Testimonianze

 

Associazione Il Bivacco 

Via Castellini, 72

20077 - Melegnano (MI)

Tel.: 02/9836867

E-mail: ilbivacco@libero.it

 

Helmutl Egger (Internato in licenza lavorativa)

 

Un anno fa, quando, dopo sedici anni trascorsi in carcere, ho messo piede nella Casa di Lavoro di Saliceto San Giuliano per essere "preparato alla progressiva integrazione nella società civile", mi chiesi sgomento: e adesso? Come sarà il tuo futuro? Mi trovai ad un bivio della vita: o accettare questa "progressiva integrazione", oppure aspettare la prima licenza per dileguarmi e continuare la vita di una volta.

Mi decisi per la prima strada, anche se allora non mi resi ben conto quante difficoltà avrebbe comportato tale scelta. Si, perché ben presto mi resi conto che il programma di reinserimento previsto per chi aveva scelto questo passo veniva addossato dallo Stato totalmente al soggetto desideroso di reinserirsi.

Dunque, dovevo trovare da solo la strada del ritorno nella società. Però, come? Come migliaia di compagni detenuti, ero solo, non avevo nessuno fuori che mi aspettava, che mi dava una mano, un lavoro, un alloggio. E allora, senza mezzi di sostentamento, abbandonato dallo Stato che si preoccupa solo di isolarti dalla società ma non di reintegrarti in essa, dove avrei potuto andare?

In questo momento di angosciosa incertezza davanti al bivio del proprio futuro, una fortunosa circostanza s’incaricò ad indicarmi la strada da scegliere: un amico mi mise in contatto con l’associazione "Il Bivacco", un’associazione di volontari che si interessava della sorte di detenuti ed ex detenuti, e così, avuto la loro disponibilità ad ospitarmi, potei ottenere la prima licenza.

Ora, questa licenza non era solo un mezzo per trascorrere, dopo tanti anni, finalmente, qualche giorno in libertà, ma era molto, molto di più: era il primo passo verso la reintegrazione nel mondo civile!

Questa licenza mi permise di interrogarmi profondamente sulle mie intenzioni per il futuro, di affrontare le prime difficoltà con un appoggio morale alle spalle, e soprattutto di cercare un lavoro e un alloggio, condizioni essenziali per ottenere dalla Casa di Lavoro una licenza lavorativa prolungata. Si decideva il mio futuro: essere libero o essere prigioniero e, non solo in senso materiale, ma anche e soprattutto in senso spirituale. Ecco, allora capii le parole che molti anni prima l’allora Cardinale di Venezia e futuro papa Giovanni XXIII pronunciò in una predica a noi ragazzi del riformatorio: "non è libero chi ha lasciato dietro di sé le mura di un carcere, ma bensì chi è riuscito ad abbattere il muro che il passato ha eretto intorno al suo cuore".

Ma abbattere questo muro non è facile; esso richiede tanta forza, volontà, fortuna e una mano tesa che ti guidi, che ti sorregga quando rischi di inciampare.

Ecco, io questa mano l’ho trovata nell’associazione Il Bivacco, nei suoi assistenti volontari. Non solo perché mi hanno dato al momento giusto ospitalità, ma perché mi hanno dato la loro amicizia, il loro tempo, la loro dedizione, quando avevo bisogno di sfogarmi, di lamentarmi contro le difficoltà della vita quotidiana, o quando semplicemente avevo bisogno di confidare a qualcuno le mie ansie, i miei sentimenti, i miei ricordi.

E questo è molto di più di quanto possa dare lo Stato con le sue istituzioni. Forse un giorno questi si ricorderà dei suoi doveri che ha assunto con la Riforma Penitenziaria e si assumerà gli oneri del reinserimento sociale di chi ha oltrepassato le soglie della società civile; ma mai potrà sostituire quello che queste persone, che hanno dedicato la loro vita, la loro esistenza ad altre persone in difficoltà, hanno donato: la loro umanità, il loro essere stesso.

Spero che essi possano preservare sempre questo grande dono di umanità e di dedizione sociale e ch’essi si ricorderanno, anche quando le difficoltà che incontreranno sulla loro strada peseranno come macigni sulla loro coscienza e minacceranno di intaccare la loro fede nel loro lavoro e nella loro opera, ch’essi sono per molti esseri come me l’unica luce che li aiuterà ad uscire dal lungo tunnel oscuro che la vita li ha fatto imboccare.

 

Giancarlo Milani (affidato al Servizio Sociale)

 

Penso che sia giusto portare la mia testimonianza in occasione del convegno che l’associazione Il Bivacco ha organizzato sabato 20 gennaio 2001 nell’aula consigliare del comune di Melegnano dal titolo: "Oltre si può".

La mia è una testimonianza diretta di chi il carcere lo ha vissuto in espiazione di pena. "Il Bivacco" nella sua decennale attività, fuori e dentro i penitenziari, ha saputo rimuovere situazioni difficili, promuovere contatti tra detenuti e familiari e, quando è stato possibile, tra detenuti e vittime del reato.

