Colpa e pena

 

Per un ripensamento della giustizia penale

Intervento del Cardinale Carlo Maria Martini al Convegno: Colpa e pena

Bergamo, Centro Congressi Giovanni XXIII, 2 maggio 2000

 

Premessa

 

Esprimo un saluto fraterno e un ringraziamento al Vescovo di Bergamo che ci ospita, a tutti i Vescovi lombardi che sono presenti e alle autorità che hanno accolto il nostro invito mostrando che la gravità del tema scelto per questo Convegno non è dovuta soltanto a fatti contingenti pur se dolorosi; è qualcosa di molto più profondo e molto più duraturo, come ha sottolineato il prof. Eusebi.

Del resto l’incontro odierno non era stato pensato in risposta all’attualità - anche se vi corrisponde -, bensì come una riflessione in occasione del Giubileo. Sappiamo che uno dei testi base dell’Anno santo 2000 è la pagina del vangelo secondo Luca nella quale Gesù, apparendo in pubblico per la prima volta, legge nella sinagoga di Cafarnao un brano di Isaia; “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione” (Lc 4,18).

Ci si interroga sul significato dell’espressione “liberazione dei prigionieri”, che va intesa in un senso ampio, storicamente assai diverso da quello che noi immaginiamo - nell’antichità non esisteva quasi per nulla il carcere come istituzione permanente -. Ma a partire dal testo di Isaia ripreso da Gesù nel discorso inaugurale di Nazareth, il Giubileo ci interpella sulla situazione delle carceri, sul loro significato nella nostra società, sul rapporto colpa e pena.

Vorrei richiamare anzitutto, in maniera molto semplice, alcuni aspetti globali di questa tematica da non trascurare, per sottolineare poi qualche motivazione biblica e teologica di quanto il prof. Eusebi ha espresso con rigore giuridico.

 

I - Aspetti globali del problema penale

 

Tra gli aspetti globali del problema penale segnalo in primo luogo l’attenzione alle vittime dei reati e alle loro sofferenze.

Ogni riflessione deve primariamente considerare le sofferenze arrecate dai reati e considerarle non solo quali lesioni di una legge, ma quali ferite fisiche o morali inferte sia alla collettività sia a singole persone, con conseguenze che possono turbare un’intera esistenza.

Emerge allora una seconda attenzione; come una società difende efficacemente i cittadini dalle aggressioni criminose? 

E una terza domanda: come una società previene le occasioni di crimine, sia con la deterrenza sia con provvedimenti tesi a scoraggiare ogni forma di lesione della legge?

Infine va considerato il sistema della retribuzione penale, in particolare il carcere: come una società punisce il crimine? quale lo scopo e il senso delle pene carcerarie? come una società prepara e difende gli operatori carcerari e come ristabilisce, risocializza chi ha sbagliato?

Siamo di fronte a problemi enormi che toccano tanti aspetti della vita civile e sociale delle persone.

Io non ho competenze specifiche per intervenire sull’argomento, ma ne parlo partendo dalla mia esperienza di Vescovo e dalle mie visite alle carceri. Il carcere, infatti, è uno dei luoghi drammatici in cui avverto più che mai che il mio servizio di Vescovo è vissuto con verità; è una realtà che costringe a fare verità. E sono convinto che l’esperienza del carcere, dei carcerati, degli operatori carcerari è fondamentale per un Vescovo, non solo perché è valida ancora nell’oggi la parola di Gesù “ero in carcere e siete venuti a visitarmi” (Mt 25 26), ma perché il carcere è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio in cui emergono le contraddizioni e le sofferenze di una società malata.

Proprio per questo la condizione carceraria mi coinvolge profondamente: sia nel travaglio dei detenuti e dei loro parenti che nelle sofferenze delle vittime e dei loro familiari; sia nei problemi degli addetti al servizio carcerario che nel travaglio delle autorità, dei legislatori, degli studiosi non pochi dei quali si interrogano sempre più sulle contraddizioni e le sofferenze che la pena definitiva vorrebbe risolvere e però, di fatto, non risolve.

E’ davvero un problema estremamente complesso, dai risvolti drammatici. Dopo un incontro con i detenuti o in occasione di scambi epistolari con loro, emerge sempre in me l’inquietante interrogativo: quanto è umano ciò che stanno vivendo? quanto è efficace per una tutela adeguata della giustizia? quanto serve alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? che cosa ci guadagna e ci perde una società da un sistema del genere? risponde veramente al bisogno delle vittime e al bisogno della difesa dei cittadini?

E dietro a tali interrogativi di carattere immediato, ce n’è uno più di fondo:

quale visione globale di uomo e di società corrisponde al nostro sistema penale e quale idea di giustizia esso rappresenta?

