Newsletter n° 11 di Antigone

 

Newsletter numero 11 dell'Associazione "Antigone"

a cura di Nunzia Bossa e Patrizio Gonnella

 

Legge Bossi-Fini: è già ora di cambiarla

L’Osservatorio Parlamentare a cura di Francesca D’Elia

La recensione di Marco Incagnola

Speciale Tortura: articoli di N. Bossa, P. Gonnella, M. Palma, R. Raffo

Le iniziative di Antigone, a cura della Redazione

Legge Bossi-Fini: è già ora di cambiarla, di Fabio Baglioni

 

Sono trascorsi quasi due anni dall’entrata in vigore della legge 30 luglio 2002, n. 189, meglio nota come legge Bossi Fini, dal nome di due dei leaders politici della coalizione di governo di cui quella legge doveva rappresentare uno dei punti programmatici qualificanti. E’ utile ricordare che la legge n. 189/2002 non ha costituito una vera e propria riforma in senso tecnico, quindi non ha stravolto, ma semplicemente modificato l’ordinamento previgente in materia di immigrazione, costituito dal Testo Unico sull’Immigrazione approvato con il D. Lgs. N. 286/98, che riuniva e coordinava le norme contenute nella legge n. 40/98 (cd Turco Napolitano).

Certo, si è trattato di una modifica sostanziale e di rilievo, giacché la funzione di sicurezza ed ordine pubblico è divenuta "il tema centrale con la legge n. 189/02", come ha sottolineato persino la Corte di Cassazione, III Sez. (Sent. Del 23.1.2003 n. 3162). E’ stato rafforzato l’apparato sanzionatorio e la disciplina delle espulsioni, oltre che introdotto il reato di inosservanza dell’ordine del Questore di allontanarsi dal territorio dello Stato.

Tuttavia quel che è stato conservato, con un peggioramento di cui si dirà oltre, è la preesistente filosofia di fondo della disciplina dell’immigrazione: nessuna libertà d’ingresso degli stranieri, non libertà di movimento e accoglienza, bensì programmazione dei flussi d’ingresso sulla base delle esigenze del mercato interno del lavoro. Ciò che legittima l’ingresso e il soggiorno dello straniero nel nostro paese è il lavoro, anzi, con la L. n. 189/2002, sarebbe meglio dire l’utilità economica dell’apporto dello straniero.

La Bossi Fini ha infatti rafforzato tale scelta di fondo, introducendo il "contratto di soggiorno per lavoro subordinato", cui è condizionato il rilascio del permesso di soggiorno per lavoro, e soprattutto prevedendo una ulteriore condizione preventiva, per cui per il datore di lavoro è possibile rivolgere all’estero la propria domanda di manodopera soltanto quando non vi sia analoga offerta da parte di cittadini italiani o dell’Unione Europea. Insomma l’ingresso regolare del lavoratore straniero è subordinato alla prova della necessità economica del lavoro subordinato extracomunitario.

A due anni dalla nuova legge sull’immigrazione torniamo a porci un inevitabile quesito: è davvero possibile governare il fenomeno sociale dell’immigrazione nel nostro paese con il sistema dei flussi d’ingresso in base a quote stabilite per decreto e, parallelamente, attraverso il tentativo di contrastare poliziescamente clandestinità e ingressi irregolari?

Le ragioni che ci inducono a dubitare dell’efficacia di una tale politica sono diverse: proviamo a percorrerle e poi a proporre una soluzione. La prima è legata alle cause del fenomeno migratorio, che non risiedono tanto, e comunque non solo, nella domanda di lavoro che emerge nel mondo occidentale e che si rivolge agli stranieri, quanto piuttosto nella spaventosa povertà e nella crescita demografica esponenziale, e nei fenomeni delle guerre e delle persecuzioni ancora in atto, che attanagliano le popolazioni di vasta parte del mondo.

V’è da dire che su tali circostanze, causa di migrazione continua anche verso il nostro paese, la maggiore o minore rigidità delle politiche di ingresso e di soggiorno adottate non ha un effetto determinante. In secondo luogo deve considerarsi impraticabile il sistema della chiamata numerica del lavoratore straniero, scelto nelle liste, almeno per alcuni tipi di rapporto di lavoro (domestico, badante, piccole imprese) che costituiscono peraltro gran parte del campo di occupazione degli stranieri in Italia, rapporti in cui il rapporto di fiducia e la conoscenza diretta appaiono determinanti per la scelta.