Per il tramite di propri associati, assistenti volontari presenti nella Casa di Reclusione di Milano – Opera ed in altre case circondariali, ha contatti quasi giornalieri con questa "umanità" spesso dimenticata sostenendola moralmente e materialmente. Numerosi sono i detenuti che usufruiscono di permessi premio nei locali del Bivacco e che vi trovano accoglienza per altri benefici alternativi al carcere.

Attraverso la Cooperativa Sociale Soligraf, emanazione e, ad onor del vero, sostegno economico del Bivacco, alcuni di noi hanno trovato una concreta opportunità di lavoro ed un ambiente estremamente favorevole ad un effettivo reinserimento nel contesto sociale.

 

Appare del tutto inutile continuare oltre.

 

Il più grande riconoscimento per l’attività di associazioni come il Bivacco è stato fatto da un alto Magistrato (Dr. Giancarlo Zappa), ora a riposo, e per molti anni presidente di un Tribunale di Sorveglianza di Brescia, che nel suo commento al Codice di diritto penitenziario (La Tribuna Editore) così scriveva: "E’ doveroso riconoscere la grande funzione svolta nei penitenziari dal volontariato, che ha aperto con coraggio strade un tempo impraticabili, ha dato indicazioni precise, ha fornito esempi agli Enti Istituzionali che spesso sono lenti nel cogliere le novità e nell’avviare una loro specifica e concreta azione".

L’altruismo del volontariato, la dedizione di queste persone che spesso sottraggono parte del loro tempo anche agli affetti familiari merita indubbiamente rispetto e sostegno.

La loro è un’attività difficile e delicata in un settore troppo spesso misconosciuto. E’ una specie di patto tra la società civile e cittadini detenuti spesso disperati. Quindi "oltre si può" anzi, lasciateci dire, "oltre si deve"

 

Mario Barbuto (Direttore istituto dei ciechi Francesco Cavazza – Bologna)

 

Il mio incontro con Il Bivacco è avvenuto nel 1994 quando ero dirigente nazionale dell’Unione italiana ciechi. Una lettera giunta nella sede centrale di Roma dell’associazione, presentava un’iniziativa volta a favorire l’accesso dei ciechi alla lettura e proponeva un primo elenco di testi disponibili che raggruppava alcune centinaia di titoli.

Il Bivacco organizzava l’attività volontaria di un gruppo di detenuti del penitenziario di Opera, i quali preparavano per i ciechi, testi da leggere tramite il computer con l’ausilio di una sintesi vocale o di un display braille.

Mi venne in mente una curiosa analogia con la diffusione dei primi libri braille in Italia, verso la fine dell’800, copiati a mano pazientemente dai detenuti del carcere di Marassi di Genova. Mi si "accesero" strane lampadine che segnalavano questa, come una buona occasione per accrescere il patrimonio di letture per tante persone gravemente impedite nell’accesso alla carta stampata.

Presi contatto con Il Bivacco e a dispetto del nome, vi ho trovato persone solerti e attente, capaci di unire all’impegno civile una umanità oggi purtroppo un po’ fuori moda. Ci siamo incontrati; ci siamo conosciuti; ci siamo recati a Opera per parlare con Nadia, Rosaria, Giulio e Vincenzo. Ne è nato un progetto: il TeleBook. Una raccolta di testi digitali distribuiti agli utenti ciechi in Italia e all’estero tramite un cd-rom o prelevabili direttamente da un sito internet.

Una rivoluzione? Forse… Uno squarcio di luce per chi, come me, vive nel buio? Sicuramente…..

 

Vincenzo Guagliardo (ergastolano della Casa di Reclusione Milano – Opera)

 

Da vari anni conosciamo una sola politica: la strategia delle emergenze, dove ogni conflitto viene rimosso e ridotto a reato, ogni politica si restringe a politica giudiziaria. E’ una strategia il cui presupposto è che non vi sia alternativa alla disoccupazione e al disordine sociale, e la cui soluzione sembra essere soltanto il cinismo. La disinformazione fa ignorare ai più che non abbiamo molto da invidiare ai periodi più bui dell’Inquisizione, incoraggia l’indifferenza o il risentimento, una disumanità crescente.

L’élite tecnoburocratica della terza rivoluzione industriale si profila come una minoranza del 5% circa della popolazione in un mondo di fabbriche con pochi lavoratori ma ancora fondato sul profitto e lo spreco di risorse umane e materiali. Diversamente dalla vecchia élite essa tende a essere "impolitica", accettando il disordine sociale e affidando la sua gestione a una repressione senza freni nella vaga speranza che la guerra tra poveri elimini da sola gli eventuali pericoli di una ribellione.

E’ forse la prima volta che una classe dirigente prevede e accetta la violenza degli oppressi come un suo sistematico "a priori", e non soltanto come un’inevitabile conseguenza da reprimere, tant’è che volgarità e violenza sono il primo e quasi unico messaggio propagandato dai mezzi di comunicazione di massa, mentre la Politica, da arte della mediazione delle classi dirigenti che pretendeva di essere, vede governi e parlamenti ridotti a una rappresentazione teatrale condotta da attori poco convinti.

