La contenzione in psichiatria

 

La contenzione dell'infermo di mente e del tossicodipendente

di Leonardo Grassi e Fabrizio Ramacciotti

 

Il più elementare dei diritti di libertà solennemente garantiti dalla costituzione è il diritto alla libertà del proprio corpo, il diritto a non essere contenuti, a non essere legati. Quello di potersi muovere liberamente è il diritto primario, al quale conseguono tutti gli altri diritti. Tale diritto spetta a chiunque. Anche gli autori dei più gravi reati hanno la libertà di muoversi, seppur entro i limiti del carcere e delle sue regole. È qualcosa di ancora più forte di un diritto, è la condizione necessaria per una vita umana. Eppure basta una malattia, una perturbazione della mente, uno stato di dipendenza da droghe o da alcool, oppure semplicemente la vecchiaia, perché questo fondamentale diritto venga messo in discussione.

Con questo scritto vogliamo cercare di chiarire se sia lecito - e in caso affermativo entro quali limiti ed a quali condizioni - che la libertà elementare del corpo possa essere in qualche misura compressa; vogliamo cioè chiarire (per quanto possibile data la difficoltà della materia) se la coercizione e la contenzione dell’infermo di mente o di altri soggetti quali i tossicodipendenti o i vecchi ricoverati nelle case di riposo siano o meno consentite.

La contenzione ha origine in psichiatria ed è perciò dalla psichiatria che si deve cominciare. Un tempo era dato per scontato che gli infermi di mente potessero essere contenuti. Non c’era una norma esplicita che lo autorizzasse, ma la cosa appariva ovvia. Il legislatore si preoccupava solo che la contenzione avvenisse secondo certe regole.

Così, ad esempio, l’art. 60 del regolamento manicomiale del 1909 disponeva che "Nei manicomi devono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l’autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’istituto. Tale autorizzazione deve indicare la natura e la durata del mazzo di coercizione. L’autorizzazione indebita dell’uso di detti mezzi rende passibili coloro che ne sono responsabili di una pena pecuniaria da £. 12.000 a £. 40.000 senza pregiudizio delle maggiori pene comminate dal codice penale. L’uso dei mezzi di coercizione è vietato nella cura in case private. Chi contravviene a tale disposizione è soggetto alla stessa pena stabilita dal comma precedente."

Questa norma, insieme ad altre analoghe relative all’organizzazione dei manicomi, è stata abolita con la riforma psichiatrica del 1978, così che attualmente nel nostro ordinamento non c’è nessuna disposizione di legge che implicitamente o esplicitamente autorizzi l’uso di mezzi di contenzione.

Nonostante questo, si scrivono ancora protocolli che disciplinano l’uso della contenzione. L’A.E.P. (American Association of Psichiatry) norma con precisione la contenzione, stabilisce quali mezzi usare, quanto personale impiegare, quali provvedimenti adottare (monitoraggio di polso, pressione ecc.) ed Italia alcune a.u.s.s.l hanno adottato protocolli derivati da quello dell’A.E.P, dando per scontato che la contenzione meccanica possa essere effettuata a carico degli anziani e dei dementi nelle case di riposo, nelle R.S.A, nei reparti di geriatria, nei reparti di rianimazione, nei reparti di neurologia ecc.

 

Cosa sono i mezzi di contenzione? In generale, si tratta di un complesso di pratiche e di strumenti che vengono utilizzati per limitare la possibilità di movimento di un soggetto. Può accadere che una persona disturbata psichicamente, un tossicodipendente in crisi di astinenza, un alcol dipendente, un vecchio sofferente di demenza o altra malattia analoga, assumano dei comportamenti imprevedibili o violenti.

