L'illusione securitaria

 

I Cpt, ovvero l’illusione securitaria

di Fulvio Vassallo Paleologo - Università di Palermo

 

A partire dal 1998, con l’introduzione dei centri di permanenza temporanea per gli immigrati irregolari in attesa di espulsione, si è diffuso anche in Italia un diritto speciale che sanziona una violazione amministrativa con una forma di detenzione caratterizzata dalla discrezionalità dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali ed urgenti in cui questo è consentito in base all’art. 13 della Costituzione italiana. Sulla base di una falsa giustificazione, fondata sugli obblighi di esecuzione degli accordi di Schengen, si è alimentata una spirale securitaria, come se i centri costituissero un efficace strumento di contrasto della clandestinità e della criminalità associata sempre più spesso al diffondersi della condizione di irregolarità dei migranti. In realtà gli accordi di Schengen non imponevano affatto una mostruosità giuridica come i cpt, in quanto si limitavano a richiedere che le espulsioni fossero effettivamente eseguite, obiettivo perseguibile anche nel rispetto delle garanzie fondamentali della persona e del diritto di asilo, a condizione di adottare procedure e strutture idonee al risultato effettuare un limitato numero di espulsioni: le attività di polizia consistenti nell’allontanamento forzato degli immigrati potrebbero risultare più efficaci se le espulsioni (ed i respingimenti) fossero comminate per un numero limitato di ragioni (ad esempio per l’accertamento di una grave responsabilità penale) e non per il semplice ingresso clandestino. Non si è peraltro riscontrata alcuna valenza dei cpt nel contrasto della criminalità nei territori nei quali sono istituiti, sia per l’elevata percentuale dei migranti rimessi in libertà alla scadenza dei termini, sia per la ubicazione dei centri, in regioni prevalentemente caratterizzate dalla criminalità mafiosa, come la Puglia e la Sicilia, regioni nelle quali i migranti irregolari sono più spesso vittime che compartecipi delle organizzazioni criminali.

Insomma, se è vero che oltre il 70% degli immigrati oggi regolari in Italia è entrata (e continuerà ad entrare) irregolarmente, e se poi, periodicamente intervengono regolarizzazioni o sanatorie camuffate (come i cd. decreti flussi), le misure di contrasto dell’immigrazione clandestina basate sui centri di detenzione amministrativa non hanno affatto arginato il fenomeno ma sono servite soltanto a creare le condizioni per uno sfruttamento ancora più feroce dei lavoratori immigrati, considerati alla stregua di non-persone, anche per effetto della diffusa stigmatizzazione nei loro confronti, considerati prima come potenziali criminali, adesso come possibili terroristi.

Già la Corte Costituzionale nel 2001 aveva segnalato la necessità di interpretare la normativa in materia di trattenimento dei migranti irregolari allora vigente in senso conforme alla Costituzione. Secondo la sentenza n. 105 del 2001 "il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea ed assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’art. 13 della Costituzione ". Già allora le decisioni degli organi giurisdizionali avevano suscitato una forte reazione da parte delle forze di governo che imputavano ad una parte della magistratura una applicazione eccessivamente "garantista" delle norme allora in vigore. Si deve ricordare in proposito il deferimento dei magistrati milanesi che nel 2000 avevano sollevato la eccezione di costituzionalità alla Sezione disciplinare del CSM, negando la convalida dei provvedimenti di trattenimento. Solo dopo la sentenza n.105 della Corte il procedimento disciplinare veniva chiuso con l’archiviazione. Un primo gravissimo esempio di come il potere esecutivo (già in quel periodo) intendeva invadere l’ambito della giurisdizione, sferrando un gravissimo attacco allo stato di diritto ed a una delle norme più importanti della Costituzione repubblicana. Questi attacchi si sono intensificati dopo la entrata in vigore della legge Bossi-Fini, ed oggi si è giunti al linciaggio politico di quei magistrati che applicando le leggi e la Costituzione italiana rimettono in libertà immigrati rinchiusi nei centri di detenzione amministrativa.