Non pretenda ovviamente, in questa riflessione e con la mia pochissima competenza, di offrire soluzioni facili a queste domande; ne ha parlato a fondo il prof. Eusebi.

Vorrei soltanto esaminarmi sui fondamenti biblici, dare un contributo per un ripensamento sociale e civile basandomi sui testi della Scrittura.  

Il - La dottrina biblica sulla colpa e sulla pena  

La dottrina biblica a questo riguardo può essere letta secondo diversi filoni:

quello della proclamazione della dignità della persona - dignità che nulla può cancellare -; quello più specifico della condizione di chi ha commesso atti di violenza; quello più generale del rapporto tra pena e perdono.

Il primo filone è molto ampio e insieme molto presente nelle Scritture ebraico-cristiane. Parte dalla creazione dell’uomo e della donna ad immagine e somiglianza di Dio e attraversa tutta la Bibbia, fino alla manifestazione della figliolanza divina offerta ad ogni persona umana. Se ne deduce - lo ha dedotto anche bene la nostra civiltà occidentale - che la persona è il massimo valore, a motivo dell’immagine divina impressa in lei, a motivo della sua intelligenza e libera volontà, a motivo dello spirito immortale che la anima e del destino che l’attende. Dunque la dignità della persona, di ogni persona non può mai essere svalorizzata, snaturata o alienata, nemmeno dal peggior male che l’uomo singolo o associato possa compiere. L’errore e il crimine indeboliscono, deturpano la personalità dell’individuo, ma non la negano, non la distruggono, non la declassano al regno animale, inferiore all’umano. Perciò le leggi e le istituzioni penali di una società democratica hanno senso se operano in funzione dell’affermazione, dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona. Nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, da salvare, da riabilitare e da educare.

Non mi dilungo su questo vastissimo tema della dignità permanente della persona, perché preferisco soffermarmi sulla dottrina biblica riguardante la colpa e la pena.

Nella Bibbia ebraica esistono almeno due visioni complementari della pena e del castigo: la punizione come intervento della giustizia di Dio e la punizione come effetto prodotto dalle dinamiche del peccato. Occorre aggiungere che anche nella prima visione l’intervento punitivo di Dio ha sempre una finalità salvifica ed è sempre indirizzato a scuotere la coscienza del popolo e degli individui per indurli alla conversione.

Tali tradizioni, che si ritrovano nel Nuovo Testamento, non vanno contrapposte, bensì armonizzate perché entrambe tendono al recupero dell’uomo per la sua salvezza. Penso ad alcune pagine bibliche che non finiscono mai di commuovere e di provocarci alla riflessione: il fratricidio di Caino (cf Gen 4) le discordie dei popoli nella costruzione di Babele (cf Gen 11), il racconto del peccato di Davide (cf 2 Sam 11-12), la parabola del figliol prodigo che parte da casa e che viene in essa riaccolto e le parabole della pecora smarrita e della dracma smarrita e ritrovata (cf Lc 5).

Scelgo come punto di riferimento un testo specifico, l’episodio del primo omicidio dell’umanità: Caino che uccide il fratello Abele (cf Gen 4,2-15). Se leggiamo attentamente questa pagina, scopriamo molti motivi di riflessione. Caino che uccide Abele rappresenta l’irruzione della violenza nella storia, una violenza che nasce dall’invidia e forse anche dalla non accettazione delle diversità. Ne segue il primo crimine, prototipo di tutti i crimini, di ogni violenza della storia.

Il racconto biblico dice che questo primo crimine ha delle conseguenze in qualche modo non superabili: il sangue di Abele continua a gridare dalla terra.

Ma Dio non interviene con una sanzione estrinseca: la pena è contenuta nello stravolgimento dell’ordine della natura. La terra bagnata dal sangue fraterno si rivolterà contro chi ha commesso il crimine: “Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti”.

Caino, tuttavia, non viene eliminato e nemmeno recluso, pur se lo temeva:

“Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono? chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere”. Dio stesso lo difende: “Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!”. E il Signore “impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato”.

Da questo brano, prototipo di altri, che riassume in sintesi verità molto profonde, ricaviamo almeno quattro indicazioni di carattere generale.

  1. Nella colpa è già insita la pena. I peccatori nella Bibbia prendono gradualmente coscienza che, commettendo il reato, si sono autocondannati a vivere al di fuori della famiglia di Dio, a vivere da stranieri. Nella colpa è quindi insita una sconfitta, un fallimento, un’umiliazione e una sofferenza.