Molti ritengono che sia ovvio sottoporre questi soggetti a mezzi coercitivi, che ciò sia nell’ordine delle cose, che corrisponda al loro stesso interesse. Forse chi condivide questa opinione non considera adeguatamente, sia in termini esistenziali che giuridici, il valore imprescindibile della libertà così come sancito nel nostro ordinamento dall’art. 13 della Costituzione. Valore tanto più rilevante quanto più attinente a libertà minime, elementari, naturali, come la libertà di potersi muovere. Sappiamo, per le molte esperienze ormai fatte, che è possibile evitare la contenzione a queste persone; occorre allora chiedersi se la contenzione sia tuttora lecita ovvero rappresenti un qualcosa di illecito, un reato.

 

Va detto, innanzitutto, che è ormai scientificamente provato che non esiste alcun nesso deterministico tra disturbo psichico e comportamenti violenti. Dietro tali comportamenti vi sono spesso, come per chiunque, fattori sociali, culturali, condizioni di dipendenza. Solo raramente si ravvisano patologie psichiatriche, quali deliri persecutori, deliri allucinatori, la fase maniacale del disturbo ciclico e, solo in modo estremamente marginale, poche altre sindromi. Non dobbiamo dimenticare che la malattia mentale non pregiudica necessariamente la capacità di intendere e volere e che la persona affetta da malattia mentale può avere comportamenti violenti in modo assolutamente non dissimile da chiunque altro. La reazione, allora, anche nel caso degli infermi di mente, non potrà essere disciplinata che dalle norme ordinarie in tema di legittima difesa o di stato di necessità.

 

Già nella metà dell’ottocento lo psichiatra inglese Connoly sosteneva la necessità e la possibilità di una "not restraint psychiatry", di una psichiatria cioè che non utilizzasse mezzi di contenzione. Il rifiuto della contenzione è stata una delle parole d’ordine di chi al mondo, e in particolare in Italia, ha ipotizzato e praticato psichiatria senza manicomio. Come è già stato notato, oggi la legislazione italiana ha, almeno ufficialmente, abolito i manicomi; eppure la contenzione non è scomparsa, così come non sono scomparse altre pratiche legate alla cultura manicomiale. In genere lo psichiatra che ammette di utilizzare la contenzione sostiene che questa è una dolorosa necessità per impedire che quel certo paziente si faccia del male o faccia male ad altri. Eppure, se si arriva ad affermare che la contenzione è necessaria vuol dire che qualcosa non ha funzionato, che le "buone pratiche" della psichiatria non sono state attivate.

 

Una psichiatria senza contenzione - va sottolineato - non solo è possibile, ma dopo la riforma del 1978 costituisce un obbligo giuridico e prima ancora deontologico. Beninteso, ciò non significa che, in alcune circostanze, non si renda necessaria una qualche forma di coercizione, di pressione sul paziente per indurlo alla cura. Vi sono situazioni in cui è consentito, anzi doveroso, intervenire su una persona anche usando la forza fisica (coercizione o contenzione fisica) pur con tutti i limiti del caso. La coercizione fisica può essere esercitata nell’ambito di un rapporto di diretto confronto con il paziente, misurandosi con lui per fargli superare una situazione di crisi, ma - occorre precisare - riconoscendo la sua soggettività, i suoi diritti e i suoi bisogni, anche se espressi in modo convulso e violento2 . Deve trattarsi però soltanto di una forma di contenimento momentaneo, inserita in un trattamento terapeutico, non già un’iniziativa fine a se stessa, bensì la premessa di interventi propriamente sanitari immediatamente successivi.

Da un punto di vista giuridico questa forma di coercizione, che in astratto potrebbe dar luogo a reati, può essere giustificata dall’art. 51 del codice penale, che disciplina lo stato di necessità. Nel caso in cui il paziente abbia tenuto comportamenti eteroaggressivi potrà valere anche la scriminante della legittima difesa. In genere, ma non necessariamente, questi interventi coercitivi sul paziente avvengono nell’ambito del trattamento sanitario obbligatorio.