La disciplina dei centri di permanenza temporanea è rimasta sostanzialmente immutata con la legge Bossi-Fini che ha però raddoppiato il periodo di permanenza massima all’interno di queste strutture. In realtà la situazione è andata peggiorando progressivamente perché non viene più applicata la "Carta dei diritti e dei doveri" degli immigrati trattenuti nei centri, documento approvato con una direttiva del precedente governo nell’estate del 2000, dopo il tragico rogo del centro Serraino Vulpitta di Trapani. Agli immigrati trattenuti nei centri non viene fornita alcuna informazione, neppure sulla possibilità di chiedere asilo, e si nega, non solo alle associazioni, ma persino alle rappresentanze parlamentari in visita in queste strutture, la possibilità di conoscere la destinazione degli immigrati in via di espulsione. Mentre la proroga dei provvedimenti di trattenimento (da trenta a sessanta giorni) avrebbe dovuto costituire una eccezione, nella pratica si è rilevata come una misura amministrativa automatica, adottata anche in assenza di una specifica motivazione, sulla base della impossibilità di un tempestivo rimpatrio,ancora una volta in violazione di norme di legge e di principi costituzionali.

Le ridotte garanzie di difesa e la discrezionalità amministrativa nella gestione dei centri che comunque consentono una limitazione della libertà personale, in contrasto, con i principi a tutela della persona sanciti dalla nostra Carta Costituzionale, e con numerose convenzioni internazionali (a partire proprio dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che viene spesso richiamata , all’art. 5, proprio per giustificare la introduzione di queste strutture detentive), rendono la permanenza in queste strutture più penosa e spesso più pericolosa della stessa detenzione carceraria. Queste circostanze hanno prodotto frequenti interventi della giurisprudenza che ha criticato duramente, annullando i relativi provvedimenti, sia i presupposti del trattenimento (il provvedimento di respingimento o di espulsione), che le modalità concrete di attuazione della misura restrittiva della libertà personale, e dunque soggetta al controllo di legittimità da parte del giudice, secondo quanto previsto dall’art. 13 della nostra Costituzione. Con la legge 271 del 2004 si è cercato di limitare il ruolo di controlli dell’autorità giurisdizionale, trasferendo la competenza per la convalida dei provvedimenti di trattenimento ai giudici di pace, stabilendo che le convalide vengano effettuate all’interno dei CPT, alla presenza (spesso silente) del difensore d’ufficio, e stabilendo la competenza del giudice di pace del luogo del CPT anche in materia di espulsione e respingimento, anche se questi provvedimenti sono adottati da autorità amministrative lontane migliaia di chilometri. Nei primi mesi di applicazione della nuova normativa si può tuttavia rilevare una sorprendente capacità di tenuta di una parte dei giudici di pace rispetto alle pressioni subite dalle autorità di polizia per effettuare le convalide in modo meramente "cartaceo" e sono sempre più numerose le decisioni che negano la convalida dei provvedimenti di trattenimento. Alcuni giudici di pace hanno anche sollevato la questione di incostituzionalità della normativa che assegna loro la convalida di provvedimenti restrittivi della libertà personale, provvedimenti che avrebbero dovuto restare di competenza dei magistrati togati, maggiormente garantiti dalla normativa dell’ordinamento giudiziario (e dalla Costituzione) in materia di indipendenza.

Appare in ogni caso sempre più grave la violazione del diritto di difesa degli immigrati trattenuti nei centri di detenzione amministrativa, una frattura irreversibile con il sistema delle garanzie dettato dall’art. 24 della Costituzione, la base per un diritto speciale applicabile solo agli stranieri irregolari ( in realtà a tutti gli stranieri, a causa dell’estrema facilità con la quale oggi si può perdere il permesso di soggiorno). Spesso all’immigrato trattenuto nel centro non si comunica neppure la possibilità di nominare un difensore di fiducia o di accedere alla procedura di asilo. In molti casi le delegazioni parlamentari hanno rilevato la mancata consegna dei provvedimenti amministrativi di trattenimento e delle relative convalide. Non si contano più i casi di percosse e violenze di ogni genere perpetrate dalle forze di polizia ai danni degli immigrati trattenuti nei centri, non appena si sgretola il muro di omertà costruito dalle forze dell’ordine e dalle associazioni che cogestiscono queste strutture, basti pensare al caso del Regina pacis di Lecce, e da ultimo un procedimento penale è stato aperto a Ragusa dopo il pestaggio di una immigrata cinese.

