Newsletter n° 30 di Antigone

 

Newsletter numero 30 dell'Associazione "Antigone"

a cura di Nunzia Bossa e Patrizio Gonnella

 

Editoriale: Un voto per i diritti, le garanzie e le libertà, di Patrizio Gonnella

Carcere in mostra, di Patrizio Gonnella

L’Osservatorio regionale della Campania, di Dario Stefano Dell’Aquila

Le iniziative di Antigone, a cura della Redazione

L’Editoriale: Un voto per i diritti, le garanzie e le libertà, di Patrizio Gonnella

 

Le destre al governo hanno degradato la giustizia a strumento iniquo di classe. Nel nome della sicurezza hanno dato una sferzata repressiva al sistema. Nel nome del garantismo hanno curato i propri interessi. Diritti, garanzie, libertà devono tornare a essere le parole chiave della sinistra al governo. Un’agenda politica per la giustizia penale noi ce l’abbiamo: amnistia e indulto, riforma del codice penale con riduzione delle pene e riduzione dei reati, abolizione dell’ergastolo, depenalizzazione del consumo delle droghe leggere e pesanti, abrogazione delle leggi Fini-Giovanardi, Cirielli e Bossi-Fini (Fini c’è sempre più o meno di mezzo quando si tratta di restringere gli spazi di libertà), istituzione del difensore civico delle persone limitate o private della libertà, introduzione del reato di tortura, nuovo ordinamento penitenziario minorile, maggiore spazio normativo alla mediazione penale, istituzione del difensore pubblico, diritto di voto per i detenuti. Una nuova giustizia penale per un paese più libero, più solidale, più giusto, più mite.

 

Carcere in mostra, di Patrizio Gonnella

 

Non capita spesso che il carcere sia al centro di un importante evento culturale. Alla Triennale di Milano dal 23 febbraio al 19 marzo si è tenuta una mostra intitolata "La rappresentazione della pena Carcere invisibile e corpi segregati". Un allestimento scenico che descrive la vita dentro le celle, mostra i letti a castello, le foto di donne e di calciatori alle pareti, i bagni alla turca, le luci soffuse. Mancano ovviamente i corpi, i volti, gli sguardi. La pena rappresentata può evocare la pena vissuta, ma mai raccontarla fino in fondo. Ad Auschwitz per lungo tempo le comunità ebraiche polacche si sono lamentate della gestione museale del campo di concentramento che non rendeva fino in fondo l’orrore dello sterminio di massa. Eppure è importante che ad Auschwitz e a Birkenau chiunque possa entrare, guardare i forni crematori, le scarpe dei bambini ammassate l’una sull’altra, leggere le tappe dell’olocausto nazione per nazione, popolo per popolo. È vero, mai potrà sino in fondo essere percepita la tragedia. Ci si può commuovere o indignare, sorprendere o intristire, ma è difficile che ci si potrà immedesimare in chi ha trascorso anni della propria esistenza umiliato, ridotto a cosa, disumanizzato in attesa di essere ammazzato in modo brutale.

Ugualmente è difficile che una rappresentazione scenica riesca nell’intento di immedesimare perfettamente lo spettatore con il detenuto. Ciò non significa che quella rappresentazione non sia importante, soprattutto se accompagnata da immagini, parole, dibattiti, documenti. Avrà, come la Triennale ha avuto, il merito di sensibilizzare, di coscientizzare, di informare, di creare una cultura diffusa capace di rendere meno minoritario un movimento di opinione attento ai diritti e alle libertà fondamentali. Non potrà, però, produrre l’effetto dell’immedesimazione.

La vita del detenuto è scandita da tempi e regole diverse da quelle che valgono per il cittadino libero. Va ridisegnato il confine spaziale dei propri movimenti. Si pensa in modo diverso rispetto a quello che si sarebbe pensato fuori, all’aria aperta. Si costruiscono relazioni che altrimenti non ci si sarebbe mai immaginato di mettere in piedi. Nascono amicizie impossibili, cambiano le abitudini alimentari e sessuali. Ci si assuefa ad odori particolari. Si convive con rumori che rimandano a battiture di sbarre, tintinnare di chiavi e manette, urla di dolore, dialetti e lingue delle più varie. Tutto questo è sì rappresentabile ma mai fino in fondo, mai sino alla autenticità e alla profondità delle sensazioni provate.