La logica dell’élite tecnoburocratica è utopica e tragica insieme, tanto sembra ignorare a volte le esigenze minime dell’essere umano, o tanto banalizza o minimizza le questioni, affidate magari a un computer per essere interpretate. Tuttavia, la «società», o almeno una parte di essa, ha già trovato una prima e parziale risposta alternativa al disastro totale che questa élite avrebbe altrimenti già provocato.

Il volontariato è un’attività che coinvolge circa 15 persone ogni 100 in Italia. E’ un movimento che sopperisce al duplice fatto che lo Stato non possa più fornire sufficiente assistenza sociale e il mercato garantire sufficiente occupazione all’interno del modo di produzione industriale. E’ una sorta di tappabuchi nato intorno ai valori della solidarietà che prova a costruire un’economia fondata sul senso di appartenenza a una comunità. E’ l’unico freno che finora possiamo vedere contro la catastrofe sociale.

Non mi interessa qui parlare dei mille inevitabili limiti di questo movimento estremamente variegato, se non su un solo aspetto: si è dato a costruire un’economia «alternativa» ma non è ancora riuscito ad affrontare il nodo politico che gli consentirà di superare ogni ambiguità, ogni possibilità di essere inquinato da interessi traversali per ridurlo a struttura di servizio degli altri due settori: i frutti seminati dalla filosofia emergenziale. Finché non lo farà, potrà solo tappare i buchi del muro che crolla invece di vedere al di là di esso, non potrà uscire facilmente dal ghetto in cui lo si vuol confinare, non potrà coinvolgere quei lavoratori che pensano ancora, da disperati, solo alla difesa di un posto di lavoro industriale destinato a essere superato per molti dalla fabbrica robotizzata, invece di contribuire a un’alternativa per i loro figli o fratelli minori destinati alla criminalità.

Quell’attività socialmente utile che non rientra nella sfera del mercato o in quella dello Stato è stata definita «terzo settore» da alcuni economisti per sottolineare la sua diversità e la sua potenziale autonomia.

Il terzo settore è pensiero e pratica al di là dell’economia; pratica al di fuori dello Stato e al di là del mercato; pensiero che porta a essere elastici, disposti al compromesso sul piano politico perché si è rigorosi sul piano etico, cioè là dove si tocca la coscienza individuale.

E’ un lavoro sociale che preesiste e sopravvive ad ogni politica conosciuta finora. Oggi prova a diventare cosciente di sé, a uscire dall’ombra per essere nuova luce.

Mentre nella politica tradizionale gli individui hanno finito per dividersi in schieramenti ideologici tali da consentire alla coscienza individuale di mascherare persino a se stessa i propri veri scopi, sfogandosi settariamente contro il prossimo (un prossimo spesso inventato), nel terzo settore l’individuo parte da se stesso, da ciò che può dare concretamente: l’uomo è anzitutto quel che fa.

Conta allora il modo in cui ci si pone concretamente rispetto alle idee affermate e si può invece riconoscere tranquillamente che è inevitabile avere idee diverse alla partenza in un mondo in cui non si nasce nelle stesse condizioni. Il movimento dell’alternativa economica fondata sul lavoro sociale prova così a costruire qui e ora le condizioni psicologiche e culturali del cambiamento; mentre la politica tradizionale le rimanda sempre a un secondo tempo, a dopo il «cambiamento politico», ecco che oggi all’interno del lavoro sociale la tendenza a realizzare ora tali condizioni può fare da premessa, da base, perché la politica non sia ogni volta l’ennesimo auto-inganno che ci fa tornare al punto di partenza.

Il movimento del volontariato, nella sua parte migliore, nella sua autenticità esprime (al di là della stessa coscienza che possano averne a volte i singoli) l’esigenza di una «rivoluzione culturale» per uscire dalle secche di una politica che si rivela illusoria, trappola della falsa coscienza.

In questi anni di carcere sarei rimasto completamente solo se non fosse stato, oltre che per i nostri vecchi, per dei volontari. A loro devo la mia sopravvivenza fisica e in parte morale. Diversamente dalla legge penitenziaria e da gran parte della politica di sinistra, essi non hanno mai subordinato il rapporto con me a «come la pensassi», e trovo che - senza retorica - questa sia un’alta lezione.

C’è un ultimo importante aspetto dell’emergenza che accomuna la mia condizione alla problematica vissuta dal volontariato. In carcere ho dovuto scoprire che la libertà è la condizione per arrivare alla verità. La «verità» offerta prima della libertà è stata una confessione offerta alle autorità dell’emergenza per ottenere la libertà come premio (sconto di pena, carcere meno duro) ed è perciò sempre stata una verità addomesticata che ha reso sempre più prigioniere le coscienze per liberare i corpi. E’ dunque per questo che ho dovuto rifiutare la «libertà» offertami, per onorare la ricerca della verità. Trovo che nel volontariato ci sia il tentativo di praticare la libertà come condizione per raggiungere un’autentica comprensione delle cose.