Una disciplina legislativa e prassi amministrative che ritengono l’allontanamento forzato dello straniero irregolare come una panacea per tutti i mali, adesso anche per contrastare la minaccia terroristica, quando invece si tratta di misure di polizia spesso arbitrarie che alimentano frustrazione ed odio, e non offrono neppure garanzie di sicurezza, perché, una volta accompagnati in frontiera, sono proprio gli appartenenti ad organizzazioni criminali che una volta espulsi potranno ritornare ad operare in assoluta libertà, muovendosi come pesci nel mare della clandestinità, di una clandestinità voluta ed utilizzata come spauracchio sociale e come strumento di sfruttamento dei lavoratori più deboli.

L’unica garanzia di sicurezza, per una società democratica, sarebbe invece prosciugare quelle sacche di clandestinità ed esclusione che alimentano una spirale violenta che, sommandosi alle "guerre di religione", potrebbe diventare incontrollabile.

I centri di permanenza temporanea hanno funzionato da fattore di esclusione sociale, più che di allontanamento effettivo, recidendo legami di integrazione già instaurati da anni, o fungendo da luogo di transito per richiedenti asilo ai quali veniva negato l’accesso alla procedura o il riconoscimento dello status, ma che si riteneva più comodo rimettere in libertà con un ordine in tasca per l’uscita dal territorio entro 5 giorni dal rilascio: un ordine che non si può certo eseguire in assenza di mezzi e di documenti per l’espatrio, quei documenti che neppure lo Stato riesce a ricostruire.

Sarà comunque fondamentale adesso la portata del nuovo regolamento di attuazione della legge Bossi- Fini, entrato in vigore da pochi mesi. Questo regolamento – approvato a quasi due anni dall’approvazione della legge Bossi-Fini- è stato emanato, malgrado la forte opposizione degli enti locali, anche per la mancata copertura finanziaria, rilevata da parte della Corte dei conti. Se si combina il nuovo regolamento generale di attuazione della legge con il regolamento sulle nuove procedura in materia di asilo emerge sia il ritardo come il ritardo nella adozione di questi provvedimenti sia dovuto alla mancanza delle strutture e dei mezzi necessari per l’attuazione della legge Bossi-Fini. Appare gravissimo che il nuovo regolamento in materia di asilo non disciplini le procedure di trattenimento degli immigrati rinchiusi nei nuovi centri di identificazione, perche anche queste strutture, con la sola eccezione del centro Salina Grande di Trapani, appaiono come veri e propri centri di detenzione amministrativa, al punto che il ministero degli interni si sta battendo per la creazione di centri polifunzionali, in modo che l’assenza di regole in ordine al trattenimento (non è prevista alcuna forma di convalida da parte del magistrato) possa estendersi dai CID (Centri di identificazione) ai CPT.

Ma in questa materia i ritardi nell’adozione degli strumenti regolamentari equivoci e limitativi dei diritti fondamentali delle persone non sono una novità.

Dopo l’approvazione della legge 40 nel 1998, si dovette attendere quasi un anno per avere un regolamento di attuazione che desse certezza alle regole di gestione dei centri di permanenza temporanea aperti in Italia pochi giorni dopo l’approvazione della legge da parte del Parlamento. Questa circostanza determinò una situazione di totale arbitrio nella gestione dei CPT, ancora difesi dall’ex ministro degli interni Napolitano, e soprattutto dopo la chiusura della regolarizzazione del 1998, alla fine del 1999, a quel clima di repressione e di disperazione che determinò la strage del centro Serraino Vulpitta di Trapani (poche settimane dopo che una circolare ministeriale invitava i prefetti a rinchiudere nei cpt tutti coloro che avevano avuto respinta la domanda di regolarizzazione).