 

Concludendo: entro certi limiti, l’obbligo alla cura e limitatissime forme di coercizione del paziente sono consentite. Altra cosa è la contenzione meccanica, cioè la contenzione per mezzo di speciali apparecchiature, quali le camicie di forza, i letti di contenzione, quelli muniti cioè di cinghie da applicare ai polsi e alle caviglie. In questi casi - com’è evidente - la violenza sull’infermo non resta circoscritta ai pochi momenti necessari per calmarlo o per somministrargli un farmaco. Prosegue nel tempo, tanto a lungo che l’azione umana non è più adeguata allo scopo e si rende necessario uno speciale strumento che assicuri l’immobilità del paziente. La contenzione meccanica, oltre ad essere illecita è anche segnale dell’ inadeguatezza tecnica e organizzativa della struttura sanitaria ove venga praticata. È ovvio infatti che occuparsi di una persona sofferente richiede più tempo, più personale e più danaro che semplicemente legarla ad un letto.

Va infine fatto un accenno a quella che potrebbe essere definita "contenzione chimica", cioè il contenimento del paziente attraverso un uso improprio degli psicofarmaci. La contenzione chimica è scriminata sia per l’art. .54 c.p., che come già ricordato disciplina lo stato di necessità, sia per la causa di giustificazione atipica riconosciuta con riferimento all’agire medico - e ammissibile però solo quando l’iniziativa abbia natura di intervento sanitario e sia parte essenziale della terapia. Resta ovviamente illecita, invece, se praticata al di fuori di un trattamento di tipo terapeutico, ad esempio al solo scopo di riportare l’ordine in un reparto, ovvero con intenti punitivi nei confronti del paziente, ovvero infine per maggiore comodità del personale nella gestione dell’infermo.

 

Prima ancora che antigiuridica, la contenzione è un atto di resa delle istituzioni sanitarie che la praticano, che con essa svelano la loro incapacità di stabilire un rapporto umanamente accettabile con il loro pazienti. Per arrivare ad abolire la contenzione occorre dunque incidere su dette istituzioni. La modifica della cultura e delle prassi delle istituzioni sanitarie può ovviamente essere favorita dal controllo esercitato sulle stesse dagli utenti e dai loro famigliari Innanzitutto è sempre possibile vigilare sul corretto trattamento del malato e chiedere informazioni sulla malattia e sulle terapie anche al fine di prestare un consenso informato ai diversi trattamenti. In medicina, e quindi anche in psichiatria, in geriatria, in tossicologia, vige un obbligo generale di corretta informazione, sancito dal codice di deontologia medica del 1998.

Nel caso in cui le spiegazioni risultino carenti o comunque permanga qualche dubbio sul buon funzionamento dell’istituzione è possibile presentare esposti in sede amministrativa, ad esempio al responsabile del servizio o all’autorità a lui sovra ordinata. È sempre possibile poi chiedere copia delle cartelle cliniche. La legge sulla trasparenza amministrativa n. 241 del 1990 riconosce a tutti i cittadini interessati questo diritto. È possibile poi ricorrere al Tribunale per i Diritti del Malato o al Difensore Civico, anche se va detto che da sondaggi effettuati dagli autori presso il difensore civico di Bologna e di Venezia e presso il Tribunale per i diritti del malato risulta che questi soggetti non vengono quasi mai coinvolti in questioni attinenti alla contenzione.

 

Infine occorre ricordare che la contenzione meccanica, almeno a giudizio di chi scrive, rappresenta un illecito penale. Atti di contenzione possono integrare in particolare il delitto di sequestro di persona, e, secondo le circostanze, quello di violenza privata, di maltrattamenti o anche, come si dirà meglio in seguito, quello di abbandono di incapace. Frequentemente, peraltro, la contenzione è stata ritenuta scriminata per stato di necessità (art. 54 c.p.) o in forza della causa di giustificazione atipica dell’esercizio della professione medica.

