La formazione del personale

 

Handle with care: il personale penitenziario e la sua formazione

di Fiorentina Barbieri

 

9.1 - La rilevanza della formazione del personale

 

Negli ultimi anni, per diverse ragioni, l’attenzione dell’opinione pubblica si è spesso rivolta verso il mondo del carcere, verso il dilatarsi dell’ambito dell’esecuzione penale. E quando alcuni inquietanti episodi hanno restituito l’immagine di una situazione premoderna delle carceri italiane, come i maltrattamenti al San Sebastiano di Sassari nel 2000, qualcuno ha finito con il chiedersi se i principali custodi di una situazione potenzialmente esplosiva, la polizia penitenziaria prima di tutto, fossero adeguati ai propri compiti.

Nel sistema penitenziario italiano importanti interventi, negli ultimi decenni, ne hanno sicuramente umanizzato la fisionomia generale, ma non sembra abbiano assicurato il pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona detenuta, mentre è certo che è all’istituzione penitenziaria che spetta il compito di ridare concretezza all’art. 27 della Costituzione, il fine rieducativo della pena.

Questo obiettivo, e i suoi fallimenti, sono per molto legati a quanto il sistema di funzionamento dell’Amministrazione possa riuscire a sintonizzarsi con la mentalità e le motivazioni degli operatori, a dare loro il senso degli ordinamenti che sono chiamati ad applicare e il modo di renderli parte attiva nelle strategie di trasformazione. Non si tratta solo di un intervento di razionalizzazione, ma di verificare la rispondenza del sistema di formazione del personale al progetto di costruzione di modelli professionali adeguati a coniugare l’efficienza del servizio con il rispetto dei diritti fondamentali della persona detenuta. Un’azione attenta quindi ai limiti da porre al potere punitivo e insieme consapevole delle responsabilità, in termini di reinserimento sociale, che gravano sull’istituzione penitenziaria e sui suoi operatori.

Senza di ciò appare improbabile che il personale, segnatamente la polizia penitenziaria, arrivi autonomamente ad assumere comportamenti migliorativi della condizione dei detenuti, tenuto conto che per molti la legge coincide con l’ambito delle regole della famiglia, con la grammatica familiare di ciò che è giusto e di ciò che non è giusto, e che la tutela delle garanzie del detenuto non viene considerata elemento costitutivo del proprio ruolo professionale. All’interno del mondo penitenziario sono del resto in molti a considerare gli interventi riformatori introdotti per il carcere con le riforme del 1975 (la riforma penitenziaria) e del 1986 (la Gozzini), "...aspirazione astratta di un legislatore a cui sembra sfuggire la dura realtà del carcere".

 

9.2

Ruoli e profili

 

Il personale dell’Amministrazione penitenziaria fa riferimento a due comparti dello Stato: per quello amministrativo e tecnico è il Comparto ministeri mentre il Corpo di Polizia Penitenziaria è incluso nel Comparto della Sicurezza.

Dal 1957, quello che allora si diceva personale civile era stato diviso, come gli altri impiegati del pubblico impiego, in fasce di carriera - ausiliaria, esecutiva, di concetto e direttiva - il cui accesso era regolato dal titolo di studio posseduto. Nel 1980, con la legge 312, questo sistema era superato dall’introduzione della qualifica funzionale, che si sviluppava attraverso nove livelli. Questo l’impianto fino al contratto 1998-2001, firmato nel luglio del 2000, che ha inquadrato questo personale in tre aree (A, B, C), a loro volta divise in posizioni economiche (come C1, C2, C3), che grosso modo corrispondono ai livelli della qualifica funzionale. Le figure professionali sono distinte in settori di attività, al cui interno possono attivarsi percorsi di mobilità verticale, in certi casi anche da un’area all’altra e da un settore all’altro.

Le aree e i settori stentano però a racchiudere una molteplicità di figure che certo l’ultimo contratto ha contribuito a inquadrare più dignitosamente, ma che hanno trattamenti assai differenziati nelle progressioni di carriera. La fase che si sta attraversando appare del resto non completamente definita, sia perché potrebbero essere decisi indirizzi diversi rispetto a quanto programmato dal precedente governo, sia perché le trasformazioni innescate stanno inserendosi gradualmente - e non sempre armonicamente - all’interno di un settore rigido per sua natura.

Un passaggio fondamentale è nella legge n. 395/90, che oltre al nuovo ordinamento della Polizia Penitenziaria, contiene la ristrutturazione dell’Amministrazione secondo il modello dipartimentale, già sperimentato nella Pubblica Sicurezza, e un quadro organizzativo che ha impostato l’accesso dei funzionari alla qualifica dirigenziale. A sostituire gli Uffici degli Ispettori distrettuali vengono inoltre istituiti i Provveditorati regionali.

 

9.3

La formazione

 

Il sistema formativo dell’Amministrazione penitenziaria viene definito dalla legge 395/90 e dal decreto legislativo 446 del 1992, che conferiscono all’ISSP, Istituto superiore di studi penitenziari, i compiti della formazione e dell’aggiornamento per il personale direttivo (classe C), mentre l’Ufficio della formazione e aggiornamento del personale si occupa della polizia penitenziaria e delle classi A e B, quelle che prima erano chiamate le carriere esecutive e di concetto.

La prima moderna scuola di formazione, istituita nel 1984 a Roma, in via Giulia, si occupava dei neoassunti del personale amministrativo, il futuro Comparto Ministeri; per gli agenti di custodia c’erano le scuole di addestramento tecnico, Cairo Montenotte, Parma, Sulmona, Portici, Monastir, cui si sono poi aggiunte la sede di Verbania e di Roma - via di Brava.