Il Regolamento di attuazione del T.U. 286/98 in materia di immigrazione, adottato nell’agosto del 1999, rimane comunque in vigore con poche modifiche, anche nella parte che prevede disposizioni in contrasto tra loro, stabilendo prima che "le modalità del trattenimento devono garantire, nel rispetto del regolare svolgimento della vita in comune, la libertà di colloquio all’interno del centro e con visitatori provenienti dall’esterno, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di culto, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona, fermo restando l’assoluto divieto dello straniero di allontanarsi dal centro", per affermare subito dopo che ai centri possono accedere oltre ai familiari conviventi al difensore, ai ministri di culto" gli appartenenti ad enti, associazioni del volontariato e cooperative di solidarietà sociale, ammessi a svolgervi attività di assistenza a norma dell’art.22 ovvero sulla base di appositi progetti di collaborazione concordati con il prefetto della provincia in cui è istituito il centro": le associazioni che non "collaborano" nella gestione del centro non possono dunque accedervi, a meno di ricevere, volta per volta una apposita autorizzazione da parte del Prefetto . Il successivo art.23 del regolamento sancisce infatti, a livello locale, il potere regolamentare del Prefetto che "disciplina" l’attività del centro " in conformità alle istruzioni di carattere organizzativo e amministrativo contabile impartite dal Ministero dell’interno, anche mediante la stipula di apposite convenzioni con l’ente locale o con soggetti pubblici o privati che possono avvalersi dell’attività di altri enti, di associazioni del volontariato e di cooperative di solidarietà sociale". In base al regolamento del 1999, " il questore adotta ogni altro provvedimento e le misure occorrenti per la sicurezza e l’ordine pubblico nel centro, comprese quelle per l’identificazione delle persone e di sicurezza all’ingresso nel centro, nonché quelle per impedire l’indebito allontanamento delle persone trattenute e per ripristinare la misura nel caso che questa venga violata." La libertà di incontrare " visitatori provenienti dall’esterno", come tutte le altre modalità del trattenimento, rimangono così affidati alla discrezionalità delle autorità amministrative presenti nei centri, delle Prefetture e dei vertici del Ministero degli interni. Circostanza questa ancora aggravata dal decreto del governo Berlusconi, emanato nel settembre 2002, che, dichiarando un vero e proprio "stato di emergenza" ha concesso proprio ai Prefetti i più ampi poteri per aprire nuove strutture detentive ed organizzarne il funzionamento. In Sicilia, a seconda delle diverse ondate di sbarchi, si sono realizzate da parte delle Prefetture strutture detentive temporanee che vengono continuamente chiuse quando i migranti sono trasferiti in un altro centro, per essere poi riaperti allo sbarco successivo (così ad esempio a Pozzallo in provincia di Ragusa).

Dopo queste nuove disposizioni, a partire dal 2000, è stato di fatto impedito a quasi tutte le associazioni indipendenti di entrare nei centri di permanenza temporanea. Sono state consentite, con molte limitazioni, come la impossibilità (in qualche caso) di comunicare direttamente con gli immigrati, visite di delegazioni guidate da parlamentari. Da ultimo si è negato persino l’ingresso ai parlamentari regionali. Ad Agrigento, nell’estate del 2004, in occasione dell’internamento di profughi della Cap Anamur in un centro di detenzione amministrativa, un deputato regionale si è dovuto barricare all’interno della struttura per ottenere che ai migranti fosse riconosciuta la possibilità di avvalersi di un legale di fiducia. A Trapani l’ingresso è consentito soltanto ai rappresentanti delle associazioni espressamente richiesti dagli immigrati rinchiusi nel centro Vulpitta e sulla base di una autorizzazione della Prefettura, ma non sempre le richieste di visita vengono trasmesse tempestivamente in modo da garantire la continuità delle attività di visita ed assistenza. Un regime detentivo ispirato a criteri di mera discrezionalità amministrativa, che in diverse occasioni ha prodotto un clima di disperazione e di protesta, e qualche sporadico tentativo di fuga, duramente sedato dalle forze dell’ordine.