Le questioni relative all’illiceità della contenzione sotto il profilo penale non possono considerasi definitivamente risolte. La giurisprudenza, infatti, è discontinua e talvolta tende a dilatare ingiustificatamente le scriminanti. Il legislatore, da parte sua, ad anni di distanza dalla riforma psichiatrica del 1978, non ha posto un esplicito divieto agli atti di contenzione, così che la materia resta di fatto ambigua. In realtà le decisioni giurisprudenziali in tema di contenzione sono piuttosto scarse, non solo perché le condizioni soggettive delle persone offese sono spesso tali da non consentire loro neppure di proporre denuncia, ma anche perché in vaste aree culturali viene tuttora dato per scontato che sia del tutto lecito contenere con la forza i soggetti disturbati psichicamente, i tossicodipendenti, gli anziani affetti da demenza senile ricoverati negli ospizi: insomma, tutti quei soggetti deboli che possono produrre disordine coi loro comportamenti. Solo i casi più eclatanti giungono all’attenzione della magistratura e dell’opinione pubblica.

Le decisioni giurisprudenziali più rilevanti in materia di contenzione riguardano per lo più situazioni in cui il contenimento del paziente ha comportato effetti ulteriori rispetto alla "semplice" limitazione della libertà, quali soprattutto lesioni personali. Alte decisioni interessanti, sintomatiche se non altro del disvalore che l’ordinamento attribuisce alla contenzione, sono rappresentate da alcune sentenze in procedimenti per diffamazione, nelle quali si stabilisce che l’affermazione che un operatore sanitario abbia compiuto atti di contenzione meccanica sui propri pazienti, se non corrispondente al vero, integra il reato di diffamazione.

 

Peraltro la giurisprudenza ha fissato definitivamente alcuni punti. In primo luogo che l’infermo va salvaguardato nelle sue libertà essenziali, per quanto queste possano risultare compromesse dalla malattia. In secondo luogo va tenuto presente che vi sono forme di contenzione che per le loro modalità esecutive sono da considerare sicuramente illecite. Ciò che manca ancora, invece, è la diffusa consapevolezza che la contenzione sia comunque illecita, indipendentemente dai sui effetti lesivi o dalle suo modalità esecutive, quando superi quel limite minimo del contenimento fisico, diretto ed immediato, scriminato sulla base di una rigorosa interpretazione dell’art. 54 c.p.

In realtà la contenzione meccanica non è un atto medico e non è scriminata dalla causa di giustificazione atipica dell’esercizio della professione medica; inoltre non è scriminata dall’art. 50 c.p. (consenso dell’avente diritto), in quanto il consenso alla limitazione di proprie libertà essenziali, anche se prestato in via preventiva (come accade per i tossicodipendenti ammessi in alcune comunità), è sempre revocabile e l’applicazione dei mezzi di contenzione è evidente conseguenza del rifiuto del paziente di sottoporsi alla terapia. L’art. 54 c.p. , infine, vale a scriminare quelle forme di contenimento fisico del paziente strettamente necessarie per contrastare una situazione di crisi improvvisa ed acuta, quando vi sia la necessità di salvare "sé od altri" (e perciò ovviamente anche il paziente stesso) da un danno grave alla persona, quando il pericolo non sia altrimenti evitabile e "sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo" e conseguentemente non può essere utilizzato per scriminare l’uso di letti di contenzione o di altri mezzi atti limitare in modo persistente la libertà di movimento della persona.

