotto, Verso il Grande Giubileo del 2000). La meta può essere visibile e raggiungibile, il cammino disseminato di difficoltà e accoglienza, lungo il deserto della finitezza e dell’errare. Ma il percorso è tutto interiore. Lì stanno nobiltà e grandezza della celebrazione giubilare. Insieme alla sete di giustizia sociale. "La descrizione contenuta nella Bibbia pone in risalto l’ispirazione sociale della pratica giubilare (destinazione universale dei beni, ripristino dell’uguaglianza tra tutti i figli di Israele), al punto che Giovanni Paolo II nota: "Nella tradizione dell’anno giubilare ha così una delle sue radici la dottrina sociale della Chiesa" e "L’impegno per la giustizia e per la pace in un mondo come il nostro, segnato da tanti conflitti e da intollerabili disuguaglianze sociali ed economiche, è un aspetto qualificante della preparazione e della celebrazione del Giubileo" (Tertio Millennio Adveniente 13)" (Roger Etchegaray, Verso il Grande Giubileo del 2000).
Vi sono poi, nella storia, gli aspetti discutibili che accompagnano la celebrazione giubilare dai tempi di Bonifacio VIII, caratteristiche mondane e di mercato, vendita di indulgenze, quasi fossero un male necessario.
Ma il punto, l’occasione che si presenta all’alba del nuovo millennio, è quella di accogliere e raccogliere un vero percorso di riconciliazione e di verità.
Possiamo fare la nostra piccola parte, sollecitando e favorendo l’incontro tra riferimenti diversi e, sullo specifico della pena e del carcere, della liberazione e della indulgenza, lavorando e proponendo attorno ad alcuni punti:
1) La certezza delle pene si coniuga necessariamente alla moderatezza delle stesse e alla chiarezza delle normative, come riconosceva con acutezza Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene: "Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi". Lo stesso provvedimento aministiale in occasione del Giubileo (auspicato da più parti, e che, come detto sopra, ha trovato come autorevolissimo interlocutore e interprete anche il cardinale di Milano, Carlo Maria Martini) deve andare in questa direzione: recuperare sicurezza, affermare mitezza, favorire cambiamento, promuovere riconciliazione;
2) la storia del carcere moderno ci dice come la segregazione negli istituti di pena sia stata segnata da un rapporto inscindibile con l’organizzazione sociale e, in specifico, modellata sul lavoro di fabbrica, poiché ancorata a una determinata nozione e "velocità" del tempo: quello della produzione. Qual è, oggi, nella società dominata dal lavoro cosiddetto immateriale, il senso della condanna al carcere? Qual è, oggi, il rapporto di misura "giusto" tra reato e tempo di reclusione? La sofferenza provocata oggi da un anno di privazione di libertà è assai maggiore di quella di 50 o anche solo 20 anni fa: perché assai maggiori sono le opportunità e le esperienze, i desideri e i bisogni, le informazioni e i vissuti che oggi vanno perduti in un lasso di tempo solo apparentemente uguale a quello dei decenni scorsi. Una maggiore perdita e sofferenza che solo in parte è compensata dall’innalzamento medio della longevità (a proposito: quanti sanno che, sempre al 1.mo luglio di quest’anno, vi erano in carcere ben 143 persone con un’età di oltre 70 anni e 1.141 ultrasessantenni?);
3) l’"insensatezza", lo spreco di vita costituito dal carcere è ancora più evidente per le pene legate ai comportamenti e agli stati di dipendenza invece che alla determinazione a commettere un reato;
4) i flussi migratori non possono ridursi a criminalizzare la costrizione alla clandestinità. Proprio la storia dello sviluppo capitalistico all’inizio di questo secolo dimostra come possa essere una grande risorsa governare il movimento e la speranza di futuro invece di ridurla a marginalità disperata;
5) l’impegno sul piano mondiale con tutte le forze e di tutte le forze sensibili e attente, religiose, sociali, politiche per l’abolizione in tutti gli Stati della pena di morte: le leggi non possono proibire l’omicidio e allo stesso tempo contemplarlo come pena.

 

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