Intervista ad Adolfo Ferraro

 

Intervista ad Adolfo Ferraro, direttore dell’Opg di Aversa

di Carlo Del Grande (per ecomancina.com)

 

Il luogo in cui ci troviamo non è un carcere, né può essere definito propriamente un ospedale, perché il ricovero non è volontario. Può dirci cos’è un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG)? Ed in cosa differisce dalle più comuni case circondariali?

Innanzitutto i soggetti in opg sono internati, e non detenuti (come avviene in un carcere), ovvero sia sottoposti ad una misura di sicurezza psichiatrica, in quanto giuridicamente ritenuti incapaci d’intendere e di volere e socialmente pericolosi nel momento in cui hanno commesso un’azione delittuosa. L’incapacità d’intendere, in senso psichiatrico forense, viene intesa come la valutazione nel soggetto della capacità di capire il valore o il disvalore dell’azione che si trasforma in delitto; l’incapacità di volere valuta invece la capacità di autodeterminarsi nell’evitamento o meno dell’azione delittuosa. Nel momento in cui sono presenti questi elementi di incapacità, viene riconosciuta nel reo una condizione di non imputabilità, quindi non viene applicata una pena, ma, appunto, una misura di sicurezza che può essere di due, cinque o dieci anni a seconda della gravità del reato commesso. Essa prevede un periodo di internamento all’interno di una struttura come l’opg, che non è un carcere in senso stretto per la presenza di questo tipo di ospiti con i consequenziali significati, e non è un ospedale in senso stretto perché non sempre c’è nel paziente, come dicevi, la volontà di essere internati. È una sorta di TSO (trattamento sanitario obbligatorio), come quelli che vengono messi in pratica nelle strutture psichiatriche del territorio, prolungato nel tempo finché non si riduce la pericolosità sociale del soggetto, ovvero la possibilità che questi possa ripetere lo stesso tipo di azione delittuosa per gli stessi motivi precedenti.

 

Quanti OPG ci sono in Italia?

Gli OPG in Italia sono 6. 5 fanno parte dell’Amministrazione Penitenziaria e sono Aversa (il più antico, fondato nel 1876, in provincia di Caserta), Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Montelupo Fiorentino (Firenze) e Reggio Emilia. Il sesto è a Castiglione delle Stiviere (Mantova), ma è una struttura dell’A.S.L. locale che ha da anni una onerosa convenzione con il Ministero della Giustizia e riceve un certo numero d’internati. In tutta Italia gli internati sono circa 1.200.

 

Avete problemi di sovraffollamento?

Ci sono strutture come quella di Napoli che sono molto piccole ed anguste perché la maggior parte di esse sono state recuperate da vecchi edifici nati con diversi scopi, come conventi, caserme di cavalleria, antichi palazzi nobiliari e simili. Questo di Aversa è sempre stato un OPG ed ha delle strutture organizzate ad evitare i rischi del sovraffollamento, che comunque è presente, in quanto vi sono alcuni reparti chiusi per ristrutturazione (saranno in funzione tra breve). In ogni caso, anche adesso, riusciamo a mantenere gli spazi vitali per ognuno degli internati.

 

In un OPG cura e pena sono gli elementi portanti: in che modo possono trovarsi in equilibrio? E, se così non fosse, su quale linea siete orientati qui?

L’idea che stiamo portando avanti da 6-7 anni è quella di uno spostamento verso l’aspetto sanitario rispetto a quello custodialistico del significato dell’istituto. Nell’ambiguità di fondo dell’istituzione il concetto di cura rispetto a quello di custodia tendono spesso a sovrapporsi, e sembra quasi che custodire rappresenti già di per sé una forma di cura, il che non è reale, o almeno non in senso stretto. È evidente che nell’ambito di questa condizione ambigua c’è la necessità di fare una scelta, che noi riteniamo essere quella di una sanitarizzazione dell’istituzione, primo passo verso un superamento concreto dell’istituzione così come veniva intesa: privilegiare quindi l’aspetto sanitario piuttosto che quello custodialistico e questo dev’essere realizzato non solo dando una formazione più completa alle figure sanitarie dell’istituto (infermieri, medici, vari consulenti, psichiatri), ma anche dandone una sanitaria agli altri operatori che lavorano nella struttura, compresa la polizia penitenziaria, che c’è e che, se formata adeguatamente, dà dei contributi che possono essere di supporto e di aiuto a quelli sanitari.