Le ultime visite effettuate da delegazioni di parlamentari europei, nazionali e regionali hanno documentato la quasi totale assenza di interpreti e di servizi di mediazione, oltre che la impossibilità di ricevere informazioni sul diritto di asilo o di presentare la relativa istanza; e sono ancora riscontrabili condizioni igieniche scandalose, e regimi detentivi ai limiti del trattamento disumano e degradante ( sanzionato dalla Convenzione Europea a garanzia dei diritti dell’uomo), come la prassi, in alcuni centri di detenzione siciliani, di chiamare continuamente l’appello, con lunghe code in fila, in piedi, sotto il sole. Altre file come quelle per ricevere le razioni di cibo. Quando in centri strutturati per ricevere non più di duecento persone si sono ammassati oltre mille immigrati (come a Lampedusa) le condizioni di vivibilità ed il rispetto delle leggi sono state affidate più ai manganelli che non alle istruzioni fornite dagli interpreti. E questo anche per l’equivoca formulazione del regolamento di attuazione della legge Turco Napoletano che consente il trattenimento nei CPT degli immigrati "soccorsi" durante il tentativo di ingresso irregolare in Italia. Un chiaro esempio di "accoglienza dietro le sbarre".

Da queste prassi amministrative -che negano la dignità delle persone trattenute nei centri in attesa di espulsione- sono derivati frequenti episodi di autolesionismo, nel più completo silenzio dei mezzi di informazione, unica tragica testimonianza della disumanità delle condizioni di trattenimento e della totale assenza di prospettive di vita per gli immigrati che vengono rinchiusi in quelli che molti giornali definiscono ancora come "centri di accoglienza".

Dopo anni di denunce da parte delle associazioni indipendenti il rapporto sui centri di permanenza temporanea presentato nel 2003 dalla associazione Medici senza frontiere (disponibile nel sito internet della stessa organizzazione) ha documentato inconfutabilmente la fondatezza delle accuse rivolte al sistema dei centri di detenzione amministrativa da molte associazioni non governative. Le stesse accuse sono state documentate e confermate da successive visite del Comitato per la prevenzione della tortura e dalla Federazione internazionale dei diritti dell’uomo, oltre che dal rapporto annuale di Amnesty international.

Sono ancora in corso alcuni processi penali, in particolare a Lecce, ed a Bologna, contro responsabili ed operatori di queste strutture, rinviati a giudizio per gravi abusi commessi ai danni degli immigrati trattenuti nei CPT.

Negli ultimi anni si è generalizzata in tutta Europa la prassi della detenzione amministrativa dei migranti richiedenti asilo. In Italia questo è avvenuto con la istituzione dei nuovi centri di identificazione, come il centro di Pian del lago a Caltanissetta, prima ancora della emanazione del regolamento di attuazione della legge Bossi-Fini entrato in vigore pochi mesi fa.

Queste nuove strutture stanno sorgendo all’interno dei vecchi centri di detenzione è ne conservano tutti gli aspetti detentivi, al punto che anche il Consiglio di Stato ne ha rilevato la natura strettamente finalizzata alla limitazione della libertà personale (riconducibile dunque alle garanzie dell’art. 13 della Costituzione), e non della semplice libertà di circolazione. Eppure i centri di identificazioni, voluti adesso dal ministero degli interni come "centri polifunzionali", rimangono al di fuori delle garanzie costituzionali, e non sono regolamentati da norme certe, al punto che il trattenimento amministrativo si può protrarre per settimane senza convalida da parte del magistrato.