Dopo il concorso di accesso, tutti frequentano corsi di formazione di base; poi il personale del Comparto ministeri, secondo il contratto 1998-2001, passa nelle nuove carriere attraverso "corsi di riqualificazione", quello di polizia penitenziaria con concorsi, interni o esterni, cui poi seguono i corsi di formazione tecnico-professionali.

Tutti i corsi, si svolgono parte in aula, parte on the job, sul posto di lavoro. Gli ultimi corsi di riqualificazione si sono svolti in comune tra educatori, assistenti sociali, collaboratori di istituto penitenziario, ragionieri, informatici, bibliotecari. Essi hanno incluso fra le materie di insegnamento la legislazione sul lavoro pubblico (D.Lgs. 29/93, D.Lgs. 80/98), la normativa sulla sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 626/94), le leggi Bassanini e la legge sulla semplificazione amministrativa (L. 50/99, L. 340/00), la legislazione sulla riservatezza dei dati (L. 241/90), il regime dei controlli nella Pubblica Amministrazione (D.Lgs. 286/99); il D.Lgs. 146/2000 riguardante l’adeguamento delle strutture e degli organici del DAP e dell’Ufficio centrale per la giustizia minorile, l’ordinamento penitenziario e il regolamento di esecuzione. Una sezione ha riguardato le logiche e gli strumenti della comunicazione interna ed esterna, i processi dell’integrazione e della negoziazione, il project management e il problem solving, punti su cui sono state anche centrate le attività di tirocinio, insieme al miglioramento dell’organizzazione, alla semplificazione amministrativa, alla documentazione dell’attività, alla raccolta e alla presentazione dei dati.

Per entrambi i comparti intervengono altre forme di aggiornamento e approfondimento grazie all’ausilio di progetti speciali con finanziatori esterni. I docenti sono generalmente funzionari di varie amministrazioni, specialisti, docenti universitari, magistrati, medici, a volte incaricati attraverso agenzie private di formazione.

 

9. 3. 1. La polizia penitenziaria

 

L’organizzazione della Polizia Penitenziaria viene compiutamente definita con la legge 395/90, con la quale, dallo scioglimento del Corpo degli Agenti di custodia, la si istituisce corpo civile sotto la direzione del ministero di Giustizia, presso il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, e le si attribuisce le disposizioni di cui alla legge 121/81, che ha istituito il nuovo ordinamento della Pubblica Sicurezza e della Polizia di Stato, anch’essa non militare.

All’interno viene compreso il personale femminile proveniente dal disciolto corpo delle Vigilatrici carcerarie. Con il decreto legislativo 146/2000 viene inoltre introdotta anche per la Polizia Penitenziaria la carriera direttiva e dirigenziale, con concorsi e progressioni di carriera per lo più mutuati da quelli della Polizia di Stato: l’area della sicurezza prevede ora al livello più alto i commissari. È stato questo un intervento fortemente voluto dalla categoria che, oltre ad ovvie motivazioni di prestigio sociale e di vantaggi economici, ha per molti anni lamentato il fatto di essere corpo acefalo, che non trovava all’apice della carriera un superiore diretto, omogeneo sotto il profilo professionale: nella convinzione di essere quella chiamata, all’interno degli istituti, a sostenere gli oneri maggiori nella gestione dei detenuti, si sono rivendicati non solo miglioramenti salariali ma un maggior potere di gestione, anche nelle scelte di accesso alle risorse.

Il D.P.R. n. 431 del 1976, regolamento d’esecuzione della legge n. 354/75, attribuiva a quelli che erano gli agenti di custodia compiti di servizio di sicurezza e di custodia negli istituti penitenziari, ma queste disposizioni non erano riuscite ad evitare il persistere di forme di corruzione e violenze. Con la legge 395/90 vengono stabiliti i nuovi compiti della Polizia Penitenziaria, che riguardano, oltre l’ordine interno degli istituti e la loro sicurezza, il controllo e il sostegno dei detenuti nell’ambito delle strutture penitenziarie; inoltre incarichi di polizia giudiziaria, contemplati dall’articolo 55 del codice di procedura penale, come l’esecuzione di provvedimenti restrittivi, la conservazione dell’ordine negli istituti di pena, il servizio di traduzione e piantonamento di detenuti ed internati.

Anche se il sistema di organizzazione rimane di tipo militare, è in questa legge che sono presenti i presupposti per un ruolo più dinamico della Polizia Penitenziaria e l’identità di corpo civile le ha inoltre consentito la possibilità di essere rappresentata dai sindacati, che in una fase di rinnovi contrattuali nei quali la categoria veniva assiduamente corteggiata da entrambi gli schieramenti politici del nostro paese, le ha potuto consentire insperate conquiste. Nel merito, l’articolo 5 della 395/90, nel sancire la smilitarizzazione del Corpo, gli attribuisce compiti che superano l’ambito meramente custodiale, per renderlo esplicitamente partecipe del percorso trattamentale dei detenuti. Si trattava di una disposizione innovativa nei confronti di un personale fino ad allora trascurato e male utilizzato, un indirizzo che andava tra l’altro a saldarsi con l’impianto della riforma del 1975 e con quello della stessa legge Gozzini. C’è da dire che a tutt’oggi non sembra ne sia stata del tutto colta la portata, quella di una dimensione di lavoro diversa, che avrebbe potuto valorizzare la dimensione sociale di questo personale, conferendogli maggior peso ed autorevolezza.