 

In un istituto di pena per così dire "comune" il personale è costituito per la maggior parte da guardie carcerarie. Chi si occupa della sicurezza in un OPG e che tipo di formazione ha?

La sicurezza dell’istituto viene affidata al corpo di polizia penitenziaria, ma è evidente che un poliziotto penitenziario che lavora in un carcere ha regole assolutamente diverse da quelle che vi sono in un OPG. Di ciò ci eravamo già resi conto in passato e questa consapevolezza ha acquisito maggiore consistenza negli ultimi anni, tanto che da circa 3 anni stiamo realizzando, con l’Istituto Superiore degli Studi Penitenziari (di competenza del Ministero della Giustizia), corsi periodici di formazione per polizia penitenziaria e non solo. I progetti sono finalizzati alla formazione della polizia penitenziaria che lavora in questi istituti, e fornisce conoscenze di natura giuridica ma anche sanitaria; ad esempio, 2 anni fa abbiamo promosso un corso di formazione, che chiamammo "Le ali ai letti", a cui hanno partecipato la polizia penitenziaria, gl’infermieri e i medici, e che ha portato all’eliminazione, all’interno della struttura, dei letti di contenzione: questo è un istituto in cui non si pratica la contenzione fisica, condizione che, c’è da dirlo, nei servizi di salute mentale territoriali è una prassi comune. Non condividiamo questo aspetto brutale del contenimento, anche se siamo consapevoli che esistono vari tipi di contenzione, dalla farmacologia alla psicologica, ecc. Il fatto è che non condividiamo tutto ciò che in qualche modo umilia il corpo . Siamo infine riusciti a fare sì che la polizia penitenziaria acquisisse delle conoscenze tali da potersi disporre, nei confronti di un paziente – nel momento di una sua crisi potenzialmente aggressiva –  in modo da non arrivare a produrre altre esasperazioni che inevitabilmente innestano catene di aggressività subita/espressa, tanto da arrivare alla fine alla necessità di ricorrere alla coercizione fisica del paziente. Se a monte riusciamo a far sì che si costruisca un approccio più sano, più tranquillizzante da parte degli operatori, non si arriva a questo. Ed è quello che sta succedendo ormai da un anno.

 

Si parla spesso (e giustamente) del disagio dei detenuti, ma anche operatori, agenti di polizia penitenziaria, e in generale tutta l’umanità che gravita attorno al mondo-carcere credo condivida, seppure in forme e per motivi diversi, il disagio del carcere. Vorrei sapere, in base alla Sua esperienza, quale sia la Sua impressione sulla vita quotidiana di queste persone.

Il disagio nella vita quotidiana c’è, inevitabilmente, perché per gli operatori che lavorano qui è sicuramente un lavoro duro, con pochi mezzi e spesso senza garanzie per nessuno, ed è per questo che in certe situazioni si sono raggiunti in passato – e si potrebbero raggiungere ancora – degli eccessi. Proprio perché un lavoro è più duro ti costringe ad assumere delle forme di autodifesa dalla brutalità e dalla violenza e ciò crea altra brutalità e violenza. Io credo che chi lavora in un OPG debba essere considerato un professionista e un professionista di per sé è uno che risolve i problemi. E per risolvere i problemi c’è soprattutto il bisogno di conoscerli. Il disagio dell’istituzione si supera nel momento in cui non esistono più comunicazioni errate tra medico-guardia-detenuto-internato-malato, in cui è chiaro a tutti, con una interpretazione sistemico-relazionale, che il comportamento di un elemento produce comportamenti di conseguenza da parte di altri elementi. Se c’è un tentativo di abbassare il livello di tensione, fatto attraverso formazione, conoscenza, colloquio, modalità espressive recepite, un certo tipo di tensione sicuramente si abbassa. Inoltre, nella consapevolezza che si deve riconoscere e gratificare il lavoro degli operatori, stiamo portando avanti proposte per cui chi lavora in un OPG possa avere degli incentivi economici maggiori rispetto a chi lavora negli istituti penitenziari carcerari. È importante, però, che tutti capiscano che si lavora per lo stesso scopo che è anche, giocosamente, quello di cambiare il mondo. Perché la possibilità di cambiare il mondo c’è, se cominciamo a cambiare noi stessi, naturalmente. Il che significa nel caso specifico anche apportare una sorta di "reingegnerizzazione": trasformare un oggetto in un altro oggetto di uguale importanza. Se diciamo: "Questo non è un carcere, ma è una struttura in cui si cura, si parla, ecc.," diamo altra importanza alla cosa ed allo stesso tempo motiviamo le persone che ci lavorano ad avere un ruolo, una figura, una gratificazione maggiore. I risultati si vedono. È chiaro che per ottenere ciò occorrono anni: all’inizio, anni fa, è stata molto dura, perché molti, soprattutto della polizia penitenziaria, erano convinti di lavorare in un carcere e non volevano spostarsi da questo concetto. Quella era la loro formazione basata sul concetto "non ho nessun bisogno di crescere, perché ciò che so mi basta". Riteniamo che in realtà c’è sempre da imparare e da studiare , ed a chi non aveva tale impostazione abbiamo chiesto di adattarsi o di andarsene. Una parte si è adattata, un’altra parte è andata via.