Il datore di lavoro italiano è disincentivato a chiamare al lavoro una persona mai conosciuta né vista. Il terzo motivo è legato all’atteggiamento psicologico mostrato dal legislatore della L. n. 189/2002, che, nel sottolineare (nel disegno di legge) il "pericolo di una vera invasione dell’Europa da parte di popoli che sono alla fame, in preda ad una inarrestabile disoccupazione" appare terrorizzato da un’imminente invasione, che poi non c’è stata, e mostra di avere una rappresentazione parziale e imprecisa del fenomeno migratorio. Una delle conseguenze di una tale fobia da invasione alle porte è l’emanazione, da parte del capo dell’esecutivo, di decreti flussi, autorizzativi di nuovi ingressi, sempre e comunque insufficienti sia rispetto alla domanda di lavoro interna, sia rispetto all’offerta di lavoro proveniente dalla manodopera straniera. Un’ultima ragione per cui può risultare fallimentare porre uno stretto e diretto collegamento tra l’ingresso e la permanenza dello straniero extracomunitario e l’utilità economica del suo apporto lavorativo, sta nella difficoltà oggettiva di espellere dal territorio italiano coloro che, dopo aver lavorato e regolarmente soggiornato, abbiano successivamente perso il lavoro e dunque, con esso, il titolo che legittimi la loro permanenza in Italia. Non è facile "rispedire" a casa persone che, sia pure prive di opportunità lavorative, abbiano tuttavia nel nostro paese stretto legami affettivi, mandato a scuola i figli, iniziato percorsi di integrazione sociale e culturale.

Insomma, il limite culturale e ideologico della nostra legislazione in materia di immigrazione, peggiorata in tal senso dalla modifica introdotta dalla legge Bossi Fini, è quello di basarsi sulla considerazione che ad emigrare non siano gli uomini, ma la forza lavoro. Alla luce di tali argomenti - e anche considerando che non si può certo pensare di riuscire a contrastare gli ingressi irregolari stando di guardia alle frontiere, soprattutto in un paese vulnerabile come il nostro, immerso nel mediterraneo e caratterizzato da una costa lunga centinaia e centinaia di chilometri - non resta che modificare l’impianto della normativa sull’immigrazione, favorendo ingressi che siano svincolati da una chiamata numerica preventiva di lavoratori stranieri residenti all’estero e non conosciuti. Forse occorre tornare a qualcosa che somigli all’istituto della sponsorizzazione, la garanzia dell’accesso al lavoro prevista dal previdente articolo 23 del Testo Unico sull’Immigrazione e, se necessario, ampliarne la portata, e comunque sarà indispensabile favorire forme di ingresso nel nostro paese anche a stranieri che non abbiano ancora una vera e propria opportunità di lavoro. Già il CNEL, nel criticare il disegno di legge della Bossi Fini, indicava una tale prospettiva come una soluzione che avrebbe consentito o quanto meno facilitato l’incontro tra la domanda interna (soprattutto quella relativa al lavoro domestico e alle imprese di modeste dimensioni), e l’offerta di lavoro degli stranieri extracomunitari. In conclusione, privilegiare il principio della libertà d’ingresso, consentendo allo straniero di godere di un periodo di permanenza regolare durante il quale tenti di ottenere un’occupazione lavorativa, piuttosto che il principio della determinazione per decreto, di risicate quote d’ingresso, limitate solo ad alcuni paesi, è l’unico strumento che la stessa politica comunitaria dovrebbe adottare al fine di evitare che il governo del fenomeno migratorio sia regolato dalle navi vedetta a sorveglianza delle nostre coste, che cercano di tamponare lo sbarco di clandestini, e dall’approvazione, ogni quattro anni, di provvedimenti di sanatoria che regolarizzino situazioni di fatto di lavoro nero e di soggiorno irregolare. I due decreti del Presidente del Consiglio sui flussi di ingresso, pubblicati sulla G.U. il 23 gennaio di quest’anno, consentono l’ingresso di 79.500 lavoratori stranieri, in maggioranza (50.000) stagionali e in gran parte provenienti da paesi che hanno fatto recente ingresso nell’Unione Europea o che sono candidati all’adesione. La sanatoria (regolarizzazione, emersione) stabilita dall’art. 33 L. n. 189/2002 (per lavoro domestico e badanti) e dal D.L. n. 195/2002 (per i lavoratori subordinati) ha visto presentare oltre 705.000 domande, e rilasciare quasi 635.000 permessi di soggiorno a seguito di altrettante regolarizzazioni di rapporti di lavoro nero. Occorre avere il coraggio di invertire questi numeri, moltiplicare gli ingressi regolari attraverso una maggiore apertura – anche mentale – così da ridurre al minimo la necessità di ricorrere a provvedimenti di sanatoria. Ma per far ciò occorrono una nuova politica dell’immigrazione, una nuova mentalità del legislatore, una nuova legge.