Il carcere è una invenzione della modernità che si sostituisce alla punizione corporale, alla sofferenza dei supplizi, alla gogna pubblica. Quale potrà essere la pena nell’era della post-modernità non è facile a dirsi. Se la storia segue una linea retta e progressiva allora dobbiamo immaginarci un mondo che si libera prima della necessità e poi del carcere in carne e ossa restituendo alla comunità la gestione del conflitto criminale, della frattura sociale determinata dal reato commesso. Ciò che è delitto oggi non necessariamente lo è domani. Non osiamo immaginare una punizione che non porti con sé un effetto di neutralizzazione sociale. Se invece la storia dovesse seguire una rotta circolare allora possiamo temere di tornare indietro alle pene corporali, alla tortura legalizzata, alla detenzione non comunicata. Quanto visto ad Abu Ghraib e a Guantanamo, la legittimazione della tortura lieve sono i segnali di un ritorno al passato che sembrava oramai lontano o sono scosse di assestamento che non impediscono la ripresa del percorso lineare e di progresso?

La Mostra milanese si sviluppava in uno spazio espositivo di 800 metri quadrati ripartendosi in cinque aree: "l’entrata dove la nuda vita diventa vita nuda; 14 celle dove si è cercato di rappresentare simbolicamente il fiele della pena e il miele della pena come riscatto; il teatro del carcere di Bollate che è così divenuto luogo di rappresentazione e agorà ove si è discusso di carcere; la rappresentazione che il cinema ha dato della pena; l’uscita caratterizzata dai numeri dell’universo carcerario nazionale e internazionale." Questi i titoli della esposizione che aveva un comitato scientifico di prim’ordine.

Milano ha quattro carceri che rappresentano perfettamente l’universo penitenziario. Al Beccaria sono reclusi i minori. La detenzione per i ragazzi e le ragazze di età inferiore ai diciotto anni dovrebbe essere la extrema ratio. Non lo è per gli stranieri, per le ragazzine rom, per coloro i quali non hanno una rete familiare o sociale di supporto esterno. San Vittore è il carcere nel cuore della città, malmesso, fatiscente, affollato, ma resta forse il carcere meno spersonalizzante. Opera è il carcere della periferia. Bollate quello dell’hinterland. A Monza e Busto Arsizio vanno quelli per cui non c’è posto a San Vittore, Opera e Bollate. Man mano che sono state costruite le nuove galere si sono riempite progressivamente; e come se l’edilizia penitenziaria fosse capace di condizionare i tassi di detenzione e le scelte dei magistrati. "Visto che c’è posto lo mando a svernare in galera." È questo l’inconfessato e forse inconfessabile pensiero di chi opera nella giustizia.

Siamo a pochi giorni dal voto. La giustizia penale – così come la giustizia nel suo complesso – non è stata trattata granché bene dalla destra al governo. Il perenne conflitto di interessi con la giustizia di Berlusconi ha fortemente condizionato le scelte della Casa delle libertà. Autoritarismo, paternalismo, egoismo, interessi personali si sono miscelati pericolosamente. I magistrati sono stati definiti alla stregua di malati psichici. La magistratura nel suo complesso è stata demonizzata. Hanno scioperato tutti, giudici e avvocati. I detenuti hanno raggiunto la quota record di 61 mila unità. Mai dai tempi di Togliatti Guardasigilli si era arrivati a numeri così alti. E le leggi Cirielli sulla recidiva e Fini-Giovanardi sulle droghe non hanno ancora prodotto i loro effetti nefasti. Per chi in questi anni ha seguito le vicende della giustizia è indubbio che non potrà mai andare peggio di così. Da questo però a credere che andrà molto meglio lo scarto è immenso. È necessaria una stagione riformatrice capace di affrancarsi dalle pressioni delle corporazioni e dell’opinione pubblica. L’Italia ha un codice penale del 1930. Va riscritto nella sua parte generale e nella sua parte speciale. Vanno ridotti i reati e rimodulate le pene. La Spagna e il Portogallo hanno abolito l’ergastolo. Noi nel 1998 eravamo lì lì per farlo, poi tutto si è impantanato nelle paure delle forze politiche. Ciò che definiamo criminale e come lo sanzioniamo è il segno più evidente di quale società vogliamo. Una società che ambisca ad essere comunità deve farsi carico di chi viola le regole di convivenza sociale e non può accettare forme di punizioni truci, perché nessuno sarebbe disponibile a sottoscrivere un contratto sociale che metta in discussione la propria vita, la propria integrità personale, la propria dignità. Il codice penale dell’Unione che – speriamo – verrà deve disegnare un’idea di società che affidi a giudici e carcerieri solo i valori costituzionalmente protetti.