Orbene, si dice che spesso chi ha il pane non ha i denti e viceversa. Vedo il lavoro sociale del volontariato come i denti, e la politica di sinistra (meglio, la sua memoria) come il pane senza più denti. Il confronto concreto delle due esperienze intorno al nodo della filosofia emergenziale potrebbe consentire a ognuna di dare il meglio di sé invece che il peggio.

Propongo dunque immodestamente di farsi carico del mio obbiettivo minimo e irrinunciabile nel suo duplice aspetto: poter morire (ognuno) fuori da queste mura. Prima di quel giorno vorrei infatti riabbracciare la mia compagna, i miei vecchi, qualche amico rimasto non separato da loro dal bancone delle sale colloqui, senza controlli visivi. Ma al tempo stesso trovo più dignitoso, per tutti e non solo per me, accettare di stare qui dentro piuttosto che ottenere simili cose come «premio» così come mi richiede la legge oggi. E come, senza rendersene conto, mi hanno chiesto molti amici di sinistra ora lontani quando con candore mi hanno detto: «ma perché non fai come tutti gli altri? Sei tu che vuoi stare in galera».

Dieci anni fa ho visto per la prima volta in vita mia e con grande diffidenza un computer, in carcere, durante un breve corso per tipografi. E in quell’occasione ho conosciuto una signora, Liliana Bucellini, che faceva libri digitali. La sua casa editrice si chiama Freebook. Mi ha spiegato cos’erano i libri in dischetto e ha pubblicato in quel modo un mio lavoro sulla condizione delle persone anziane.

Ho subito abbandonato ogni interesse per i vari lavori tipografici e il mio sguardo si è fissato sul computer.

Cominciavo a rendermi vagamente conto che il computer poteva essere, per chi non può usare le mani o gli occhi, qualcosa in più di un semplice strumento. Doveva essere sicuramente ciò che per me, carcerato, era la scrittura: una protesi che maledici ogni giorno, è vero, perché ti ricorda la tua condizione di prigioniero: devo scrivere a mia moglie invece di poterle parlare o di poterla abbracciare.

Ma la scrittura è anche un modo di uscire parzialmente dalla prigione, per mantenere in vita la propria capacità di sentire, per non ridursi a un vegetale.

Il primo mattone di ogni prigione, infatti, è anzitutto quello della non-comunicazione. Lo svantaggio nella comunicazione colpisce la nostra possibile autonomia di persone, crea un sovrappiù di disabilità. Tutto il resto delle sofferenze viene dopo, come una conseguenza naturale. Così mi sono reso conto di essere in parte un disabile e che i disabili erano in parte dei prigionieri politici. La disabilità fisica viene trasformata in prigione; la prigione è un trattamento disabilitante.

 

Rosaria Biondi (ergastolana della Casa di Reclusione Milano – Opera)

 

Devo fare un’amara prima considerazione: per quanto ho visto in questi anni, una vita in prigione può anche diventare "al buio". Al buio di tutto, specie per i sentimenti. Un impoverimento della persona, una grande tristezza. C’è solo una possibilità per restare vivi: vedere oltre, sviluppare un Sesto senso giacché tutti gli altri in genere li si ha, anche se impoveriti da una povera quotidianità.

Vedere, sentire, con qualcosa di diverso che non i soli occhi o le orecchie; e riuscire a vedere e sentire le persone che ami al di là delle cose che dicono o - il che avviene più spesso - che scrivono.

Una sorta di ipersensibilità che può far soffrire di più, senz’altro è così, ma che ti tiene vivo. Riuscire a comunicare oltre le parole e la scarsa materialità in cui vivono i rapporti. Avverti tutto questo proprio come una necessita fisica e fisicamente senti dentro emozioni, sensazioni che ti fanno percepire quello che non potresti percepire diversamente. Non posso dire che sia stato il carcere ad avvicinarmi ai mondi emarginati, piuttosto ho seguito il filo delle mie convinzioni. C’è però da dire che, a vederle dal di fuori, in carcere si sviluppano delle dinamiche davvero singolari, anche se spesso, da fuori, il mondo carcerario risulta pressoché invisibile.

Da una parte questa è una fucina di ulteriori emarginazioni; d’altra parte i valori dominanti tendono a essere proprio quelli della società che emargina: il massimo profitto per l’individuo, in qualunque modo. Qui dentro la resistenza a simili valori diventa doppia, e secondo me, vitale.

 

Giulio Cacciotti (ergastolano della Casa di Reclusione Milano – Opera)

 

Questa vicinanza ideale con i mondi emarginati è vero che si è approfondita vivendo sulla mia pelle l’esperienza del carcere; ma so che è stata in me, si può dire, fin da bambino. E i valori di fondo che hanno determinato le scelte fatte nella mia vita non sono mai stati "a prescindere" da essa.

Che questo non sia il migliore dei mondi possibili continuo fermamente a pensarlo e di conseguenza "l’esistente", subordinato alla logica del profitto, continua a non piacermi neppure per un po’. Contribuire a far emergere quelle "ricchezze" di cui parlavo prima rappresenta, per me, anche il mantenermi coerente con quei valori di fondo.