 

Osservatorio Parlamentare, a cura di Francesca D’Elia

 

Le modifiche in materia di sospensione condizionale della pena e riabilitazione del condannato (L. 145/04) In data 26 maggio 2004, il Senato ha approvato definitivamente il provvedimento che modifica la disciplina normativa in tema di sospensione condizionale della pena e di riabilitazione del condannato. In particolare, la sospensione condizionale potrà essere pronunciata dal giudice in caso di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva non superiore a due anni anche quando la pena nel complesso sia superiore a due anni. Si stabilisce, quindi, che la stessa possa agire anche in caso di condanna a pena pecuniaria e detentiva che congiuntamente comportino una carcerazione superiore a due anni. Se il reato è stato commesso da un minore degli anni diciotto, la sospensione potrà inoltre essere concessa anche se la pena nel complesso sia superiore a tre anni, mentre scende a due anni e sei mesi se il reato è stato commesso da persona di età superiore agli anni diciotto, ma inferiore agli anni ventuno o da chi ha compiuto gli anni settanta. In caso di condanna lieve (pena detentiva non superiore ad un anno), e in caso di danno riparato interamente, il giudice può disporre la sospensione della pena per un anno.

E’ stato novellato anche l’istituto della riabilitazione del condannato, per il quale i tempi si restringono: la nuova normativa stabilisce, infatti, che può essere concessa la riabilitazione trascorsi almeno tre anni dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o estinta, mentre il termine passa da dieci a otto per i recidivi. Per questi, però, aumenta il numero degli anni nei quali essi non devono tornare a delinquere, pena la revoca della riabilitazione: non più cinque, ma sette anni. Inoltre, sono stati inseriti due ulteriori commi che introducono una disciplina speciale per la riabilitazione dei condannati che hanno usufruito della sospensione condizionale della pena, con la previsione che, al termine di tre anni di sospensione della pena, venga concessa la riabilitazione. Il provvedimento è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 136 del 12.6.2004. Le nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti (L. 95/04) La Legge 95 dell’8 aprile 2004 ha modificato la disciplina in materia di limitazioni e controlli della corrispondenza. La legge è intervenuta in primis per colmare una lacuna legislativa, da un lato prevedendo i casi che giustificano una restrizione della libertà di corrispondenza dei detenuti e internati, e dall’altro fissando dei precisi limiti temporali (in mancanza di una regolamentazione specifica nella precedente disciplina dell’O.P.).

In particolare, il primo comma dell’art. 18-ter dispone ora che "per esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto, possono essere disposti, nei confronti dei singoli detenuti o internati, per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile per periodi non superiori a tre mesi: a) limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa; b) la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo; c) il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima. Si è voluto dare, dunque, piena attuazione al principio costituzionale sancito dall’art. 15 della Costituzione, in base al quale "la libertà e la segretezza della corrispondenza sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge". Infatti, il terzo comma dell’articolo introdotto, dispone che i provvedimenti adottati in base al primo comma, assumano la forma del decreto motivato e siano adottati "su richiesta del pubblico ministero o su proposta del direttore dell’istituto: a) nei confronti dei condannati e degli internati, nonché nei confronti degli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, dal magistrato di sorveglianza; b) nei confronti degli imputati, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dal giudice indicato nell’articolo 279 del codice di procedura penale; se procede un giudice collegiale, il provvedimento è adottato dal presidente del Tribunale o della Corte d’Assise".

L’autorità amministrativa dovrà inoltre operare un controllo ispettivo della corrispondenza (analogo a quello previsto sulle persone che accedono all’istituto per i colloqui, o sui pacchi provenienti dall’esterno in busta chiusa), sia all’arrivo che in partenza, con l’ unico fine di rilevare l’eventuale presenza di valori o altri oggetti non consentiti. A tal fine, si prevede che la competente autorità giudiziaria "nel disporre la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo, se non ritiene di provvedere direttamente, può delegare il controllo della corrispondenza al direttore o ad un appartenente all’amministrazione penitenziaria designato dallo stesso". Solo quando la competente autorità giudiziaria "ritenga che la corrispondenza o la stampa non debba essere consegnata o inoltrata al destinatario, dispone che la stessa sia trattenuta", ma che il detenuto e l’internato "vengano immediatamente informati" (art. 18-ter comma 5), come pure che l’apertura delle buste, per il controllo del suo contenuto, avvenga alla presenza del detenuto o dell’internato (art.18-ter comma 6). La novità più importante introdotta dalla legge 95/2004 è la previsione della possibilità di esperire l’impugnazione contro i provvedimenti di cui al primo comma. Nella disciplina precedente non era assolutamente ammesso alcun mezzo di impugnazione nei confronti dei provvedimenti con i quali il Magistrato di Sorveglianza disponeva la sottoposizione al visto di controllo della corrispondenza dei singoli detenuti o internati (impostazione che era estesa anche ai provvedimenti riguardanti i colloqui, anch’essi inoppugnabili).