 

Questa concezione, a giudizio di chi scrive, appare l’unica compatibile con l’art. 13 della Costituzione, che afferma "l’inviolabilità" della libertà personale e riconosce pertanto al diritto alla libertà personale un rilievo particolarissimo, superiore a quello dato ad altri dirittii costituzionalmente protetti Né il trattamento sanitario obbligatorio (che pure è autorizzato dal giudice e perciò soddisfa l’art. 13 Cost. nella parte in cui prescrive che ogni limitazione della libertà può essere disposta o convalidata unicamente dall’autorità giudiziaria) consente di per sé la contenzione al di fuori dei limiti dello stato di necessità, al di là cioè di quella minima contenzione fisica di cui sopra già si è detto. Va notato, al contrario, che secondo l’opinione che qui si sostiene la contenzione meccanica appare ancor più ingiustificata allorquando abbia luogo presso strutture quali i centri diagnosi e cura, istituite proprio allo scopo di far fronte a situazioni di crisi. Tali strutture, per la loro specifica funzione, infatti, dovrebbero essere organizzate in modo tale da fronteggiare le emergenze nel rispetto dei diritti dei loro pazienti.

 

Va ricordato, infine, che la contenzione meccanica, successivamente alla riforma psichiatrica del 1978, può integrare anche il delitto di abbandono di incapace. Mentre prima della legge 180, infatti, l’obbligo di custodia poteva considerarsi soddisfatto con la contenzione dell’infermo all’interno del manicomio, ora deve considerarsi "abbandono" il ricovero dell’infermo in strutture inadeguate, sia sotto il profilo logistico che sotto quello dell’assistenza e della cura e in particolare può costituire abbandono il lasciare l’infermo legato ad un letto di contenzione.

Prendiamo ad esempio la situazione di un paziente che soffra di un delirio di tipo persecutorio:è convinto che i suoi vicini di casa stiano complottando contro di lui per sfrattarlo e a questo fine mettono in atto ogni tipo di aggressioni. Il campanello rotto da un qualche monello,la spazzatura lasciata per incuria sulle scale o un televisore ad alto volume durante la notte che impedisca il sonno divengono prove certe di questa persecuzione da cui il paziente cercherà di difendersi.

Si recherà allora a fare denuncia alla polizia, ma non verrà preso in considerazione, scriverà alle autorità senza risultato e quindi, esasperato da quella che per lui è l’ ennesima aggressione cercherà di "farsi giustizia da solo" minacciando o aggredendo quelli che lui reputa i suoi persecutori.

Il servizio Psichiatrico contattato potrà muoversi in due modi: cercare di entrare in rapporto con il paziente e ridialettizzare la situazione relazionale ferita, anche tramite visite domiciliari, oppure limitarsi a produrre un trattamento sanitario obbligatorio. Per il paziente il ricovero coatto tramite la forza pubblica diverrà una conferma del complotto contro del quale riterrà complice anche il servizio psichiatrico. Una volta giunto in reparto tenterà in ogni modo di difendersi dal personale e da quelli che "vogliono farlo passare per matto". Rifiuterà le terapie, tenterà la fuga.

A questo punto la contenzione meccanica convaliderà la sua convinzione persecutoria e renderà difficilissimo l’istaurarsi successivamente di un rapporto di cura, in quanto il paziente penserà al servizio come ad un persecutore da eludere o da ingannare.

Se invece il rapporto viene stabilito in modo corretto spesso il ricovero può essere evitato con un intervento di cura adeguato, oppure attuato in modo volontario o comunque in caso risulti impossibile evitare il TSO il percorso che ha portato alla scelta drammatica di limitare la libertà è comunque condiviso tra curanti e paziente e diviene "materiale del trattamento", costituisce base per quella difficilissima pratica di negoziazione con il paziente psicotico che gli consenta di riconoscere il suo stato di malattia e di accettare le cure.

 

Ad esempio, un paziente ricoverato in Spdc è in preda a forti allucinazioni uditive. Una voce terribile gli annuncia che in quel momento i suoi figli stanno per essere uccisi da un malvivente e che anche lui è in pericolo di vita. Ovviamente è terrorizzato e tenta di fuggire dal reparto per difendere se stesso e i suoi cari. In una situazione di questo tipo è difficile, anche se non impossibile, stabilire una comunicazione verbale utile, sia perché la allucinazione uditiva sovrasta le voci dei curanti sia perché il terrore è enorme.