Per tutti gli operatori del Corpo, una quota fissa di addestramento alle armi è riconfermata come obbligatoria nell’accordo quadro del luglio 2000, per minimo dodici giorni lavorativi annui, a cadenza bimestrale.

I prerequisiti per il concorso di accesso alla professione, per allievo agente, sono costituiti da 28 anni di età massima e dalla licenza media.

Mentre negli ultimi bandi di concorso, per la progressione ai livelli più alti vengono richiesti il diploma di scuola superiore o la laurea, per il vecchio personale che va risistemato, è ancora l’anzianità di servizio a determinare la carriera, con concorsi interni, per titoli ed un colloquio. E per l’accesso alla funzione di vicecommissario non è richiesto alcun titolo di studio, oltre all’anzianità.

I contenuti degli esami, a tutti i livelli - elementi di diritto penale, processuale e penitenziario - sono ripresi nella parte teorica dei corsi, nella quale si aggiungono le tematiche della comunicazione e della gestione del personale. È quanto viene previsto, ad esempio, nella formazione per sovrintendenti: sono presenti metodologie prevalentemente "attive", le simulate, strutturate per dare un indirizzo sui modi di affrontare le principali situazioni sul lavoro e nella fase on the job si è generalmente affidati alla guida di un trainer, un collega esperto.

La concentrazione in tre mesi dei corsi di formazione per allievi agenti, previsti di durata annuale, ne ha obiettivamente distorto l’impianto, a beneficio di una sostanziosa percentuale di addestramento tecnico. Così l’ultimo corso, per quasi 1.000 agenti in prova, durato circa 300 ore, più una fase di accoglienza e un esame finale, che si è svolto in parte presso le Scuole di Roma, Verbania, Sulmona, in parte on the job, con lezioni e addestramento all’uso di armi da fuoco e tecniche di difesa e di neutralizzazione "senza nocumento" di eventuali avversari.

Anche l’ultimo corso per viceispettori - 18 mesi per circa 1.300 ore - a carattere residenziale, presso le Scuole di Parma e Roma, e on the job, ha ripreso le materie base di diritto penale e penitenziario, la comunicazione, e approfondito l’analisi del sistema organizzativo dell’Amministrazione penitenziaria.

Esaminando i programmi dei corsi, a stupire è la distribuzione interna con cui certi temi acquistano rilevanza rispetto ad altri: per gli allievi agenti, di contro alle 53 ore dedicate alle tecniche di addestramento alle armi, ne sono previste 4 per quanto attiene al "rispetto della dignità dei diritti della persona"; una formulazione che tra l’altro non contiene ancora il riconoscimento della specificità dei "Diritti umani".

Per i viceispettori, questi temi, riconosciuti nell’accezione "Tutela internazionale dei diritti dell’uomo e del detenuto", occupano 15 ore (nelle quali sono comunque inserite anche le regole penitenziarie di altri paesi e la normativa sull’estradizione), circa un centesimo del pacchetto ore complessivo. Per l’addestramento alle armi la percentuale di ore è di circa dieci volte tanto; ma spesso accade - riferisce chi ha frequentato i corsi - che per assenza dei docenti o altro, le ore riguardanti le lezioni teoriche vengano sostituite da reiterati periodi di addestramento, di marce, di "tiri bianchi" con le armi, ritenuti sempre molto utili dai superiori, anche se si tratta di un corpo che sul lavoro, in condizioni normali, armi non ne porta.

Molta attenzione è dedicata anche agli argomenti concernenti la "Deontologia del ruolo". Per gli allievi viceispettori, le 20 ore assegnate in programma per la deontologia, concepita come senso di appartenenza al Corpo, sono completate con 40 ore per la "Scuola Comando e l’addestramento formale", che riguarda le "Modalità di impartire un ordine" (ordine di avvertimento, esecuzione, allineamento, cambiamento di fianco, di fronte, di marcia ecc.), oltre alle modalità di impartirlo senza armi e con le armi, con o senza sciabola ( ? ), i reparti nei servizi d’onore, il saluto con copricapo e senza.

Fino al 1993-94, quando gli accessi alla carriera vennero formalizzati e sottoposti a controllo con i concorsi, i flussi di mobilità erano sottratti a criteri obiettivi di razionalizzazione, per lo più determinati da spinte clientelari, così che le destinazioni erano oggetto di scambi privilegiati che hanno consentito di assecondare il richiamo verso le zone di appartenenza tanto da determinare una distribuzione disomogenea della polizia nel territorio italiano. In qualche istituto può accadere ci siano più agenti che detenuti. Nell’Italia settentrionale è generalmente un agente scelto a ricoprire il ruolo di capoposto (responsabile di un servizio interno o esterno alle mura), perché di solito lì il personale è più giovane sia di carriera che di età. Al Sud - e il Sud comincia dal Lazio - gli ispettori sono mediamente più anziani. Dopo il concorso pubblico del 1994 - da cui sono usciti più di 1.200 agenti - il personale è stato inviato soprattutto al Nord, maggiormente carente negli organici. Sarebbe quindi opportuno determinare una maggiore stabilità, organizzando la formazione su base regionale e vincolando il personale ad un congruo periodo di permanenza nella sede.

La richiesta reiterata e generalmente condivisa, anche dai direttori, è comunque quella dell’aumento di organico. Che in realtà, in Italia è tra i più alti rispetto agli standard europei e a quelli degli USA; ciò dipende da una diversa logistica e da una diversa organizzazione della vita negli istituti di altri paesi, dove il numero degli agenti è più basso per la minore presenza di barriere all’interno del carcere, dove maggiore è l’uso di controlli elettronici e i detenuti possono circolare senza custodia entro aree ampie.