La legge n. 95 del 2004 ha definitivamente eliminato il difetto di impugnabilità in materia, stabilendo -nel "nuovo" art.18-ter comma 6- che "contro i provvedimenti previsti dal comma 1 e dal comma 5 può essere proposto reclamo,secondo la procedura prevista dall’articolo 14-ter (in tema di sorveglianza particolare), al Tribunale di Sorveglianza, se il provvedimento è emesso dal Magistrato di Sorveglianza, ovvero, negli altri casi, al Tribunale nel cui circondario ha sede il Giudice che ha emesso il provvedimento. Del Collegio non può fare parte il Giudice che ha emesso il provvedimento". Non solo.

Nel "Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà", approvato con D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, nell’art. 38 già si prevedeva che "non può essere sottoposta a visto di controllo la corrispondenza epistolare dei detenuti e degli internati indirizzata ad organismi amministrativi o giudiziari, preposti alla tutela dei diritti dell’uomo, di cui l’Italia fa parte". La Legge 95/2004 ha espressamente inserito nell’art. 18-ter comma 2 tale principio, ampliandone la portata. Le limitazioni previste dal comma 1 dell’articolo18-ter, compresa la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo, non si applicano, infatti, qualora la corrispondenza epistolare o telegrafica sia indirizzata a: a) difensori, investigatori privati autorizzati, consulenti tecnici e loro ausiliari); b) all’autorità’ giudiziaria; c) alle autorità indicate nell’articolo 35 della legge 354/75 (al direttore dell’istituto, agli ispettori, al direttore generale per gli istituti di prevenzione e di pena e al Ministro di Grazia e Giustizia, al magistrato di sorveglianza, alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto, al presidente della giunta regionale, al Capo dello Stato); d) ai membri del Parlamento, alle Rappresentanze diplomatiche o consolari dello Stato di cui gli interessati sono cittadini; e) agli organismi internazionali amministrativi o giudiziari preposti alla tutela dei diritti dell’uomo di cui l’Italia fa parte. Il provvedimento è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 87 del 14-4-2004.

 

La recensione: Rapporto sui diritti globali 2004

 

(Cgil, Arci, Antigone, Cnca, Legambiente) a cura di Associazione Società INformazione (Edizioni Ediesse, 2004) di Marco Incagnola

 

"In tutte le modalità dell’esperienza - sostiene Paul Connerton - noi fondiamo le nostre particolari esperienze su di un contesto preesistente per assicurarci che esse siano pienamente intelligibili. Se nei confronti del passato di una società le memorie dei suoi membri differiscono in una certa misura, essi non potranno avere in egual misura né esperienze né convinzioni comuni". In questo senso si può sostenere che il compito preliminare di chi opera nel sociale non può non essere, innanzitutto, che quello di individuare la genesi dei problemi per dare profondità a ogni lavoro o ricerca. Il Rapporto sui diritti globali 2004, infatti, si presenta in questa prospettiva come un eccezionale strumento, per interpretare il presente offrendo una fotografia dello stato dei diritti attuali. Promosso da Cgil, curato dall’Associazione SocietàINformazione, in questa seconda edizione vanta la collaborazione di Arci, Antigone, Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza e Legambiente, ossia alcune tra le più rappresentative associazioni impegnate da anni sul fronte dei diritti.

"La piccola pietra della memoria", come è stato battezzato il Rapporto da Sergio Segio coordinatore dei lavori, nell’introduzione del volume, offre un esempio di lavoro corale che seppure diviso in tanti progetti non perde mai di vista la visione d’insieme; il documento oltre ad offrire un’esaustiva panoramica sullo stato dei diritti sia a livello nazionale che internazionale, delinea le prospettive politiche per una loro affermazione.

"Negli ultimi dodici mesi, d’altronde – sostiene il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani nella relazione introduttiva – , lo stato dei diritti è in realtà peggiorato" in uno scenario globale dominato dal fallimento delle logiche liberiste e dall’assenza di progetti di cooperazione fondati su regole, valori e diritti condivisi. Il volume si articola in 18 capitoli raccolti in quattro densissime sezioni, in ognuna delle quali è possibile consultare la cronistoria dei fatti accaduti, le schede di approfondimento, le rilevazioni statistiche e i riferimenti bibliografici corredate da interviste e da un glossario delle parole chiave. La prima sezione è dedicata ai diritti economico-sindacali in cui la riflessione sulla trasformazione della realtà produttiva e occupazionale si accompagna all’analisi della nuova legislazione del lavoro. In primo piano non c’è solo l’inconciliabilità tra la legge 30 (legge Biagi) e i diritti del lavoro ma anche la controversa questione della previdenza sociale e il diritto alla salute e alla sicurezza sul lavoro.