 

Nadia Ponti (ergastolana della Casa di Reclusione Milano – Opera)

 

Non so se vi sembrerà banale e retorico quello che dirò: se non si fa qualcosa di utile per gli altri, non si è utili neanche a sé, si diventa degli stupidi volontari. Infatti trovo un po’ stupido questo mondo. La galera sembra fatta apposta per renderti inutile a te e agli altri: quando lo capisci, cerchi di darti da fare.

 

Andrea Pirola (Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Milano)

 

Con vivo piacere aderisco all’invito, gentilmente rivoltomi dal Dr. Pierfelice Bertuzzi, che conosco ed apprezzo in qualità di assistente volontario presso il Carcere di Opera, di salutare la pubblicazione del presente libro, che sicuramente contribuirà a rendere più conosciuta, anche al di fuori degli operatori del settore, l’Associazione Il Bivacco.

Proprio in virtù del mio lavoro di Magistrato di Sorveglianza, ormai da anni in servizio presso il Tribunale di Sorveglianza di Milano, ho potuto constatare ed apprezzare il contributo spesso determinante dell’Associazione Il Bivacco finalizzato a rendere possibile l’accesso a misure alternative anche a detenuti privi di riferimenti abitativi o familiari, che pur meritevoli delle stesse, altrimenti non avrebbero potuto beneficiarne.

L’Associazione pertanto, grazie all’operoso contributo dei propri volontari, è diventata nel tempo un prezioso e insostituibile punto di riferimento per il Tribunale di Sorveglianza di Milano, realizzando nella concretezza della quotidianità un ponte tra il carcere e la società esterna, presupposto indispensabile per tentare di realizzare gli ambiziosi propositi sottintesi alla riforma penitenziaria che altrimenti rischierebbero di rimanere una bella utopia.

 

Suor Raffaele Maria Bisoni (Responsabile Centro Zoè e Ass. volontaria nel carcere di Milano-S. Vittore e di Milano-Opera)

 

Un augurio vivissimo anche dal Centro Zoè a Il Bivacco, ai suoi iniziatori e prosecutori in occasione dei dieci anni dalla fondazione. Fin dai suoi inizi è stato un valido punto di riferimento per quei nostri utenti, ai quali l’associazione ha offerto ospitalità per la fruizione dei permessi premiali e per l’attività di reperimento di un impiego lavorativo.

Il dialogo si è man mano intensificato attorno al comune intento di aiutare le persone detenute a reinserirsi nella società. Il Bivacco nel tempo ha meglio qualificato il suo intervento riguardante l’accoglienza e l’accompagnamento. Con il centro Zoè sempre maggiori sono le possibilità di collaborazione e di condivisione di risorse.

 

Mauro Imperiale (Educatore del carcere di Como)

 

Il Bivacco è un’esperienza vera di accoglienza e solidarietà. L’appassionato di alta montagna in ascesa solitaria che pensa al bivacco, quasi istintivamente evoca l’immagine di un rifugio spoglio e isolato, con il solo occorrente per trascorrere una notte al riparo dal freddo. Un rifugio spoglio, ma aperto a tutti. Un luogo particolare dove potersi riposare e raccogliere i propri pensieri e le proprie emozioni. Un luogo libero, affascinante, che incoraggia l’alpinista a non fermarsi, a salire ancora per raggiungere la vetta.

La fatica scompare di fronte all’immensità dello spazio infinito e ai limiti dell’esistente. Questo breve pensiero per introdurre la storia di un altro Bivacco, diverso dal precedente, che ha una storia ed una esperienza da raccontare e da diffondere. Il Bivacco nasce così. Un cortile abbandonato, situato nel centro di Melegnano, dopo tanti anni di duro e faticoso lavoro, è diventato una piazza grande, piena di vita e colori, una realtà viva sul territorio e per il territorio.

Una realtà aggregativa e sociale che comunica direttamente con il carcere, in una prospettiva di accoglienza e di supporto, tesa a favorire il pieno reinserimento di soggetti svantaggiati socialmente. E in questa piazza le persone s’incontrano, si confrontano, si scambiano i loro patrimoni di vita e di esperienza. é un continuo e reciproco arricchimento, che consente a chi è sempre vissuto ai margini della strada e della vita, di sentirsi parte integrante del corpo sociale.

E ancora in questa piazza le diverse culture e tradizioni dialogano tra loro nel rispetto reciproco delle diversità e nella valorizzazione degli aspetti culturali e umani differenti. E in questa piazza si lavora per crescere autonomamente e dare in tal modo a chi viene accolto gli strumenti per recuperare il senso della sua identità e umanità, in una dimensione di accoglienza e di promozione umana e sociale.