  2. La colpa trasforma la pena in responsabilità: chi ha sbagliato dovrà assumersi come pena responsabilità più gravi e onerose per riguadagnarsi la vita.

  3. La pena non cancella la dignità dell’uomo, non lo priva dei suoi diritti fondamentali. Nessuno viene sradicato per essere rinchiuso in un luogo irreale e snaturato. Chi ha sbagliato, avendo però negato la paternità di Dio e infranto i rapporti pacifici con il prossimo e con se stesso, dovrà percorrere un cammino di ritorno verso la realtà di partenza, verso il recupero della propria dignità e il rientro nella comunità. Tale cammino di conversione è la vera pena richiesta da Dio per ridonare ai peccatori la remissione della colpa. Come dice il testo evangelico: “C’è grande gioia in cielo per un solo peccatore che si converte” (Lc 15,10).

  4. Infine, dalla Bibbia appare che Dio non fissa il colpevole nella colpa identificandolo in essa. Dio, come unico e vero giudice dell’uomo, trasmette a tutti i colpevoli anche la speranza in un futuro migliore, mira alla riabilitazione completa, chiede loro di non ripetere l’errore e di risarcire il male compiuto con gesti positivi di giustizia e di bontà.  

I quattro momenti dinamici della pena, che ho brevemente riassunto, sono momenti di cammino reale. Non corrispondono a nessun perdonismo, a nessuna facilitazione, ma esprimono un itinerario esigente e impegnativo. Essi assumono il loro senso definitivo nella passione e morte di Gesù. Gesù muore perché nessuno debba più perire a motivo del proprio peccato.

Se dunque percorriamo con calma e intelligenza tutta la Bibbia, ci accorgiamo che Dio propone una pedagogia della vittoria del bene sul male, del perdono sulla colpa, tenendo conto della cultura e della mentalità del suo popolo, purificandole e perfezionandole fino a proporre come sua volontà e suo progetto definitivo il perdono e la salvezza per tutti nel Signore Gesù crocifisso e risorto.

A questo punto ci domandiamo: che cosa ha da dire alla nostra società civile l’insegnamento della Scrittura?

 

III - Indicazioni per la nostra società civile

 

Suggerisco cinque punti che, a mio giudizio, sono chiaramente evidenziati dalle pagine bibliche e che ritengo utili anche per la nostra società: l’importanza di promuovere l’autocritica del colpevole; l’importanza di superare il concetto del carcere come unico rimedio per il male; l’importanza di fare di tutto perché il carcere, là dove è inevitabile, sia luogo di socializzazione; la necessità di ripensare la nostra tradizione penale; e tutto ciò nella salvaguardia e nella tutela dei più deboli e della sicurezza della società.

 

Riprendo i punti

 

1. L’autocritica del colpevole. E’ auspicabile che venga superata una certa cieca fiducia nella pena retributiva e meccanica quale unica forma capace di migliorare i comportamenti del colpevole. Chi è vittima del proprio delitto deve poter compiere un’autocritica e va perciò aiutato a rientrare in se stesso, a scendere nel profondo del proprio spirito, ad andare oltre una conoscenza superficiale di sé. Bisogna aiutarlo anche a rinunciare ai falsi meccanismi di difesa che lo inducono a fuggire da sé, a giustificarsi e ad autoassolversi

Anche nella situazione odierna - è giusto sottolinearlo - c’è la possibilità di un’attiva cooperazione da parte del detenuto quando l’espiazione perde la valenza vendicativa per assumere quella medicinale. Di qui l’importanza di stare attenti ai processi che avvengono nel carcere, di cui parlava il prof. Eusebi verso il termine della sua relazione. Si configura così la dinamica di un travaglio spirituale che conduce, in alcuni casi, ad una vera rinascita personale e sociale.

 

2. Il carcere come emergenza. La carcerazione va vista come un intervento di emergenza, un estremo rimedio per arginare una violenza gratuita e ingiusta, impazzita e disumana; è un rimedio necessario per fermare coloro che, afferrati da un istinto egoistico e distruttivo, hanno perso il controllo di sé, calpestano i valori sacri della vita e delle persone e il senso della convivenza civile.

 

3. Il carcere come luogo forte di austera socializzazione. Se davvero tutti vivessimo il Vangelo e ci sforzassimo di amarci scambievolmente, di praticare la regola del “fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”, non ci sarebbero delitti né giudici né condanne. In realtà, siamo molti lontani dall’essere quella comunità perfetta a cui punta il Vangelo.