A quel punto "abbracciare" il paziente, trattenendolo in modo fermo ma affettivo(vi è comunque il contatto tra corpi) con un comportamento di violenza minima teso solo ad evitare che si possa fare del male, accettare quindi la possibilità che possa colpire i curanti, che possa rompere qualche suppellettile, crea nei fatti una comunicazione extraverbale che associata alla somministrazione di una terapia farmacologia allucinolitica e ansiolitica, interrompe in pochissimo tempo la situazione di crisi, apre spesso la via alla comunicazione dell’angoscia, al pianto, costituisce un momento catartico utile all’istaurarsi o al confermare il rapporto terapeutico.

 

Tanto è diffusa la convinzione che tali mezzi siano consentiti che recentemente una ditta di Bologna ha inviato un depliant ai servizi psichiatrici per illustrare la bontà di tali "presidi medico chirurgici" da lei prodotti. Si richiamano qui gli articoli più rilevanti del Codice di Deontologia Medica Art. 30: "Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico nell’informarlo dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta...".

Art 31: "L’informazione a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto all’art. 9 allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di altri.

In caso di paziente ricoverato il medico deve raccogliere gli eventuali nominativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comunicazione dei dati sensibili".

Art. 9: "Il medico deve mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o che può conoscere in ragione della sua professione; deve, altresì, conservare il massimo riserbo sulle prestazioni professionali effettuate o programmate, nel rispetto dei principi che garantiscano la tutela della riservatezza. La rivelazione assume particolare gravità quando ne derivi profitto, proprio o altrui, o nocumento della persona o di altri. Costituiscono giusta causa di rivelazione, oltre alle inderogabili ottemperanze a specifiche norme legislative (referti, denunce, notifiche e certificazioni obbligatorie): la richiesta o l’autorizzazione da parte della persona assistita o del suo legale rappresentante, previa specifica informazione sulle conseguenze o sull’opportunità o meno della rivelazione stessa; l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute dell’interessato o di terzi, nel caso in cui l’interessato stesso non sia in grado di prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire o per incapacità di intendere e di volere; l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi, anche nel caso di diniego dell’interessato, ma previa autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali. La morte del paziente non esime il medico dall’obbligo del segreto. Il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su ciò che gli è stato confidato o è pervenuto a sua conoscenza nell’esercizio della professione. La cancellazione dall’albo non esime moralmente il medico dagli obblighi del presente articolo.

Art 34: Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso. Il medico ha l’obbligo di dare informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà, compatibilmente con l’età e con la capacità di comprensione, fermo restando il rispetto dei diritti del legale rappresentante; analogamente deve comportarsi di fronte a un maggiorenne infermo di mente".

 

Per una critica dell’applicazione della scriminante atipica dell’esercizio della professione medica vedi L. Grassi C. Nunziata, "Infermità di mente e disagio psichico nel sistema penale, pag. 158 e ss., Cedam, 2003. Si riportano qui le massime relative alle decisioni di primo e secondo grado sul c.d. caso Muccioli. Il Muccioli aveva sottoposto a dure forme di contenzione numerosi tossicodipendenti ricoverati presso la comunità terapeutica da lui gestita e, condannato in primo grado dal Tribunale di Rimini, è stato poi assolto dalla Corte d’Appello di Bologna. Il caso rende in modo estremamente evidente quanto sia contradditoria la giurisprudenza in materia:

 