In questo lavoro, allo spirito assistenzialistico e di delega che spesso ancora connota esperienze di accoglienza, si sostituiscono e vengono attuati i principi della responsabilità, della autonomia e della sussidiarietà, per rendere effettivo ed efficace il processo di crescita e di trasformazione di chi ha sbagliato ed ha conosciuto il carcere. E’ evidente che questo lavoro molto impegnativo viene condotto (insieme agli utenti) da operatori e volontari, che hanno acquisito competenze adeguate nel settore, seguendo corsi di formazione mirati. Il programma è strutturato e articolato in un vero e proprio progetto personalizzato, che prevede fasi diversificate di approccio e intervento. Il Bivacco non è infatti solo accoglienza, ma anche orientamento e accompagnamento relazionale e lavorativo, per favorire il pieno inserimento e l’integrazione sociale. Si diceva del territorio. E il territorio, nell’esperienza del Bivacco, è parte centrale del progetto. Il Bivacco infatti si colloca in una realtà non isolata o emarginata, ma compiutamente inserita e integrata nel territorio di Melegnano, al centro del paese, in un rapporto di continuo interscambio o interazione con le istituzioni penitenziarie e con le altre componenti territoriali (istituzioni e non) della realtà esterna.

Questo radicamento consente di rendere le relazioni e i rapporti più immediati e proficui. Gli istituti penitenziari di Milano-San Vittore, Milano-Opera, Pavia, Como e altri ancora, nel Bivacco hanno trovato un interlocutore molto credibile e significativo, in tema di recupero e di aiuto ai soggetti dimessi o in regime di esecuzione penale esterna, senza riferimenti affettivi, lavorativi e alloggiativi. Dopo queste riflessioni e considerazioni è facile intuire e dedurre che gli utenti della struttura sono soggetti che hanno alle spalle esperienze carcerarie, detenuti extracomunitari senza nome e senza dimora, persone in grave difficoltà sociale e umana, con percorsi incrociati di abbandono e solitudine, persone segnate dai meccanismi dell’emarginazione e dell’esclusione sociale.

Ebbene in questa comunità molte di queste persone hanno sperimentato forme di autentica accoglienza senza discriminazioni di fede, razza o cultura; hanno sperimentato modelli di relazione nuova, hanno riflettuto criticamente sul significato delle loro azioni e dei loro comportamenti, in una prospettiva di trasformazione del proprio stile di vita e dei modelli precedenti di riferimento. Certo i problemi e le difficoltà non mancano, è anche normale che esistano momenti di scoraggiamento e di stanchezza, ma poi si torna sempre ad operare e a lottare, affinché Il Bivacco mantenga e sviluppi la sua importante funzione sociale e si possa estendere anche ad altre realtà territoriali. Tornando alla divagazione iniziale dell’alpinista in ascesa solitaria verso un bivacco, mi è naturale pensare a Pierfelice Bertuzzi, vero pioniere in ambito sociale e ispiratore del progetto, che con grande coraggio e tenacia ha sfidato l’impossibile per dare anima e vita a questa esperienza.

E’ vero, sono arrivati contributi significativi di enti pubblici e privati, ma senza il coraggio e il lavoro silenzioso (senza alcun protagonismo) di Pierfelice Bertuzzi e di altri amici come lui, il progetto non si sarebbe attuato e quel cortile, oggi pieno di vita e luce, sarebbe rimasto un angolo isolato e avvolto dallo squallore dell’indifferenza. Questa breve presentazione si sofferma solo sulla filosofia e sulla esperienza del Bivacco, ispirata a valori autentici della solidarietà sociale, della condivisione e dell’accoglienza, senza volutamente entrare negli aspetti educativi e tecnici di alto spessore che qualificano e definiscono la struttura intera del progetto. E’ più giusto che di tali principi e dell’intero programma educativo e di accompagnamento sociale esterno si pronuncino gli esperti e i tecnici che se ne sono occupati da anni e sperimentano quotidianamente sul campo l’efficacia del lavoro svolto. Mi piace terminare con una frase di Helder Camara, che riassume per intero il significato di una vera esperienza di accoglienza e solidarietà: "Quando se sonha è apenas un sonho. Quando sonhamos juntos è o comeco de realidade". E veramente se tanti uomini sognano la stessa cosa, il sogno diventa realtà.

 

Diego Montrone (Presidente di GALDUS)

 

Scriveva Terenzio: "Sono un essere umano: ritengo che nulla che sia umano sia a me estraneo". Raccontare ciò che è avvenuto in questi due anni di rapporti con Il Bivacco! Assai difficile perché per noi della Galdus, significa raccontare perché e come abbiamo iniziato a lavorare all’interno della struttura penitenziaria di Opera. Un quesito non da poco! Galdus da circa dieci anni progetta e soprattutto realizza attività educative rivolte in prevalenza a soggetti provenienti dal mondo del disagio e già da diversi anni la problematica del carcere, coinvolgendo ex-carcerati, era in qualche modo conosciuta e trattata.

Due anni orsono, grazie ad una serie di incontri, ci siamo trovati ad allargare il panorama delle nostre iniziative organizzando il primo corso per artigiani della pietra all’interno della struttura penitenziaria.