Gli operatori di area pedagogica comprendono la figura dell’educatore e dello psicologo. La figura dell’educatore nasce dalla riforma carceraria del 1975, che introduce in ambito penitenziario gli impiegati di concetto, con un ruolo in parte ispirato - ne serba traccia il termine - a quella che era la figura dell’educatore per i minori. Il suo compito consiste nel coordinare e promuovere le attività del trattamento di detenuti e internati sottoposti ad osservazione, quelle di lavoro, scolastiche, culturali, ricreative, religiose, mantenendone le cartelle personali, con i dati biografici, giudiziari, sanitari, ricompense e sanzioni disciplinari, istanze e informazioni sul comportamento.

L’ammissione - titolo di studio il diploma di scuola media superiore - prevedeva prima un concorso (una prova attitudinale di psicopedagogia, due scritti - pedagogia e ordinamento penitenziario -, un orale - materie di diritto amministrativo, costituzionale, criminologia). Seguiva il corso di formazione con l’approfondimento degli stessi temi. Dopo la legge 312 del 1980, che si proponeva di trasformare la pubblica amministrazione, nel 1984 si stabilirono i nuovi profili professionali che precisavano come requisiti di accesso la laurea (una tra sociologia, psicologia, pedagogia, giurisprudenza, lettere), con una specializzazione, e una lingua straniera: il peso che il riassetto conferiva a questa figura, che da ruolo meramente esecutivo passava a occuparsi dell’osservazione scientifica della personalità del detenuto, rendeva indispensabile una maggiore qualificazione. Ma dopo la modifica dei requisiti di ammissione non sono stati banditi concorsi, per cui finora la laurea non è stata mai richiesta. Nel 2000 è stato chiuso il concorso interno per direttore coordinatore di area pedagogica (prove scritte e orali su ordinamento penitenziario e pedagogia sociale), che prevedeva il possesso della laurea e del diploma di specializzazione post laurea, quest’ultimo sostituibile con un breve corso di pedagogia penitenziaria. Ma in generale, al di là del concorso iniziale, il contratto di tutto il Comparto ministeri prevede ormai che i passaggi interni avvengano attraverso i corsi di riqualificazione (per punteggi di anzianità, e percorso di aula e tirocinio), come quello conclusosi nel 2001.

Ci sono però segnali che esprimono il rischio di svuotamento della funzione professionale dell’educatore, anche a causa della carenza numerica e quindi della mancanza di turnover, dal momento che le assunzioni sono bloccate e il numero complessivo è fermo a 600 circa unità.

Gli psicologi che lavorano in carcere sono esperti chiamati a svolgere le loro funzioni sia all’interno degli istituti, nell’osservazione e nelle equipe trattamentali, sia nei Centri di servizio sociale per adulti. Sono laureati in psicologia e iscritti all’albo. Pochi sono invece i criminologi, laureati in medicina e successivamente specializzati. Su domanda, si è ammessi ad un colloquio che verte sul ruolo del trattamento e dell’osservazione e sull’ordinamento penitenziario; chi lo supera entra in un elenco regionale, e da lì è inserito negli istituti.

Lavorano a parcella in convenzioni a termine, che firmano ogni anno per conferma. Non sono quindi dipendenti del ministero della Giustizia il che, se è positivo in quanto si evita di configurare un rapporto organico tra percorso penale e percorso clinico, comporta che, come liberi professionisti, non siano sottoposti a verifiche sul campo né ad alcuna formazione specifica. Sono chiamati a volte nei corsi di formazione per agenti, per comunicazioni su particolari tematiche.

 

9.3.3. I direttori

 

I direttori penitenziari sono attualmente inquadrati sui tre livelli dell’area C; di essi alcuni svolgono le funzioni di direttori di istituto, altri, gli ex collaboratori di istituto penitenziario, hanno compiti di collaborazione alla direzione pur non potendone avere la reggenza.

Le attribuzioni del direttore penitenziario riguardano la definizione di procedure sul funzionamento e la disciplina delle attività del personale, la direzione dei gruppi di osservazione e dello svolgimento dell’esecuzione penale, anche rispetto all’eventuale ammissione al lavoro esterno dei detenuti. Cura inoltre i collegamenti con la magistratura, in particolare con quella di sorveglianza, è responsabile della gestione amministrativa e contabile dei fondi assegnati; formula piani di addestramento del personale e di nuovi servizi.

L’accesso alla carriera avviene attraverso concorsi, requisiti la laurea e la conoscenza di una lingua straniera. Fino alla fine degli anni Ottanta dopo i concorsi (che erano per vicedirettore e poi per anzianità si passava a direttore) c’erano corsi di formazione comuni ad altri funzionari della pubblica amministrazione, generici per un target che richiede invece una propria identità professionale.

Oggi dopo i concorsi, che prevedono prove scritte (diritto amministrativo e di ordinamento penitenziario), e orali (ordinamento penitenziario, diritto e procedura penale, diritto civile, costituzionale, amministrativo, criminologia, contabilità di Stato, statistica), ci sono specifici corsi di formazione di base di 6 mesi, parte nelle Scuole del DAP, parte on the job, nei quali, oltre alle materie giuridiche, alla legislazione amministrativa e costituzionale, nonché ad approfondimenti sull’ordinamento penitenziario e sull’organizzazione degli istituti, si aggiungono le tematiche della comunicazione, la psicologia relazionale, le relazioni sindacali. Nel 2001 i corsi di riqualificazione per i direttori si sono svolti insieme al personale di altri settori.