 

L’Osservatorio Regionale della Campania, di Dario Stefano Dell’Aquila

 

Premessa

 

Pochi numeri fa, l’Osservatorio della Campania aveva raccontato, su questa stessa rubrica, l’esperienza degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nella regione. Gli ridiamo nuovamente la parola per ricordare Vito De Rosa, che in quegli istituti ha trascorso moltissimi anni della propria vita e che è morto qualche settimana fa, dopo troppi pochi anni di libertà. Vito De Rosa, 79 anni, è morto, lo scorso otto marzo, a Salerno. La sua scomparsa ha meritato solo tre righe di breve, un lancio di agenzia dell’Ansa, peraltro con qualche imprecisione, ha ricordato che Vito è stato "detenuto 50 anni per parricidio, commesso a 17, e graziato da Ciampi nel 2003 su proposta di Castelli". Ma la sua è una storia che forse merita maggiore attenzione.

 

L’ingresso in OPG

 

Vito, nato il 25 giugno del 1927 a Olevano Tusciano, era entrato in carcere il 27 gennaio del 1951, a 24 anni, perché condannato all’ergastolo per l’omicidio del padre. All’origine del delitto una controversa storia di eredità e di possesso di alcuni terreni e, oggi possiamo dirlo,un disturbo mentale ancora in nuce. Dopo la condanna, durante la detenzione in un carcere ordinario, il disagio psichico di Vito si manifesta rapidamente e il ragazzo viene condotto nel novembre del 1952 nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, per "sopravvenuta infermità psichica del condannato".

Gli Opg sono una terra di mezzo, tra il carcere e il manicomio, dove sono internate persone che hanno commesso un reato e che sono incapaci di intendere e di volere. Due dei sei Opg di Italia sono in Campania, uno, appunto, ad Aversa, l’altro, quello di Sant’Eframo, a Napoli, dove Vito approderà, in una data ormai persa nella memoria dei polverosi fascicoli ministeriali. Da questo momento De Rosa, in piena solitudine, non è più una persona, ma un corpo affidato a più poteri, quello medico e quello carcerario, che su di lui sperimenteranno camice di contenzione, elettroshock, psicofarmaci, regolamenti e sanzioni disciplinari, che non porteranno né alla cura né alla libertà.

Il silenzio, anche burocratico, avvolge la sua storia detentiva, che immaginiamo simile a quella di altre migliaia di internati. Nel 1987, dopo 35 anni di ininterrotta detenzione, una richiesta di benefici penitenziari, redatta dalla mano pietosa di qualche educatore, viene respinta perché né la sua famiglia né altre strutture sono disponibili ad accoglierlo. Nel 1995 una richiesta di grazia viene respinta, con analoghe motivazioni. Due anni più tardi il suo caso verrà segnalato nella relazione della Commissione Parlamentare sulle carceri, ma anche qui nessun esito. Nulla sino al 2003, cinquantuno anni dal suo primo ingresso in carcere.

 

L’estate del 2003

 

La grazia a Vito è una strana mescolanza di fortuna e coincidenze. A luglio, infatti, durante una visita in compagnia di Francesco Maranta, consigliere regionale della Campania, componente della commissione sanità, ci siamo imbatte in Vito che si aggirava, a torso nudo, nei corridoi dei reparti. Il corpo minuscolo, la pelle bianchissima, mutandoni di lana e uno sguardo smarrito, De Rosa si aggira borbottando parole confuse. Solo una è intelligibile, "doccia, doccia..", il resto è una litania informe.