La seconda parte è riservata ai diritti sociali e alle politiche di inclusione e cittadinanza, con particolare attenzione ai processi di privatizzazione e ai loro meccanismi di estromissione delle fasce sociali più deboli dai diritti fondamentali come quelli alla salute, all’assistenza, all’istruzione; in questa sezione una parte è interamente dedicata ai problemi della giustizia e alla possibile riforma del sistema penale italiano per il miglioramento delle condizioni di detenzione. La sezione dei diritti umani, civili e politici s’inserisce in una prospettiva globale di guerra e terrorismo in cui lo status di profugo, rifugiato e migrante, finisce quasi sempre con il coincidere con l’esclusione dalla società civile, o nei casi peggiori, degenerare in vere e proprie forme di schiavitù. La sospensione "eccezionale" dei diritti e il recupero delle diversità è al centro anche del capitolo sui diritti globali ed ecologico-ambientali, con saggi sui diritti nella globalizzazione, sull’Europa politica e l’Europa sociale, sullo stato del pianeta e sulle condizioni ambientali in Italia.

"Un ottimo strumento di lavoro e di riflessione" - sosteneva Tom Benetollo, in occasione della presentazione del volume – "che interviene con grande rigore su molti temi. Esso ha il merito di illustrare, attraverso la lente dei diritti, qual è la cultura della destra che ha un preciso obiettivo nel porre un cuneo tra la parola lavoro e la parola diritti, tra la parola profitto e la parola ambiente, riportando tutto al mercato e alla ricerca del massimo guadagno". Ora, con ancora più tristezza, ricordiamo il grande impegno e le grandi intuizioni sociali e politiche di Tom.

 

Speciale Tortura

 

Reperti meno che umani, di Mauro Palma

 

Le immagini, ma soprattutto i documenti che via via emergono,non lasciano spazio a molti dubbi. Non si è trattato di isolati casi di "alcune mele marce" che hanno agito di propria iniziativa, contravvenendo a rigorosi ordini ricevuti, bensì dell’applicazione proprio di questi ordini.

Certo, i singoli agenti li hanno interpretati, aggiungendovi elementi di personale efferatezza, ma hanno comunque dato corpo alla loro finalità: terrorizzare le persone detenute in vista dei successivi interrogatori, in modo da renderle duttili verso chi avrebbe di lì a poco posto loro domande e richiesto informazioni e nomi. Questo è quanto emerge dalla documentazione che i media statunitensi continuano a fornire sulle torture e i trattamenti contrari alla dignità umana nelle prigioni irachene. Ma è anche ciò che qua e là viene fuori sulle precedenti detenzioni in Afghanistan o che filtra sulle attuali condizioni nel campo "Delta" di Guantanamo, dove circa settecento persone sono tuttora recluse. Guantanamo non è un semplice, grave, episodio all’interno di un conflitto. È stato ed è il luogo ove sperimentare nuove modalità di detenzione, chiaramente in violazione degli obblighi internazionali, e accreditare metodi di pressione fisica negli interrogatori. Non solo, ma anche il terreno di prova per valutare le reazioni della opinione pubblica interna e quelle della comunità internazionale; per capire fino a che punto possa giungere il desiderio di non vedere, e dunque l’implicita acquiescenza, in nome dell’enfasi alla lotta al terrorismo. Ha fornito l’occasione per dare fiato al dibattito sulla produttività dei maltrattamenti e sull’accettabilità di una sofferenza "non letale" inflitta a particolari categorie di detenuti.

Per alcuni, quali il noto giornalista Marc Bowden, in un articolo su The Atlantic Monthly di quasi un anno fa, come misura necessaria da accettare e regolare al fine di ridurre il rischio di peggiori degenerazioni; per altri, come misura imposta dal nuovo terrorismo internazionale che muterebbe i paradigmi classici che regolano norme e Convenzioni e che imporrebbe un ripensamento del divieto assoluto delle forme di pressione fisica. Così, per esempio, Alan Dershowitz, da un fronte tradizionalmente democratico, adombra nel suo Why terrorism works, la possibilità di una sorta di "modica quantità" di maltrattamento fisico in nome della riduzione del danno che il silenzio della persona fermata può causare.

È in questo contesto che sono nati quegli ordini, quelle regole detentive; e si è costruito il terreno per pratiche che sono andate anche al di là di essi. Che maltrattamenti e torture fossero ben vivi anche nel nostro mondo "democratico" non è del resto cosa nuova per chi ha compiti di indagine e ispezione nei luoghi opachi della privazione della libertà: nelle celle delle polizie, nei primi interrogatori dopo l’arresto, nelle carceri, nei luoghi di detenzione degli immigrati irregolari. Ovviamente non si tratta di un comportamento ordinario - sarebbe un errore non vedere l’evoluzione che, per esempio, ha avuto in Europa la cultura delle forze dell’ordine - ma di un comportamento pronto a manifestarsi quando la situazione evolve verso un rapporto totalizzante di inimicizia verso singoli, gruppi, minoranze: quando le persone catturate o detenute sono rappresentate come potenziali aggressori della stessa identità, individuale e collettiva, di chi le detiene. Abbiamo visto maltrattamenti e torture in alcune regioni europee particolarmente esposte al conflitto - cito soltanto il caso della Cecenia - oppure in situazioni ordinarie in coincidenza di particolari operazioni di polizia, o di azioni verso specifici gruppi.