Abbiamo purtroppo bisogno di strutture che mostrano come nel mondo c’è il male e che cercano di arginarlo. In ogni caso il cristiano, se vuole essere coerente con il messaggio di Dio Padre misericordioso che vuole la conversione del peccatore e fa festa per lui, non potrà mai giustificare il carcere se non - l’ho detto sopra - come momento per arrestare la violenza.

I modelli sanzionatori non devono ritenere scontate le modalità di risposta al reato fondate semplicemente sulla ritorsione (è il tema della bilancia), sulla pena fine a se stessa e sull’emarginazione. Si impone il superamento della centralità del carcere nell’ambito penale, con tutte le condizioni descritte da Eusebi. E bisogna impegnarsi al meglio perché il carcere sia almeno luogo di forte e austera risocializzazione, con programmi chiari e controllati, con il contributo di persone motivate e con incentivi atti a promuovere tali processi; in particolare aiutando efficacemente, all’uscita dal carcere, a trovare casa e lavoro. E’ sempre più evidente l’inadeguatezza di misure semplicemente repressive o punitive e, per questo, è necessario ripensare la situazione carceraria nei suoi fondamenti e nelle sue finalità, partendo proprio dalle attuali contraddizioni.

 

4. Rivedere le tradizioni penali. Giustamente il prof. Eusebi ci ha invitato, con linguaggio tecnico, a rivedere le tradizioni penali della nostra storia. Nel corso della storia, infatti, tradizioni penali diverse si sono mescolate con stimoli provenienti dal cristianesimo, senza che si sia potuto finora effettuare una sintesi armonica. Da una parte si sono spacciate per cristiane certe formule interpretate riduttivamente in maniera retribuzionista - come ad esempio un’accezione semplificatoria della cosiddetta legge del taglione -, mentre dall’altra è mancato lo sforzo sistematico di provare a ritradurre i temi della giustificazione e del perdono nel linguaggio della giustizia degli Stati. E’ dunque urgente esprimere in termini autenticamente biblici e cristiani una risposta sostenibile al problema criminale, che prometta di essere feconda anche in termini civili e secolari superando l’attuale impasse culturale e operativa.

 

5. Tutto questo nella salvaguardia e nella tutela dei più deboli. La preoccupazione per la tutela della società, che è grave dovere dell’autorità pubblica, non è per nulla in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità del condannato. E inoltre è più produttiva - in termini di prevenzione generale - una politica criminale tesa ad investire sulle capacità dell’uomo di tornare a scegliere il bene più che non una politica fondata sul solo fattore della forza e della deterrenza. Ciò non esclude, ma comprende tutte le necessarie cautele nel caso in cui sussista il reale pericolo della reiterazione di delitti gravi, soprattutto su persone inermi e su bambini.

Sarà arduo trovare la giusta misura e ci saranno situazioni e momenti turbolenti in cui una società dovrà attenersi ad una particolare cautela. Tuttavia, pure in tali situazioni bisognerà esercitare quella prevenzione che consiste anche in una coscienza diffusa di resistenza e di condanna del crimine, non chiudendo gli occhi e non voltando lo sguardo altrove quando qualcuno è in pericolo.

 

Conclusione

Mi riferisco, a modo di conclusione, alla preghiera cristiana universalmente conosciuta del Padre nostro. Gesù ci esorta a chiedere: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” e poi aggiunge: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi” (Mt 6.12.14).

Si ritiene di solito che le parole di Gesù valgono soltanto nell’ambito dei rapporti familiari o, al massimo, all’interno delle comunità credenti. Invece, una considerazione profonda di tali parole mostra che hanno un valore nello stesso ambito della società civile. Certo, il tema del perdono e della sua efficacia sociale va inquadrato nel tema più vasto del perdono di Dio e di quell’attività salvifica che viene chiamata “giustificazione dell’empio”: la rivelazione cristiana si gioca proprio sul perdono e sulla riabilitazione dell’uomo delinquente. Avrà senso allora parlare anche di eventuali provvedimenti di clemenza, se ciò avviene nel quadro di un generale ripensamento della giustizia penale.

E’ un tema esistenziale che tocca tutti e ciascuno di noi. Ognuno di noi ne ha qualche esperienza, perché ogni uomo è peccatore. Il modo con il quale la società si comporta verso i delinquenti è quindi parte del vissuto e della sofferenza di ogni persona umana e dice il grado di civiltà di un popolo.

Termino perciò con le parole del Papa nell’enciclica Dives in misericordia, là dove esprime con efficacia il valore anche umano e civile di questo atteggiamento: “La misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio, quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forze di male esistenti nel mondo e nell’uomo” (n. 6).

Questo vuol dire aprire orizzonti di speranza che tutti auspichiamo a partire dall’Anno giubilare. 

 

 

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