Contestualmente alla riforma del Corpo di Polizia Penitenziaria (legge 395/90) c’era stata, con l’art. 40 della stessa legge, l’equiparazione del trattamento giuridico ed economico del direttore penitenziario con quello di commissari e dirigenti della polizia di Stato; la norma veniva però da molti percepita come processo di involuzione culturale della funzione di direttore, che in questo quadro si sentiva schiacciato in un ruolo per certi versi angusto, limitato più che altro al controllo della sicurezza. Nella finanziaria del 1997 c’è così stata una nuova modifica al suo status giuridico, nella previsione di riportarlo nell’ambito del Comparto ministeri, come infatti è avvenuto con l’ultimo contratto pubblico (1998-2001): insieme all’art. 12 della legge 266 del 1999, che ha riconosciuto sedi dirigenziali gli istituti penitenziari di maggior rilievo, il progetto tende a realizzare, con il dirigente, una figura di coordinamento rispetto alle funzioni dei vari settori e delle aree e soprattutto all’applicazione degli ordinamenti. Alcuni direttori penitenziari desidererebbero tornare al trattamento che vigeva in precedenza, quello dell’art. 40, per cui l’accesso avveniva per anzianità e grazie al quale erano equiparati ai commissari di polizia. La scelta è se diventare dirigenti con una qualificazione da manager, come si tende ormai per gli alti funzionari dello Stato, o poliziotti seppur di alto profilo.

 

9.3.4. Gli assistenti sociali

 

È una figura istituita nel 1975, con la legge 354, e lavora su base territoriale, non secondo la dislocazione degli istituti di pena. A loro viene affidata l’osservazione all’esterno del percorso trattamentale di detenuti, affidati e semiliberi, in un ruolo delicato, nel quale va contemperata la dimensione sociale del sostegno e della ricerca di soluzioni per il reinserimento di persone in difficoltà, con le esigenze dell’indagine e del controllo.

Con il diploma universitario di assistente sociale - prima era un diploma di scuola superiore - e con l’iscrizione all’albo, si è ammessi al concorso per l’accesso alla carriera, strutturato in due prove scritte (l’ordinamento penitenziario e il servizio sociale) e una orale (regolamento penitenziario, elementi di diritto penale, civile, una lingua straniera). Le stesse materie, più le metodologie specifiche (metodi e tecniche di organizzazione dei servizi sociali, i servizi territoriali), sono riprese nei corsi di base.

Per direttori coordinatori di servizio sociale il concorso (due scritti, un orale, con approfondimento delle stesse materie più diritto amministrativo), oltre al diploma universitario prevede una laurea in discipline sociali. Anche per questo personale i passaggi di livello avvengono ormai attraverso i corsi di riqualificazione.

Fino al 1996 erano 700 assistenti sociali e qualche direttore. Con la legge cosiddetta Simeone/Saraceni dell’estate del 1998 l’organico, in 5 anni, è arrivato a 1.416 tra assistenti sociali, operatori e un direttore per ognuno dei 58 centri territoriali, ai quali sono state aggiunte 46 sedi provinciali.

 

9.3.5. Il personale sanitario

 

Il personale sanitario in carcere è costituito in gran parte, eccetto pochissimi medici e infermieri, da liberi professionisti, che non sono dipendenti fissi dall’Amministrazione Penitenziaria, né sono sottoposti a controlli specifici o ad alcuna formazione obbligatoria. I medici incaricati generalmente hanno contratti di circa 15-18 ore di lavoro settimanali. La sorte del personale è per molto legata alle sorti della riforma della sanità e al passaggio della medicina penitenziaria al Sistema sanitario nazionale.

La legge 740/70 definisce alcuni medici incaricati e, qualora ve ne fosse più di uno per istituto, esclusi quelli di guardia e gli specialisti, prevede che essi vadano denominati come medici incaricati coordinatori o dirigenti sanitari. La differenza tra dirigenti e direttori non è cosa da poco, perché in questi ultimi tempi la qualifica di direttore sanitario, nelle ASL, ha ampi riflessi sugli stipendi.

Si tratta di percorsi di formazione non obbligatori, non compresi cioè nei contratti di settore, e generalmente finanziati con fondi esterni all’Amministrazione, i Fondi Sociali Europei (Polaris, Pass, Innova, Europass, Wolf; il ciclo di celebrazioni per il 50° anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo), o con i fondi per il trattamento delle tossicodipendenze, da diversi anni stanziati dal Dipartimento Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei ministri (Altox, Archimede, EDU, Pandora).

Sono progetti generalmente di buon livello, con il pregio di coinvolgere contestualmente più figure professionali, anche se hanno il limite che generalmente la realizzazione rimane esterna al progetto - non può neanche essere valutata e i finanziamenti non ne accompagnano quindi la fase d’implementazione - per cui l’esperienza rimane disarticolata e priva di una sintesi utile alla ricaduta sul campo. È in qualche modo il caso del Polaris, finanziato con il Fondo Sociale Europeo, svoltosi negli ultimi anni con il proposito di avviare 850 operatori di vari settori, interni ed esterni all’amministrazione, alla sperimentazione di servizi di orientamento e ricerca di opportunità lavorative stabili per gli ex detenuti. Delle azioni di sostegno previste, la prima fase ha coinvolto alcuni operatori - 500 interni più il personale delle amministrazioni non penitenziarie e del privato sociale con il quale si sarebbe poi dovuto interagire - selezionati per acquisire strumenti di gestione integrata dei servizi di orientamento front-line e career counselling. È stato un progetto che non ha avuto sviluppi successivi per mancanza di rifinanziamento.