 

Che tipi di reato hanno compiuto le persone che si trovato in un OPG?

Il 46-47% dei soggetti internati qui hanno commesso un reato definito "bagattellare", cioè estremamente lieve, con periodi non superiori ai 2 anni d’internamento. La maggior parte dei reati sono "contro la persona", e per gran parte lievi come il maltrattamento in famiglia, ma vi sono soggetti che hanno commesso omicidi, anche molto gravi; ma sempre in relazione di una condizione psicopatologica di base.

 

Come si svolge una giornata-tipo di una persona che vive in un OPG.? Quali sono le attività volte alla guarigione/riabilitazione della persona?

Le stanze dei reparti sono aperte dalla mattina alle 7 fino alla sera alle 21/22.30, il 20% degli internati ha un’attività lavorativa interna, come pulire i giardini, trasportare merci e pacchi, e sono regolarmente retribuiti con un regolare stipendio: sono naturalmente i soggetti in migliori condizioni psichiche. Un’altra parte, circa il 40% è impegnato nelle cosiddette "attività trattamentali e riabilitative": queste attività tendono all’uso terapeutico di manifestazioni espressive e si tenta di superare l’azzeramento della personalità prodotto dalla malattia e dalla sua istituzionalizzazione. Si tratta di attività di vario impegno espressivo, che partono da quelle "più morbide" come l’Area Verde (spazio verde in cui gli animali presenti vengono accuditi dagli internati che partecipano a tale attività), passando per il Laboratorio di Colore (dove trovano spazio le capacità espressive in relazione all’uso del colore ), quello di Musicoterapia, fino ad arrivare allo psico-dramma, che è la tecnica terapeutica più impegnativa a causa del coinvolgimento emotivo che rende più dura l’esperienza. Molti nostri internati, ad esempio, vengono da una cultura contadina e recuperare le loro origini serve a recuperare loro stessi: l’Area Verde ha proprio questa funzione. Coltivare 8000 mq di terreno, riprendere contatto con gli animali che sono circa 400, di cui alcune specie in via di estinzione forniteci da WWF e dalla Legambiente, permette di farli riavvicinare alle cose che avevano e che sanno riconoscere. In istituto sono internati, ad esempio, dei soggetti che provengono dalla Sardegna, e che erano pastori: avere delle pecore, ritrovare il gregge, tosarle, parlarci perfino, serve a farli riavvicinare a qualcosa che avevano perso.

 

Cosa accade una volta scontata "la pena"? La persona può tornare a casa, ad una vita per così dire "normale"?