Abbiamo visto la tortura implicitamente tollerata da quegli stati che, sebbene firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite per il suo bando, concedono facili estradizioni di detenuti verso paesi dove questi saranno torturati o addirittura affidano a questi ultimi operazioni "delicate" di interrogatorio per non risponderne direttamente o detengono persone in territori diversi dal proprio dove i controlli non sono possibili. Eppure il tabù della tortura aveva finora retto, almeno formalmente. Non era stata estirpata, ma era una realtà divenuta carsica in gran parte del mondo; sempre negata. Solo tre mesi fa, prima dell’esplosione mediatica del tema, un esponente del nostro governo, intervenendo a un convegno, si riferiva alla tortura come a un problema di "alcune aree del mondo che hanno necessità della solidarietà e dell’impegno di coloro che si sono affrancati da cupe condizioni che, seppur apparentemente anacronistiche, per molti sono ancora triste, inquietante quotidianità".

Le immagini di Abu Ghraib hanno spazzato via questo restringimento del tema: la massima potenza democratica del mondo ha mostrato le sue torture. Qui si inserisce l’elemento di dirompente novità che hanno queste immagini, per il fatto stesso di esistere: è la tortura esibita. Sono immagini di torture classiche, con fili, elettrodi e cappucci, e immagini di degradazione che molto indugiano sulla sfera dell’intimità sessuale. In queste è evidente la commistione tra un infierire che sembra ispirarsi ai siti pornografici di tipo sadico e un allestire una sorta di "reality show" dell’orrore per essere ritratti dal commilitone. Gli "attori" non appaiono né truci né turbati: a loro il proprio comportamento sembra ovvio. Le immagini vanno al di là dell’utilizzo tipico in queste situazioni: intimidire gli altri con la minaccia di ciò che potrebbe loro accadere. Esse rappresentano l’intimidazione, certo, ma anche la considerazione degli iracheni detenuti come non appartenenti all’umanità, come "reperti" da ritrarre per ricordo, per dimostrare al proprio piccolo mondo di appartenenza l’umiliazione loro inflitta e in questo rattoppare la propria debole soggettività. L’affollamento di immagini crea orrore, obbliga a sapere, ma non è detto che crei consapevolezza. Al contrario, può retroagire negativamente determinando assuefazione. Finendo col costituire una sorta di situazione limite rispetto alla quale ogni futuro maltrattamento, in un qualsiasi altro luogo o circostanza, potrebbe essere sotto considerato e, quindi, tollerato. E così l’accettazione dei maltrattamenti può risultarne amplificata anziché diminuita. Per questo è necessario ridare forza e parola a quegli organismi che proprio sul bando di ogni tortura devono vigilare e che sono rimasti assenti nelle molte discussioni attuali. A quelle strutture di regolazione e controllo che rappresentano quanto di più avanzato si è riusciti a costruire sul piano internazionale dal secondo dopoguerra in poi. A esse spetta anche il compito di valutare quegli ordini che, a tratti sinistramente chiari, a tratti obliquamente omissivi, hanno permesso che tutto ciò avvenisse. Per uscire dall’impressionismo e tornare a riflettere sui limiti invalicabili di qualsiasi azione punitiva, repressiva o anche preventiva.

 

Una mattanza "spontanea". Il campionario della vergogna, di Nunzia Bossa, Patrizio Gonnella, Romina Raffo

 