"I delitti di sequestro di persona e di maltrattamenti, commessi in danno di tossicodipendenti sottoposti in comunità "chiusa" a programmi terapeutici inclusivi di restrizione della libertà e trattamenti vessatori, non sono scriminati dal consenso del ricoverato, poiché il consenso medesimo è invalido quando concerna la soppressione della libertà personale o limitazioni così gravi da sminuire in modo notevole la funzione sociale dell’individuo. Il consenso prestato a programmi terapeutici inclusivi di restrizioni della libertà e vessazioni configuranti i delitti di sequestro di persona e di maltrattamenti può essere revocato in qualsiasi momento, conservando il tossicodipendente la capacità di determinarsi validamente anche in corso di crisi di astinenza. I delitti di sequestro di persona e di maltrattamenti commessi nei confronti di ricoverati in comunità terapeutica "chiusa" non sono scriminati dallo stato di necessità( né dall’erronea supposizione di esso) di impedire a tossicodipendenti in fase di svezzamento di abbandonare la comunità, posto che il loro ritorno in ambiente libero non è di per sé foriero di conseguenze funeste, malgrado il nocumento alla salute e il danno alla società. Integra il delitto di sequestro di persona il trattenere con la forza soggetti tossicodipendenti, impedendo loro di allontanarsi dalla comunità terapeutica "chiusa" nella quale avevano accettato di entrare, a tal fine segregandoli in appositi locali e talvolta incatenandoli. (Tribunale di Rimini; sentenza 16 febbraio 1985.)

La decisione del Tribunale di Rimini viene ribaltata in appello: "Il delitto di sequestro di persona, commesso in danno di tossicodipendenti sottoposti in comunità "chiusa" a programmi terapeutici comprendenti la restrizione della libertà personale, è scriminato dal consenso ai programmi predetti anticipatamente prestato dal ricoverato all’atto di ammissione in comunità, quando la privazione della libertà non si protragga oltre il tempo strettamente necessario al recupero del soggetto, e non venga attuata con modalità tali (ad es. incatenamento o chiusura in ambienti indecorosi e malsani) da lederne la dignità di persona umana. Gli operatori di una comunità "chiusa", ove i tossicodipendenti vengono sottoposti a programmi terapeutici comprendenti la restrizione della libertà personale, non sono punibili per gli eccessi colposamente commessi nell’uso dei mezzi necessari a impedire che un ricoverato abbandoni la comunità con il dichiarato proposito di ricominciare a drogarsi (nella specie, incatenamento o chiusura in ambienti malsani), poiché il delitto di sequestro di persona non è punibile a titolo di colpa. Esercita un diritto-dovere e pertanto, alla stregua dell’art. 51 cod. pen., non risponde di sequestro di persona l’operatore di una comunità "chiusa", il quale rinchiuda a chiave dentro una stanza la tossicodipendente minorenne che abbia manifestato l’intenzione di abbandonare il luogo di ricovero al fine di prostituirsi per disporre dei soldi necessari all’acquisto di dosi di eroina...Nel fatto di chi, all’interno di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, sottopone a segregazione alcuni ospiti, per impedire loro di abbandonare la comunità e di tornare a far uso di stupefacenti, non ricorrono gli estremi del delitto di sequestro di persona. invero, ove la segregazione sia realizzata con mezzi non lesivi della personalità e della dignità sociale degli ospiti, il fatto è scriminato dal consenso prestato dai tossicodipendenti nel momento d’ingresso in comunità, nonché dallo stato di necessità in cui versa l’agente. ove, invece, la segregazione sia realizzata con modalità lesive della personalità e della dignità sociale degli ospiti, il fatto concreta un eccesso colposo in istato di necessità e, perciò ‘,non è punibile... "non è configurabile il delitto di sequestro di persona in danno di tossicodipendente volontariamente entrato in comunità terapeutica, con conseguente sorveglianza che non comporta soppressione della libertà personale. non ricorre il delitto previsto dall’art. 572 cod. pen. quando manchi l’elemento soggettivo consistente nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuo ed abituale ed ispirato ad una persistente malvagità. in tema di sequestro di persona non è punibile chi vi abbia preso parte quando ricorrano le cause di giustificazione del consenso dell’avente diritto, sia esso reale o putativo, oppure lo stato di necessità sotto il profilo dell’eccesso colposo"(Corte di Appello Bologna, 09/12/1987).