Ma al di là dei centri di detenzione amministrativa, il costante aumento delle sanzioni penali previste a carico dei migranti irregolari impone di considerare il circuito CPT-Carcere come un ciclo unico di sanzione della mera presenza irregolare sul territorio, dopo il mancato rispetto del primo ordine di espulsione, mentre per la esecuzione delle espulsioni i nuovi accordi di riammissione prevedono forme estremamente rapide di allontanamento forzato degli immigrati trovati sul territorio italiano in condizioni di irregolarità.

Corrispondono a queste scelte di politica della sicurezza le nuove prassi amministrative adottate dalle autorità italiane che effettuano l’espulsione immediata dei cd. clandestini con la organizzazione di "voli charter congiunti" organizzati in poche ore per accelerare e rendere meno costose le procedure di rimpatrio forzato. In questo caso il trattenimento amministrativo si riduce al minimo e avviene anche in strutture come stazioni di polizia e zone di transito aeroportuale o stazioni marittime, che diventano luoghi inaccessibili (anche per i familiari, per gli interpreti e per gli assistenti legali), di privazione completa dei diritti dei migranti in attesa di espulsione o di respingimento.

Se i mezzi economici e le strutture mancano, si cerca di mettere le mani sulle risorse e sulle strutture destinate, anche da parte degli enti locali, all’accoglienza ed alla integrazione, come sta avvenendo con il trasferimento alle Prefetture dei poteri decisionali prima affidati al Servizio centrale in materia di assegnazione degli immigrati nell’ambito dei progetti nazionali asilo ( PNA). Oppure si continua a finanziare un privato sociale che considera l’espulsione dei migranti come una sicura prospettiva occupazionale ( se non speculativa).

Occorre dire basta a questa politica basata sull’odio, sullo sfruttamento, e sulla strumentalizzazione della paura del diverso, e sulla privatizzazione della detenzione amministrativa. Va creato un fronte comune tra associazionismo ed enti locali per ottenere la chiusura dei CPT che costituiscono una offesa ai principi democratici ed ai diritti, di asilo, di difesa, alla salute ed alla vita, riconosciuti dalla nostra Costituzione. Ma bisogna anche modificare le leggi in materia di immigrazione e asilo, abrogando la Bossi-Fini.

Una disciplina efficace delle espulsioni potrà realizzarsi anche senza la detenzione amministrativa nei cd. centri di accoglienza (come li continua a chiamare la stampa), di identificazione o polifunzionali che siano, escludendo la limitazione della libertà personale per i richiedenti asilo e limitando le espulsioni ai casi più gravi. Vanno riconosciuti a chiunque – anche se immigrato irregolare- i diritti fondamentali della persona umana sanciti da tutte le Costituzioni moderne. La criminalità e il terrorismo si sconfiggono con azioni mirate, con la identificazione dei sospetti, con il coinvolgimento delle comunità degli immigrati, e non con l’internamento in strutture come i centri di permanenza temporanea, funzionali all’ attribuzione di identità che sono mirate soltanto all’esecuzione più rapida dell’espulsione. Occorre ritornare a politiche migratorie inclusive, e abbandonare la logica delle leggi manifesto che hanno moltiplicato a dismisura la sanzione penale della presenza irregolare dei migranti, presenza largamente sfruttata dal nostro sistema imprenditoriale. Ai richiedenti asilo va garantito l’accesso alla procedura, un esame imparziale della domanda e l’effetto sospensivo del ricorso giurisdizionale. Una nuova politica dell’immigrazione e dell’asilo che si basi sulla chiusura dei centri di detenzione amministrativa, e su una ridefinizione degli accordi di riammissione sulla base di standard minimi degni di un paese civile e democratico. Una politica che sappia finalmente superare la logica degli accordi bipartisan, quella logica che ha consentito fino ad oggi la più totale copertura delle responsabilità politiche e penali degli autori degli abusi perpetrati nell’allontanamento forzato e nella detenzione amministrativa degli immigrati.

 

 

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