Il 27 marzo 2000 i detenuti del carcere San Sebastiano di Sassari iniziano una protesta pacifica rumoreggiando con le sbarre della cella a mezzanotte meno un quarto. Battono con le posate sulle grate, danno fuoco alle lenzuola, fanno esplodere le bombolette di gas. Alla loro protesta segue quella dei direttori. A causa dello sciopero di questi ultimi i detenuti sono lasciati senza generi alimentari e senza sigarette. Il 3 aprile viene organizzato uno sfollamento generale dei detenuti verso altri istituti dell’isola. Durante la traduzione una trentina di essi vengono brutalmente picchiati. I parenti protestano. Scattano le prime denunce. Antigone il 18 aprile incontra i vertici dell’Amministrazione penitenziaria, li avverte dei gravissimi episodi di maltrattamenti avvenuti in galera. Il 20 aprile le madri dei giovani detenuti picchiati organizzano una fiaccolata. Il 3 maggio la Procura emette ottantadue provvedimenti di custodia cautelare, di cui ventidue in carcere e sessanta agli arresti domiciliari. Si tratta della più grande inchiesta europea per pestaggi in una prigione. Vengono coinvolti il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, la direttrice, il comandante di reparto. L’Amministrazione penitenziaria trasferisce in altre sedi i tre responsabili coinvolti e molti degli agenti. L’accusa: pestaggi selvaggi, detenuti costretti a denudarsi, trascinati per terra ammanettati, colpiti con calci e pugni alla schiena e alle gambe, lanciati da un agente all’altro. Il 9 marzo 2001 il sostituto procuratore dl Tribunale di Sassari, Gianni Caria, chiede il rinvio a giudizio per novantacinque fra agenti e dirigenti dell’Amministrazione penitenziaria, compresi alcuni medici e direttori di carceri, accusati di aver omesso di denunciare la condizione dei reclusi al momento dell’arrivo nei loro penitenziari. Cinquanta imputati chiedono il rito abbreviato semplice o condizionato. Il 28 gennaio 2002 si tengono le prime udienze degli imputati che hanno chiesto il rito abbreviato. Dopo una requisitoria lunghissima, circostanziata, ricca di riferimenti precisi e drammatici, il pubblico ministero chiede per il comandante delle guardie tre anni e otto mesi di carcere, per la direttrice due anni e otto mesi. Entrambi sono accusati di violenza privata, lesioni e abuso d’ufficio; per il capo degli agenti si aggiungono le minacce ad alcuni detenuti durante un trasferimento, del tipo "state attenti a quello che fate". Per il provveditore regionale il pm chiede tre anni e quattro mesi. Per il medico del carcere accusato di non aver visitato i detenuti in uscita quel giorno, vengono richiesti un anno e quattro mesi. Gli si contesta il falso, per quelle firme stampate sui fogli di dimissione che davano i detenuti pestati a sangue, in uscita da San Sebastiano, come in normali condizioni fisiche. Per tutti gli altri un anno e dieci mesi: cinquantaquattro agenti di polizia penitenziaria tutti presunti colpevoli di concorso in lesioni. Il 21 febbraio 2003 il Gup di Sassari Luigi Demuro condanna con il rito abbreviato l’ex Provveditore generale delle carceri sarde a un anno e sei mesi, l’ex direttrice a un anno, l’ex comandante degli agenti a un anno e quattro mesi, dieci agenti di polizia penitenziaria da quattro a sei mesi. Secondo il Gup non fu una mattanza pianificata a tavolino, ma un’esplosione di violenza improvvisa e imprevista. Un pestaggio barbaro di almeno trentasei detenuti, ad opera di agenti irriconoscibili a causa delle tute mimetiche indossate durante l’operazione. Volti sconosciuti, voci anonime, poliziotti che i detenuti non conoscevano e che tranne rare eccezioni non avrebbero mai più rivisto. Il Gup Antonio Luigi Demuro ha dovuto compiere un paziente lavoro di ricostruzione di ogni singolo episodio. È andato alla ricerca del responsabile di ogni singolo schiaffo, di ciascuna sevizia. Ha ricostruito tutto quello che è accaduto al San Sebastiano. Non ha potuto identificare tutti gli agenti coinvolti: erano troppi e tutti uguali per essere riconosciuti uno ad uno. Il giudice ha concesso a tutti i condannati la sospensione condizionale. Atto dovuto, vista la pena ridotta grazie alle attenuanti generiche, prevalenti sulle aggravanti contestate, e alla luce dello sconto di un terzo ulteriore previsto per il rito abbreviato. Sessantotto gli assolti: quarantotto agenti che avevano chiesto il rito abbreviato più altri venti che, invece, avevano deciso di affrontare il giudizio ordinario. Ai quattordici detenuti che il 3 aprile 2000 subirono le lesioni più gravi il Gup ha previsto un risarcimento per complessivi 59mila euro. Tra risarcimento e spese legali, i tredici condannati dovrebbero pagare un conto di 157mila euro. Il 29 settembre 2003 è iniziato il processo per i nove agenti di polizia penitenziaria che non hanno scelto il rito abbreviato e che hanno deciso - coraggiosamente (?) - di affrontare il dibattimento. Questa era la tortura nell’era del centrosinistra.

Potrà sembrare anacronistico parlare "ancora" del caldissimo luglio 2001 di Genova, ma a pochi mesi dalla decisione gravissima del Parlamento di ritardare ulteriormente la codificazione del reato di tortura e dopo i fatti tragici ma prevedibili di Abu Ghraib, non si può più sostenere che la tortura sia una questione che riguarda il terzo mondo incivile. A Genova, tra il 20 e il 22 luglio 2001, le forze dell’ordine italiane sotto gli occhi della comunità internazionale vengono accusate di pestaggi, violenze, brutalità nei confronti dei manifestanti durante lo svolgimento del vertice del G8. Le violenze si consumano sia durante il corteo sia durante la perquisizione straordinaria nella scuola dove risiedevano gruppi di manifestanti. Carlo Giuliani viene ucciso da un carabiniere durante il primo giorno di manifestazione. Le violenze continuano nelle caserme Bolzaneto e Diaz, utilizzate per l’immatricolazione dei fermati. La procura della Repubblica di Genova apre otto inchieste, che vedono coinvolti anche diversi funzionari di polizia, viene sciolto il reparto celere di Roma coinvolto nei fatti.