Per il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, l’Amministrazione penitenziaria ha organizzato tra il 1998 e il 2001 un ciclo di incontri. Oltre ad alcune occasioni ufficiali, peraltro di buon livello, in coordinamento con i Provveditorati regionali si sono tenuti in 17 sedi decentrate sul territorio nazionale corsi composti da tre seminari centrali ed altri decentrati, di 36 ore ciascuno; sono stati selezionati circa 25 operatori per sede che con esperti, anche di Antigone e Amnesty International, hanno discusso di temi riguardanti i diritti umani (la necessità di umanizzazione delle politiche che incidono su diritti e bisogni delle persone, la distinzione tra diritti negativi e positivi, la normativa europea), il valore della mediazione culturale per gli stranieri, il ruolo del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura.

Nel 1996 il progetto Europass Giustizia, realizzato con il consorzio Civita per circa 100 funzionari, si era occupato delle strategie per accedere ai fondi comunitari, per una "cultura del risultato". Nel 2001 il progetto Innova, per circa 140 funzionari, è stato dedicato alla riprogettazione e al decentramento dei processi nell’Amministrazione e a dicembre 2001 un convegno ha concluso il ciclo di formazione riguardante i progetti Pass: riservato ai funzionari dell’area C, cofinanziato con il Fondo Sociale Europeo e gestito con l’agenzia privata RSO, è stato concentrato sulle metodologie di acquisizione di abilità manageriali per la gestione del personale e delle risorse, il problem solving e l’organizzazione per progetti.

For wolf viene da un intervento previsto per i detenuti con reati di abuso sessuale sui minori (Wolf) , cui si è aggiunta una sezione per gli operatori, per affrontare il burn-out, la reazione di ostilità che potrebbe appunto bruciare la relazione del trattamento rispetto a uno dei reati sentito tra i più odiosi.

Una delle risorse principali per la formazione sono i fondi del Dipartimento Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei ministri, finalizzati al sostegno alla lotta contro le tossicodipendenze, ma in un’accezione estensiva, utilizzati anche per altre necessità.

Un’esperienza interessante è stata quella del progetto Altox, svoltosi tra il 2000 e il 2001 presso le scuole di Roma-via di Brava e Parma, e concepito come corso di autoformazione per gli ispettori di polizia penitenziaria: attraverso varie tecniche, perlopiù di simulazione di eventi critici, il personale, raggruppato in squadre con ruoli diversi, ha potuto riflettere con esperti su alcune problematiche - tossicodipendenze, alcoldipendenze, custodia attenuata -, esaminando le possibilità concrete di applicabilità delle regole, senza venir meno al rispetto della legalità e dei diritti. L’esperienza è positiva anche perché il personale impegnato è stato poi chiamato a svolgere il ruolo di trainer nella fase on the job dei corsi per agenti in prova, per vicesovrintendenti e viceispettori.

Ci sono poi il progetto Archimede (formazione dei formatori), l’EDU (informatizzazione delle aree trattamentali) e Pandora, che, con la consulenza scientifica dell’Università di Firenze ha proposto a 1.339 operatori un questionario per individuare i bisogni formativi del personale delle equipe trattamentali e proporre nella loro organizzazione il valore della supervisione .

 

9.5 Le esigenze e le prospettive

 

Come si può quindi constatare, l’Amministrazione penitenziaria mette in atto anche ottime iniziative, e in generale il livello medio degli interventi di formazione appare più qualificato che nel passato. Il riordino delle carriere ha del resto comportato la necessità di un’azione formativa straordinaria, che quindi non è previsto si ripeta, mentre appare opportuno sia messa invece a regime strutturalmente.

Resta il problema della sua ricaduta all’interno degli istituti, dove permangono meccanismi farraginosi e preclusivi della fruizione di diritti fondamentali per i detenuti, da quelli che riguardano i controlli sanitari ai rapporti con l’esterno - colloqui, visite, telefonate e quant’altro -, i cui passaggi burocratici sono gestiti in modo non univoco, e sui quali non sembra essere passata alcuna forma di razionalizzazione.

Una volta usciti dalla formazione, gli operatori si trovano in un ambiente di lavoro più limitato logisticamente, spesso tetragono al rinnovamento e alla collaborazione, i cui parametri di funzionamento non corrispondono a quanto hanno imparato. Ad iniziare dai metodi per affrontare le tipologie di detenuti, per gran parte gestiti - contrariamente a quanto si impara nei corsi - in modo indifferenziato, tossicodipendenti, omosessuali, transessuali, giudicabili, giudicati in primo, definitivi. E a partecipare ai progetti è generalmente l’operatore che ha già per suo conto maggiore disponibilità a riqualificarsi, mentre fuori dall’intervento rimangono perlopiù gli stessi, i più demotivati, o chi ha più impegni familiari.

Si è del resto attraversata una fase nella quale, mentre sull’onda di spinte diverse e di diverse necessità si procedeva al riassetto delle carriere, il personale finiva per essere inserito in livelli per i quali spesso non era pronto: attraverso riordini vari si dovevano andare rapidamente a riempire fasce previste per un quadro di funzionamento non ancora organizzato sistematicamente e per il quale sarebbe stato necessario un intervento di riqualificazione, certo più robusto di quello che si è realizzato, eventualmente strutturato con interventi modulari, articolati e dosati secondo un bilancio delle competenze individualizzato.

È inoltre necessario che i progetti - e il loro finanziamento - comprendano la fase di implementazione negli istituti, tenendo conto che la loro efficacia è condizionata anche dalla mancanza di un sistema di monito raggio efficace, di una sistematica valutazione dei risultati, che li commisuri agli intenti delle iniziative intraprese, onde eventualmente correggerne il tiro in fase di realizzazione.