 

 

Si veda ad es. Trib. Venezia 11.10.2000, con la quale si condanna per diffamazione un medico che in un dibattito pubblico aveva criticato un collega affermando che nel suo reparto si legavano i pazienti "tutti i giorni", mentre in realtà ciò avveniva solo in modo episodico.

 

"Ai fini della configurazione del reato di sequestro di persona deve prescindersi dall’esistenza nell’offeso di una capacità volitiva di movimento e istintiva di percezione della privazione della libertà, per cui il delitto è ipotizzabile anche nei confronti di infermi di mente o di paralitici." (Cass. V,17 ottobre 1990, Il Foro Italiano, II, 1990, 549)

 

"Risponde di lesioni personali colpose a titolo di imprudenza generica, e quindi oltre i limiti sanciti per la colpa professionale, il medico incaricato dall’amministrazione penitenziaria che trascuri di far interrompere la contenzione di un detenuto il quale, dibattendosi violentemente in preda a crisi psicomotoria, procuri danni alla propria persona." (Cass IV, 19 dicembre 1979, Il Foro Italiano, 1980, 145-148);

"Rispondono del reato di violenza privata aggravata il direttore e gli agenti di custodia di manicomio giudiziario che attraverso l’uso indiscriminato, da loro disposto, accettato e comunque non impedito di psicofarmaci nonché del letto di contenzione abbiano, in assenza dei presupposti previsti espressamente da disposizioni di legge, costretto numerosi ricoverati a subire la relativa limitazione di libertà." (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere; 9 maggio 1978).

 

"Condizione essenziale per l’applicazione della scriminante è "l’imminenza di un pericolo grave alla persona non altrimenti scongiurabile che con l’atto penalmente illecito"(Cass. V 26.11.70) "di guisa che l’agente non abbia in quel momento altra scelta all’infuori di quella di subire (nel caso in esame di consentire che venga subito) il conseguente danno o di porre in essere l’azione che gli si imputa come reato e semprechè fra il pregiudizio temuto e l’azione di difesa sussista un giusto rapporto di proporzione" (Cass. IV 29.3.73).

La scriminante, ovviamente, "opera anche a favore di chi agisce sotto l’influenza dell’ erronea convinzione di trovarsi in stato di necessità pur se ne difettano i requisiti obiettivi" (Cass. I 6.4.70). Peraltro, in questo caso, deve trattarsi di errore "logicamente scusabile" (Cass. IV 2.12.69).

Questa concezione ha il pregio di poggiare su principi già ampiamente consolidati (come dimostrato fra l’altro dalla vetustà delle massime richiamate) e di ridurre alla misura minima necessaria e sufficiente la possibilità di contenzione dell’infermo.Immediatamente cessata la crisi, l’infermo deve poter tornare a godere della sua libertà e deve essere sottoposto ai normali trattamenti sanitari. Va solo aggiunto che il potere del personale sanitario di agire per stato di necessità nei termini e nei limiti ora detti, si risolve altresì in un dovere giuridico, se osservato dalla prospettiva dell’art. 51 c.p., in tutti i casi in cui ricorra in capo a detto personale un obbligo di garanzia.(L.Grassi C. Nunziata cit. pag.163)

 

Il pericolo o il danno alla persona sono, in questi casi; "altrimenti evitabili", cioè evitabili senza ricorrere ad un reato e l’applicabilità dell’art 54 c.p. è quindi esclusa.

 

Art. 591 c.p: "Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte." Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall’adottante o dall’adottato".

 

"Sussiste il reato di cui all’art. 591 del codice penale ove gli incapaci (nel caso di specie minorati psichici) di cui l’imputato abbia la custodia, o di cui debba avere cura, siano lasciati in balia di se stessi o di personale inidoneo (nel caso di specie nell’ambito di case di riposo inadeguate e prive dei requisiti igienici".( Cass. V 1.2.1993 n. 832)

 

 

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