Il Bivacco, incarnato da Mafalda e Pierfelice, è stato sicuramente una parte significativa di questi incontri. Mi ricordo ancora le peripezie e le difficoltà per impiantare strutturalmente il laboratorio (i tempi e le modalità del mondo carcere sono stati per me una buona prova di carattere). Ora (a due anni dalla prima edizione) siamo alla terza attività realizzata in collaborazione con Il Bivacco, aggiungendo al laboratorio di lavorazione della pietra (ora lanciata, si spera nell’avvio di una realtà produttiva), un’attività che si svolge nel laboratorio di falegnameria. Sicuramente in questo ci ha aiutato anche il Consorzio Sud-Ovest che da tempo realizzava attività formative all’interno della struttura penitenziaria. Non vorrei però puntare su questi elementi il contenuto di questa mia breve testimonianza, sarebbe forse più divertente, ma non focalizzerebbe l’attenzione, in questo momento felice per Il Bivacco, sull’importanza delle attività che i nostri enti svolgono all’interno del carcere.

Mi sono chiesto, avvicinandomi a questo contesto particolare, se i presupposti educativi delle attività da noi svolte potevano essere le stesse. Da un punto di vista, qualche piccolo dubbio l’avevo. Ma la consapevolezza di avere a che fare con essere umani mi portava a riconoscere la possibilità di calare totalmente il nostro approccio anche in questo contesto.

Da sempre crediamo che fondamentale all’interno delle attività sono gli operatori coinvolti, siano formatori o educatori. Persone impegnate con la propria umanità, con la propria vita. Non con alcuni elementi della propria vita, come la professione, la famiglia o la politica, la religione ma chi è impegnato totalmente con la vita. Il che sta a significare che si gioca con grande responsabilità nella ricerca di autenticità, verità e valore di tutti gli elementi della realtà. In tal senso l’educatore è soprattutto colui che invita la persona a trovare la strada della totale soddisfazione personale. E questo, anche se potrà sembrare difficile da credere, credo si debba fare anche all’interno della struttura penitenziaria. Per arrivare a questo, dobbiamo avere chiaro quale nostro punto di arrivo e quale forma vorremmo raggiungere, e quindi anche da quale forma partiamo, per poter in seguito definire attraverso quali strade e grazie a quali mezzi potremo arrivarci.

Quando ad orientarsi è l’essere umano che si volge verso le sue mete di vita, siano esse l’apprendere in modo efficace e soddisfacente, l’inserimento o ri-orientamento lavorativo, la scelta scolastica o professionale, il sostegno in un fase di transizione vitale, i fattori che entrano in gioco sono molteplici e hanno a che fare, oltre che con la complessità del reale, con quella propria dell’uomo: interessi, capacità, attitudini, l’immagine di se stessi (autostima), ciò che si muove (motivazione), la percezione e la capacità di incidere sulla realtà e di saper utilizzare le proprie competenze (autoefficacia e stili di attribuzione), le prefigurazioni sul futuro, la sfera valoriale, la capacità di prendere decisioni tenendo presente anche i vincoli e i criteri personali. Soprattutto entra in gioco quella limitatezza intrinseca che rende difficile all’uomo il contatto con il vero sé e con la vera realtà.

Per questo è spesso necessario che chi compie questo percorso venga accompagnato, sostenuto, aiutato nel suo muoversi e procedere da qualcuno che grazie alla sua esperienza profonda in ciò che è intrinsecamente umano può aiutare ad identificare o addirittura indicare quale è la posizione di partenza ma soprattutto quella di arrivo, e i mezzi per raggiungerla: e questo è chiaramente un intervento educativo/formativo (inteso come un educare, tirare fuori per dare forma).

L’azione orientativa richiede quindi di essere sottesa e animata da un forte agire educativo e da intenzionalità, affinché sia significativa per il soggetto.

Perché tutto questo in attività formativa? La situazione di apprendimento è sempre una situazione di cambiamento. La persona acquisisce qualcosa di nuovo, o almeno rafforza parti di sé, in ogni caso è diventata, al termine del processo stesso, diversa da ciò che era all’inizio. E’ evidente allora che le attività di formazione portano la persona che ne è coinvolta a confrontarsi con il cambiamento, la crescita, il passaggio da una situazione di non piena consapevolezza di sé e delle proprie potenzialità ad una presa di contatto e di sviluppo delle stesse al di là di preconcetti, limiti, visioni distorte e parziali, in definitiva non vere, di sé e della realtà in cui si è immersi.

E’ dal forte legame consequenziale che lega apprendimento e cambiamento che deriva quell’ambivalenza che le azioni di formazione di questo tipo suscitano nei discenti: da una parte il desiderio di crescere imparando, desiderio che è connaturato all’essere umano perché risponde ai suoi bisogni di autorealizzazione; dall’altra il timore, lo stare sulla difensiva a fronte di un percorso che scardina una posizione di equilibrio, magari anche precario, ma almeno conosciuto, per condurre verso una meta non ancora del tutto nota e che soprattutto non si sa ancora se piacevole.