In una circolare del luglio 2000 dell’Ufficio della Formazione e Aggiornamento del Dipartimento, sono espliciti i toni autocritici rispetto alla mancata realizzazione degli intendimenti della legge 395, per «. . .rivedere le modalità operative che fino ad oggi hanno caratterizzato l’attività delle Scuole… A lO anni di distanza dalla riforma che ha sancito la smilitarizzazione del Corpo (legge 395/90) è ancora preminente nella vita delle Scuole una impostazione di tipo militare, cioè attenta più al rigore e al rispetto delle regole formali che alla partecipazione e condivisione sostanziale degli obiettivi che una struttura formativa deve perseguire».

La mancata interazione tra gli operatori del mondo penitenziario, di ambiti e ruoli professionali diversi, gli addetti alla sorveglianza da un lato e dall’altro le figure che si occupano in modo più specifico del trattamento, educatori, assistenti sociali, psicologi, sembra del resto acuirsi. E, per come funziona la vita negli istituti, si vanno a configurare due differenti modelli di relazione con i detenuti. Non essendoci tra le diverse figure professionali una cultura specialistica comune cui fare riferimento, ognuno finisce per guardare a modelli esterni, affini ai propri ma di maggior prestigio sociale, quelli cui si attribuisce maggior autorevolezza ed efficacia, ad esempio i corpi speciali del penitenziario a quelli analoghi delle superpolizie - i GOM ai NOCS -, - gli educatori e gli psicologi a professionisti dell’ambito delle scienze umane, impegnati in attività meno burocratizzate e più gratificanti.

E il senso di frustrazione per la mancanza di incisività del proprio operare può indurre proprio gli addetti al trattamento, gli educatori in special modo, a perdere fiducia nella possibilità di riabilitazione del detenuto - e quindi nel proprio lavoro - e di conseguenza ad accentuare un approccio di tipo regolativo e burocratico. Del resto, nell’indeterminatezza in cui viene lasciato il loro profilo professionale, essi rischiano di assumere un ruolo sempre più generico e di fatto intercambiabile. Ai guasti che il carcere contiene e produce, la risposta si avvia a diventare di carattere squisitamente tecnico, con interventi di psicologi e criminologi, chiamati come specialisti per affrontare in chiave clinica gli aspetti patologici.

Mentre nel determinare l’organizzazione generale, molti dei riferimenti sembrano rimandare agli schemi della polizia penitenziaria. E si tratta di una polizia pre-riformata, non coinvolta nel ruolo trattamentale che la legge 395 le ha conferito. Il parziale fallimento di questo obiettivo attiene a diverse cause e in parte è dall’interno che sono venuti i maggiori ostacoli: l’emergenza carcere, mai affrontata organicamente, rendeva l’organizzazione tradizionale funzionale al sistema stesso. E, quanto agli indirizzi della formazione - si evince dall’esame dei corsi - non ci sono finora stati interventi significativi tali da rendere appetibili altre dimensioni di lavoro. Il che ha finito per connotare una precisa scelta, anche di tipo culturale. Tra il 1990 e il 1996 c’è stata un’assenza di orientamenti specifici; quanto agli anni di governo del centrosinistra, nella preoccupazione di rassicurare una categoria già fortemente orientata, essi hanno consentito l’accentuarsi di forme di sindacalizzazione corporativa che ha assunto potere contrattuale sempre più autonomo rispetto al personale stesso e non ha sostenuto la necessità di un sistema di formazione adeguato. Si è così dato seguito a interventi privi di un disegno organico.

Ne c’è stato negli ultimi anni un salto di qualità tale da fornire alla polizia penitenziaria una cultura di riferimento coerente con la specificità delle sue mansioni e insieme adeguata a fornire parametri qualificanti, da utilizzare concretamente all’interno dei nuovi compiti di osservazione e trattamento dei detenuti. Mentre, che ci possa essere uno sconfinamento in atteggiamenti autoritari, anche violenti, in un ambiente tuttora sottratto al controllo esterno della società civile e in un rapporto ovviamente dispari con il detenuto, costituisce un problema tuttora aperto.

Durante i fatti di Genova dell’estate 2001, una commissaria di polizia (non penitenziaria, in questo caso) in un’intervista ad un quotidiano "riferiva della necessità di impartire ai sottoposti una linea precisa, che non potesse ingenerare equivoci: «...posso anche capire che durante il fermo di uno spacciatore, nel parapiglia, a un agente scappi uno schiaffone. Ma i miei agenti sanno che se durante una perquisizione si permettono di alzare un solo dito io li denuncio. lo vorrei una polizia vicina alla gente, colta, addestrata, capace di capire ed eseguire un ordine e commisurando le reazioni. Per questo servono modalità, schemi, comandi precisi. È importante che un poliziotto sappia usare correttamente un manganello. . . il manganello va usato, correttamente, solo dopo averle provate tutte, solo come extrema ratio. . . Il governo di centrosinistra ha usato abbondantemente le forze di polizia, ma ha fatto ben poco per formarle».

Nel novembre 2001, il senatore Occhetto con altri senatori del gruppo misto, dell’Ulivo e di Rifondazione comunista, ha presentato una proposta di legge, il d.d.l. 882, recante "Norme di principio e di indirizzo per l’istruzione, la formazione e l’aggiornamento delle forze di polizia" - che riguarda la formazione delle forze dell’ordine alla conoscenza e all’uso dei valori, delle tecniche e delle strategie della nonviolenza, per la promozione e la difesa della sicurezza pubblica e della dignità umana: una dimensione indispensabile per un riequilibrio nei contenuti della formazione, in una fase storica con conflitti drammatici, nella quale è necessario riqualificare il senso di una cultura e di una pratica della legalità che possa far coincidere la sicurezza pubblica con la promozione dei diritti di tutti.