Quando termina la misura di sicurezza si va a rivalutare la pericolosità sociale, cioè ci si accerta che il soggetto sia in condizione di poter evitare per il futuro atti delittuosi, basandosi non solo sulle condizioni psichiche, ma anche sulle strutture su cui possono contare; molte volte la dimissione però non è possibile, in quanto noi cerchiamo di curare, mentre guarire può essere decisamente più complesso ed a volte impossibile. Quando cioè, alla scadenza della misura, ci sono delle strutture sociali (familiari, il Servizio Sanitario Nazionale, strutture di accoglienza o comunità) che possono farsi carico del soggetto nel seguirlo e curarlo, non vi sono problemi alla dimissione. Quando questo non accade il magistrato di sorveglianza, da cui giuridicamente dipende l’internato, è costretto a prorogare la misura di sicurezza. È un’azione dolorosissima, che tra l’altro crea un ingorgo enorme all’interno degli OPG. Noi abbiamo circa il 40% degl’internati che sono in proroga di misura di sicurezza che potrebbero tranquillamente uscire da qui oggi stesso, ma fuori non c’è nessuno che li accolga. Noi li sistemiamo in reparti particolari, senza polizia penitenziaria, in cui si autogestiscono e cercano di vivere, per quanto possibile, una situazione da liberi. Però, fin quando i servizi non sono in grado di stabilire un piano d’azione, l’ingorgo si crea. Per eliminarlo, già da 2-3 anni, abbiamo iniziato a proporre all’Assessorato Regionale Campano (ma recentemente se n’è firmato uno anche con l’Abruzzo) per l’organizzazione di protocolli d’intesa con i servizi di salute mentale dei vari territori nazionali: nel momento in cui l’internato appartenente ad un dipartimento di salute mentale arriva nel nostro istituto, noi avvertiamo quel dipartimento e creiamo un’equipe mista (psichiatri interni ed esterni all’OPG), che segue l’andamento del paziente all’interno della struttura e lo accompagna anche fuori, in strutture preparate dove può essere alloggiato e seguito. Il punto doloroso è che non tutti i dipartimenti di salute mentale sono pronti a questo: su 13 ASL della Campania, solo 3 hanno firmato i protocolli d’intesa. Le altre si sono defilate.

 

Vorrei alcune Sue considerazioni su un aspetto particolare del "mondo carcere" (sempre riferito alla dimensione "particolare" degli OPG): il volontariato.

Negli ultimi anni entra nell’OPG una quantità di persone a cui prima l’ingresso era interdetto, e tra questi i volontari (ma anche i tirocinanti in psicologia, gli specializzandi in psichiatria, laureandi in varie branche etc. ), persone dotate delle giuste competenze: molti lavorano all’interno dell’OPG, molti altri all’esterno. A proposito di questi ultimi, è indicativo il progetto che stiamo conducendo con la locale Caritas che sta organizzando alloggi esterni, in vicinanza dell’OPG, per ospitare gl’internati quando escono o i loro parenti che vengono in visita.

 

Lei, che è all’interno di una realtà carceraria, vedrà certamente dei problemi e delle disfunzioni. Non crede che parlandone di più si potrebbero affrontare con maggiore efficacia? Perché, secondo Lei, si parla così poco di questo mondo?

Credo che se ne parli troppo poco perché questo è uno scheletro nell’armadio, utilizzabile solo se l’ambiguità di fondo permane. Così l’OPG mantiene la funzione di una specie di contenitore per tutti i fallimenti della psichiatria e della giustizia, garantendo che nel momento in cui ci sono necessità di liberarsi di sensi di colpa collettivi, l’OPG funge da spauracchio da tirar fuori al momento giusto. E questa è una condizione a cui non ci vogliamo adattare, non fosse altro che per tutelare i soggetti che qui sono internati. Le nostre iniziative (dal sito www.opgaversa.it, ai convegni di studio, alla sensibilizzazione dei giovani che vengono in istituto a studiare e a formarsi) lo dimostrano. Credo che se si riuscisse a comprendere meglio il linguaggio della malattia mentale, molta gente qui dentro non ci arriverebbe. Riteniamo che l’OPG è una struttura che deve essere superata inevitabilmente e che devono essere reinserite nel tessuto sociale le persone che inutilmente sono qui internate. Così dei 1200 internati attualmente presenti in tutti gli opg di Italia, ne rimarrebbero al massimo 200 di soggetti realmente pericolosi. È un passo da fare con molta calma, perché ritengo che la eventuale chiusura brusca di queste strutture non risolverebbe il problema, ma ne creerebbe altri. Per risolvere il "problema OPG", bisogna capire chi deve stare realmente qui dentro: su un numero ridotto di persone avremmo maggiore e migliore possibilità di prenderle in carico, viceversa diventa molto più difficile svolgere un ruolo ed una funzione che compete alla struttura.

 

 

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