Quando quest’ultima parte prevale, il raggiungimento dell’obiettivo è reso più difficoltoso: intervengono infatti fattori emotivi, affettivi, soggettivi, paure, difese, che impediscono alla parte cognitiva di assimilare al meglio i concetti nuovi, oppure che portano il soggetto a sapere ma non a fare. In seguito a questa esperienza, tengo anche a precisare che è stata occasione per meglio definire il lavoro e quindi la presenza de il Bivacco e della Cooperativa Soligraf, all’interno di strutture penitenziarie.

Mi è sembrato di leggere, tra i vari documenti di esperti del settore che il lavoro viene definito come l’elemento peculiare dell’azione pedagogica penitenziaria. "Perché possa sviluppare tale valenza esso non può prescindere da una minima ed adeguata scolarizzazione del soggetto prima ed una sua corretta professionalizzazione poi. Il percorso pedagogico segue, quindi una via obbligatoria: nel carcere deve nascere prima un profondo rapporto umano ed umanizzante fra il detenuto e tutte le professionalità che, con diverse funzioni e nei vari ruoli, intervengono nell’istituto". Quando il lavoro all’interno o all’esterno della struttura penitenziaria dà frutti concreti, il detenuto potrà sentire finalmente allontanarsi i suoi precedenti fallimenti, ritrovare una dimensione e sostenere interessi familiari, affettivi, economici mentre l’operatore coinvolto nelle attività all’interno del carcere, sentirà che tutto sommato vale la pena (eccome) di sostenere la gravosità dell’impegno professionale.

Per il futuro, credo, è importante che i programmi identifichino e costruiscano la loro collocazione nel rapporto tra carcere e comunità esterna.

Se l’obiettivo prioritario consiste nell’innescare attraverso la formazione e il lavoro la risocializzazione dei detenuti, in particolare dei giovani, diventano decisive le strategie rivolte a costruire un sistema articolato di mediazioni tra vita dentro il carcere e vita attiva nel mondo del lavoro e nella società, che colmi la frattura tra queste due dimensioni e renda praticabile alle persone l’esperienza del passaggio dall’una all’altra. Questo, mi sembra, è la collocazione dell’operato del Bivacco. Complimenti e auguri!

 

Francesco Abbà (Presidente del Consorzio Terzo Sistema)

 

Il Consorzio Terzo Sistema nasce dall’aggregazione di cooperative sociali e associazioni del Sud Milano e Lodigiano, che hanno la medesima identità culturale e imprenditoriale della solidarietà verso le persone in svantaggio sociale. Le cooperative sociali e le associazioni si scontrano spesso con le difficoltà di realizzazione dei propri obiettivi sociali, soprattutto per ciò che riguarda la possibilità di lavoro e il reperimento di risorse umane e finanziarie.

Vi è perciò la necessità di unirsi per meglio affrontare le sfide del mercato compatibilmente con la realizzazione della mutualità allargata. La struttura del Consorzio consente lo sviluppo di una più ampia dimensione solidaristica, sviluppando le imprese sociali, mantenendole però ancorate al loro territorio e preservando la loro identità. L’idea di partenza è stata quella di concepire la solidarietà non solo tra soci e soggetti svantaggiati, intendendo la solidarietà in senso globale e in primo luogo tra cooperative sociali.

Questi scambi danno vita al consorzio, cioè ad una cooperativa delle cooperative, ciascuna delle quali aderirà portando la propria storia, la propria collocazione ideologica e le proprie capacità operative, nonché le proprie risorse umane. Il collante tra le cooperative è l’appartenenza, oltre che all’ambito della cooperazione sociale, anche ad un comune contesto territoriale. Con ciò si intende porre l’accento sulla attività delle cooperative volta ad soddisfacimento dei concreti bisogni espressi dal territorio in contrapposizione alla elaborazione di astratte politiche sociali.

Il Consorzio agisce quale promotore delle attività imprenditoriali delle cooperative e delle associazioni socie, senza dimenticare, ma anzi facendosene carico, della promozione delle finalità sociali di ciascuna realtà, nello spirito della legge 381/91 sulla disciplina della cooperazione sociale. Le attività consortili hanno riguardato la formazione dei soci, l’informazione legislativa, i servizi amministrativi, la consulenza specialistica, la gestione degli obiettori di coscienza.

Il Bivacco, organizzazione di volontariato presente dal 1989 nelle realtà del carcere di Milano-Opera e Milano-San Vittore, ha costituito per il Consorzio una voce significativa per avviare un confronto tra le cooperative associate sul mondo del carcere, offrendo l’esperienza derivata da progetti di sperimentazione di servizi innovativi nella costruzione di politiche sociali rivolte al reinserimento di persone detenute. Il Bivacco è entrato in stretta connessione con le realtà del consorzio che si occupano di inserimento lavorativo studiando opportunità a favore di detenuti in permesso premiale ed ex detenuti di altra idonea possibilità abitativa.

L’associazione Il Bivacco ha usufruito anche di alcuni servizi consortili (gestione obiettori di coscienza e consulenze specifiche) ed ha validamente partecipato alla costruzione delle politiche consortili con una propria rappresentante all’interno del collegio dei sindaci di Terzo Sistema.

 

 

 

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