Le difficoltà non sono quindi solo di ordine organizzativo, le differenze di mentalità e il peso simbolico che il carcere mantiene, anche per gli operatori, impediscono un approccio omogeneo negli interventi negli istituti, dove si giocano una rete di relazioni che non impegnano solo il destino di chi è detenuto, ma anche gli equilibri, non solo professionali, del personale. L’adeguatezza dei supporti formativi si misura quindi sulla possibilità di dare una maggior scientificità ai parametri con i quali si interviene e quindi a predisporre riferimenti comuni, condivisi tra le varie categorie di operatori, e a misurarli sugli interessi complessivi dei destinatari cui ogni intervento alla fine va rivolto, i detenuti.

 

Con sempre maggior frequenza la Pubblica Amministrazione ha dovuto occuparsi della realizzazione di programmi e di politiche sociali e quindi, riprendendo la nota teorizzazione marshalliana, più che garantire formalmente diritti politici e civili ad individui concepiti come autonomi "attori sociali", ha attribuito diritti sociali a "consumatori" percepiti come carenti di risorse. In tale prospettiva, diventa fondamentale non tanto il rispetto e la correttezza formale delle procedure amministrative quanto la loro efficacia e la loro reale capacità di raggiungere effettivamente gli obiettivi che il legislatore si è proposto. Di qui il diffondersi, lento e sempre contrastato, di un orientamento di servizio anche nella P.A., intendendo con questa espressione una maggior attenzione ai risultati effettivi della propria attività e una maggior capacità di innovazione e adattamento ai casi concreti, a detrimento degli aspetti" garantistici " dell’azione amministrativa.

 

E nella sovraesposizione di ogni accadimento negativo che abbia come sfondo il carcere, le responsabilità finiscono spesso per essere genericamente attribuite alle riforme che, dalla Gozzini in poi, vengono puntualmente quanto strumentalmente accusate di aver intaccato i margini della sicurezza; è così che la domanda di maggiore penalità che sembra provenire dall’opinione pubblica finisce con l’ostacolare un percorso di alleggerimento del penale, sia in senso quantitativo che qualitativo, e una possibile alternativa alla carcerazione. È quindi sempre più difficile che un funzionario, specie se responsabile di una struttura periferica, si esponga con iniziative che possano metterlo a rischio professionalmente, se non può contare su un quadro politico di riferimento che sostenga una nuova stagione di innovazioni nel trattamento penitenziario. Che su questo versante non sembra del resto prossima. Sono state infatti eluse diverse occasioni per valorizzare gli operatori del trattamento, ma in questa fase manca il senso di un interesse strategico-politico per uno dei settori fondamentali del disagio sociale.

E se è passato in modo neutro il fatto che le scelte adottate per salvaguardare la "sicurezza", concetto peraltro sempre genericamente inteso, e la protezione della comunità, avrebbero inevitabilmente comportato l’indebolimento di alcune garanzie evidentemente considerate non primarie, in ambito penitenziario ciò ha fornito gli alibi per eludere il problema della tutela dei diritti umani dei detenuti, in modo tale da sminuire gli effetti positivi che sarebbero potuti discendere da un’oculata applicazione del nuovo regolamento.

 

Questi meccanismi discriminatori nell’amministrazione dei diritti fondamentali a vantaggio dei cittadini "rispettabili" e garantiti e ai costi degli esclusi (emigranti di colore, senza lavoro, senza casa, tossicodipendenti, giovani marginalizzati, ecc.) condizionano una riduzione della sicurezza giuridica che, allo stesso tempo, alimenta il sentimento di insicurezza nell’opinione pubblica e trae alimento da esso. Il risultato è una forma di stilizzazione selettiva delle aree di rischio di violazione dei diritti, nella quale la parte non sta per il tutto, ma al contrario è, sta invece del, oppure, addirittura, contro il tutto (ove "tutto" significa tutti i diritti fondamentali e tutti i loro soggetti).

 

È d’altro canto tempo anche per valutare quali siano gli aspetti inefficaci di innovazioni, in parte introdotte, in parte solo annunziate, per selezionare cosa sia possibile concretamente realizzare delle riforme previste e quanto, bloccato dalla prudenza delle politiche della "sicurezza", da difficoltà di bilancio generale mai prodigo verso le necessità del carcere, o solo da problemi logistici, insomma da verificate condizioni di inapplicabilità, vada invece rilanciato in altra forma e attraverso altri percorsi.

E se è ormai evidente come siano da rivedere, mutuandole anche da altri settori, le strategie per razionalizzare il funzionamento del mondo penitenziario e le emergenze che ciclicamente vi si riproducono, vi si potrà dare corso solo guardando ai mutamenti nella composizione dei detenuti e delle detenute che sono oggi in carcere: una comunità che rappresenta quanto rimane ai margini di società complesse, profondamente compromesse con i fenomeni della globalizzazione, come ci dicono le analisi di flusso delle carceri italiane, che ci riportano dati sufficientemente stabili da potersi considerare fisiologici, circa 30 % di detenuti stranieri di provenienza dai paesi del Sud del mondo, 30 % i tossicodipendenti, in parte spacciatori, la maggior parte consumatori-spacciatori: un dato su cui intervenire con strumenti che vadano oltre le pur sofisticate norme di sicurezza e con strategie adeguate ad affrontare le problematiche della complessità.

 

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