Vito vive in una stanza spoglia, due metri per due, una branda, una piccola finestra, qualche panno ammucchiato in un angolo. Sembra un bambino, ma non è in grado nemmeno di riconoscersi allo specchio, ha paura della sua stessa immagine. L’assurdità della sua detenzione si smarrisce nella quotidianità di un’istituzione che sembra abituarsi anche alla più orribile delle vicende.

Terminata la visita insieme a Francesco Maranta (che su questa storia ha scritto un libro pubblicato dalla casa editrice Sensibili alle Foglie n.d.r.) si decide di portare l’attenzione della stampa sul caso De Rosa e di chiedere pubblicamente al presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, la concessione della grazia. È piena estate e ai media, in disperata ricerca di notizie, non sfugge l’occasione di un caso che appare incredibile, quello di un uomo che da oltre 50 anni è rinchiuso in un carcere. Emergono particolari della storia che sembravano dimenticati ed anche nel paese originario di Vito cominciano a ricordarsi di quel ragazzo mai più rivisto dal giorno dell’arresto.

 

La spettacolarizzazione della grazia

 

L’estate, dunque, trascorre con il nome di Vito sulle pagine dei principali quotidiani nazionali e locali e con il fascicolo che arriva sulla scrivania del presidente Ciampi e del ministro della Giustizia Castelli. La situazione appare ad un punto di stallo, quando il 14 ottobre 2003 alle 16.00 giunge la notifica presso l’OPG di Napoli del provvedimento di grazia. La svolta ha anche, o soprattutto, una ragione politica. Il ministro Castelli, pressato sulla vicenda Adriano Sofri, ha dichiarato che lui preferisce occuparsi dei "poveri cristi" e quello di De Rosa è un caso esemplare, in cui l’umana pietà può esercitarsi senza urtare la sensibilità di qualcuno.

La grazia riaccende l’attenzione dei media. Una troupe del Tg5 ottiene di riprendere, non si sa bene con quale autorizzazione Vito all’interno dell’OPG e poi al momento della sua uscita, che avviene il giorno successivo, il 15 ottobre. Fotografi, giornalisti, telecamere attendono Vito, in attesa di una frase, una dichiarazione. Non sanno che 50 anni di detenzione psichiatrica hanno ridotto De Rosa ad un involucro che ha molti bisogni ma pochi desideri.

Quando si accorgeranno che non una parola è ricavabile da quest’uomo impaurito che sale nell’auto degli operatori sanitari, diretto in una comunità di accoglienza di Salerno, i riflettori sulla vicenda si spegneranno, fortunatamente, con rapidità. Sugli altri 1.200 internati degli OPG in Italia, invece, i riflettori non si sono mai accesi. La grazia per Vito De Rosa non si è trasformata in giustizia né per lui, né per altre migliaia di dimenticati che affollano queste improbabili prigioni. In quanto a lui è morto da uomo libero ma, come direbbe Michel Foucault, "completamente libero e completamente escluso dalla libertà".

 

Le Iniziative di Antigone, a cura della Redazione

 

Venerdì 28 aprile 2006 ore 10.00 Convegno di presentazione dei risultati del Progetto europeo "Agis 2004" sulla figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà nei paesi europei

 

Bozza del Programma

 

Introduce:

Patrizio Gonnella, Presidente Associazione Antigone. Presentazione dei risultati del Progetto europeo "Agis 2004" sulla figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà nei paesi europei

 

Ne discutono:

Emilio Di Somma, Vice Direttore generale DAP

Luigi Manconi, Garante dei diritti delle persone private della libertà, Comune di Roma

Giuseppe Falcone, Presidente del Tribunale di Sorveglianza

 

Coordina:

Stefano Anastasia, Direttore Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Roma

 

Sono previsti gli interventi di:

Tilde Minasi, Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Reggio Calabria

Franco Corleone, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Firenze

Gemma Ubasart, Università di Barcellona

 

 

 

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