Il 5 maggio 2003 il Gup Elena D’Aloiso accoglie la richiesta di archiviazione del procedimento per l’uccisione di Carlo Giuliani in Piazza Alimonda nei confronti del carabiniere Mario Placanica, accettando la tesi della legittima difesa e sostenendo l’uso legittimo delle armi. Una settimana dopo, il Gip Anna Ivaldi accoglie la richiesta di archiviazione per i novantatre "no global" arrestati nel corso del blitz alla scuola Diaz il 21 luglio 2001 in quanto quella notte alla Diaz non ci fu nessun atto di resistenza da parte dei giovani sorpresi nella palestra-dormitorio. E va oltre, annunciando l’apertura di un’inchiesta sulle finte molotov sequestrate nella scuola con l’ipotesi di reato di falso in relazione ai verbali firmati dai poliziotti. Alla Bolzaneto e alla Diaz c’è stata tortura. A seguito delle violenze nella caserma di Bolzaneto, allestita come carcere provvisorio proprio in occasione del G8 con un apposito decreto ministeriale, la Procura avvia un’inchiesta che vede coinvolte 43 persone, tra agenti e medici penitenziari; le accuse sono: lesioni gravi, falso e abuso su detenuti (il 28 gennaio 2004, fra l’altro, alcuni agenti di polizia penitenziaria raccontano quello che hanno visto dentro la caserma, confermando ai magistrati quanto denunciato da decine di detenuti sottoposti a maltrattamenti).

Il 12 maggio 2004, il procuratore capo di Genova Francesco Lalla deposita la richiesta di rinvio a giudizio per 47 indagati (15 poliziotti, 16 membri della polizia penitenziaria, 11 carabinieri e 5 medici), tra loro 9 donne, accusati di reati che vanno dalle lesioni, alle percosse, all’abuso su persone arrestate e abuso d’ufficio, falso e falso ideologico. Tutti reati commessi nella caserma di Bolzaneto. Secondo le indagini della procura vittime di questi reati sono state 255 persone (sulle circa 600 che sono transitate in quei giorni nella caserma). Tra i nomi che appaiono nella richiesta di rinvio a giudizio: quello del generale, all’epoca dei fatti colonnello, della polizia penitenziaria Oronzo Doria; di Alessandro Perugini già vicecapo della Digos di Genova; del medico Giacomo Toccafondi, responsabile sanitario della struttura di Bolzaneto. I reati che accomunano tutti gli indagati sono quelli previsti dall’art. 608 del codice penale che punisce l’abuso su persone arrestate e l’art. 323 del codice penale che sanziona chi abusa della propria carica o della propria funzione. Il quadro globale descritto dalla procura parla di manifestanti picchiati sui testicoli, altri fatti accucciare nudi e costretti ad abbaiare come cani, donne spogliate e minacciate di essere stuprate con i manganelli, feriti suturati senza anestesia, percosse gratuite, uso di gas urticanti all’interno di alcune celle. Un disgustoso campionario di atti inqualificabili, tanto che la procura nella sua richiesta cita la violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Il 12 settembre 2003 si conclude l’inchiesta riguardante gli abusi e le lesioni ad opera delle forze dell’ordine intervenute, invece, nella scuola Diaz.

I fatti contestati sono altrettanto gravi. Come è evidente, a Genova prima di Abu Ghraib, sono stati messi in gioco i valori fondamentali della democrazia, del diritto e del rispetto per la persona. A Genova le violenze si sono consumate sotto gli occhi delle telecamere, senza pudore, senza paure, quasi a sfidare lo stato di diritto, nella certezza dell’impunità o quantomeno della approvazione dei propri superiori. A Genova, come a Sassari, non hanno operato poche mele marce, ma hanno agito in molti, aiutati e protetti da altrettanti fra politici e funzionari di alto grado. Questa la tortura nell’era del centrodestra.

 

Articoli tratti da Fuoriluogo (Speciale Tortura n. 8) con Il Manifesto del 25/6/04

 

Le Iniziative di Antigone, a cura della Redazione

 

Domenica 18 luglio - Genova, convegno sul tema della tortura in Italia e nel mondo, promosso dal Comitato Verità e Giustizia per Genova.

Oltre ad Antigone, rappresentata dal suo coordinatore nazionale Patrizio Gonnella, parteciperanno: Amnesty International, Medici contro la Tortura, Legal Team Europeo, il senatore Martone (sui Cpt) e alcuni testimoni particolarmente significativi. Per maggiori informazioni logistiche e per conoscere gli orari precisi nei quali si svolgerà il convegno, rivolgersi alla segreteria dell’associazione Antigone nei giorni immediatamente precedenti il convegno stesso.

 

 

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