Psichiatria e carcere

 

La carriera del "folle" autore di reato

 

Fino all'entrata in vigore della legge 13 maggio 1978 n. 180, l'assistenza psichiatrica era regolata da un corpo di leggi che si trovavano raccolte in una pubblicazione dal titolo "Disposizioni e regolamento sui manicomi e sugli alienati".

Di tale corpo legislativo facevano parte:

 

la legge 14 febbraio 1904, n. 36 "Disposizioni sui manicomi e sugli alienati";

il Regio Decreto 16 agosto 1909, n. 615 "Regolamento sui manicomi e sugli alienati";

il Decreto Luogotenenziale 25 maggio 1916, n. 704 "Modificazione degli artt. 2 della l. 14/2/1904, nn. 86 e 49 del relativo regolamento approvato con R.D. 16/8/1909 n. 615, sui manicomi e sugli alienati";

il Decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 1961, n. 249 "Disposizioni relative agli enti operanti nel settore sanitario";

la legge 18 marzo 1968, n. 431"Provvidenze per l'assistenza psichiatrica".

Il termine alienazione, che si usava per definire la malattia mentale, rispecchiava il modo di considerare il malato come un individuo estraneo e pericoloso per la società. Compito dello psichiatra era quello di individuare, descrivere e classificare i sintomi dei soggetti inseriti nei manicomi, istituzioni volute per difendere la parte sana della popolazione.

Nel 1968 entra in vigore un primo intervento legislativo che restituisce al malato di mente una parte dei suoi diritti di malato e di cittadino. Questa legge, infatti, ha rappresentato il primo tentativo di collocare gli interventi nei confronti della malattia mentale su un piano diverso da quello di pura difesa sociale, avvicinando sempre più i soggetti malati di mente alle risorse terapeutiche della società, mediante la rivalutazione dei concetti di prevenzione e di cura, l'introduzione del ricovero volontario nell'Ospedale Psichiatrico, la possibilità di convertire il ricovero coattivo in ricovero volontario, e l'istituzione in ogni provincia dei Centri di Igiene Mentale.

Nel 1978 poi, con il contributo determinante della cosiddetta antipsichiatria, fu promulgata la famosa legge 180. La psichiatria già da diversi anni stava attraversando una fase di profonda crisi che l'avrebbe portata a posizioni estremistiche e radicali, connotate dalla prevalenza dei risvolti sociali su quelli clinico-biologici. Parallelamente si assiste all'affermarsi della corrente antipsichiatrica che nega l'esistenza stessa della malattia mentale. Il malato viene identificato come vittima del sistema,

come capro espiatorio o paziente designato dal gruppo familiare o sociale. Si passa così dalla "medicalizzazione" del problema sofferenza mentale, sancita con la legge francese del 1838, alla "depsichiatrizzazione" e, in altri termini alla "sociologizzazione" della malattia mentale che viene quindi svuotata di ogni essenza patologica.

In questo contesto rivoluzionario nasce la grande riforma del 1978, operata dalle leggi n. 180 e n. 833 del 23/12/1978, leggi rispettivamente istitutive degli Accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed obbligatori per malattia mentale e del Servizio Sanitario Nazionale.

La l. 180 contiene indubbiamente aspetti innovativi e lodevoli: anzitutto la legislazione psichiatrica si trasforma da custodialistica e coercitiva a terapeutico-riabilitativa.

Il suo fine principale non è più quello di emarginare il malato, ma quello di tutelarne la dignità di uomo sofferente e il rispetto del suo diritto alla salute. E questa era l'esigenza maggiormente sentita dall'opinione pubblica e dagli operatori psichiatrici dopo oltre settanta anni di politica custodialistica.

In secondo luogo, la riforma psichiatrica sancisce la parificazione tra l'infermo fisico e l'infermo di mente, cui finalmente la legge fornisce la possibilità di essere ricoverato non più nel ghetto dell'istituzione psichiatrica, bensì all'interno della struttura ospedaliera pubblica che diventa luogo di cura e di degenza non solo per il malato fisico ma anche per quello di mente.

Inoltre la l. 180 si caratterizza, sotto il profilo del rispetto per i diritti umani e civili, per l'abolizione del concetto di pericolosità che fino al '78 era insito nella malattia mentale e che aveva portato fin dal 1904 ad aberrazioni quali l'internamento definitivo e la perdita dei diritti civili, che tanto avevano contribuito ad avvicinare l'alienato al criminale. Ma il punto cardine della 180 riguarda il cosiddetto T.S.O (Trattamento Sanitario Obbligatorio).

Con la riforma scompare definitivamente il ricovero coatto stabilito sulla base di un unico certificato medico attestante la pericolosità dell'infermo ed attuato grazie all'intervento dell'Autorità di Pubblica Sicurezza, cui faceva seguito su intervento del Magistrato, il procedimento giudiziario finalizzato all'internamento definitivo del malato con relativa perdita della sua capacità di agire. "Con la nuova legge il malato di mente passa dalla gestione giudiziaria alla gestione sanitaria".

Il T.S.O., infatti, proposto dal medico curante e convalidato dalla struttura psichiatrica pubblica viene autorizzato dal Sindaco. Esso, inoltre, si rende attuabile solo in casi eccezionali, allorché "...esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici che non vengano accettati dall'infermo e soltanto nel caso non vi siano le condizioni e le circostanze che consentono di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere..." ( art. 2 l. 180).

Il ricovero in T.S.O. può avere una durata di soli 7 giorni e solo in casi limite tale periodo può essere prolungato su proposta del medico responsabile del servizio psichiatrico, che deve essere convalidata da apposita ordinanza del sindaco. Esso può avvenire solo nei Servizi di Diagnosi e Cura (SPDC) ubicati all'interno degli Ospedali generali.

Ma la grande riforma psichiatrica si caratterizza oltre che per gli indubbi aspetti innovativi e decisamente positivi in funzione della tutela dei diritti morali e civili del malato di mente, anche per le diverse incongruità e carenze giuridiche che si sono evidenziate sin dall'entrata in vigore della legge e che sono state oggetto di emendamenti proposti nelle varie legislature parlamentari.

Una delle maggiori critiche è rivolta al potere politico regionale che, di fatto, ha ritardato i tempi di attuazione pratica del dettato legislativo e, in parte anche allo Stato che ha permesso l'entrata in vigore della legge senza prima avere istituito una efficiente rete di servizi psichiatrici territoriali. Le tanto auspicate strutture intermedie, infatti, o non esistono o sono carenti per capacità recettiva e non uniformemente dislocate sul territorio nazionale.

L'assetto normativo contenuto nella l. 180, ribadito alcuni mesi più tardi dalla legge di riforma del Servizio Sanitario, ha creato non poco sconcerto nell'opinione pubblica, ingenerando una situazione di allarme, su due fronti.

Da un lato, anche sotto la spinta di enfatizzazioni da parte dei mass media di episodi criminosi che vedevano coinvolti malati di mente, si è assistito ad un aumento della reazione sociale nei confronti della follia e ad un aumento dei timori nei confronti del folle delinquente. Dall'altro, non è stato difficile per le famiglie dei soggetti malati di mente rendersi conto, immediatamente, degli enormi problemi che si profilavano all'orizzonte, e che il peso più grosso delle storture di questa legge lo avrebbero sopportato proprio loro.

Ma c'è un altro aspetto sconcertante della l. 180 su cui credo vada focalizzata la nostra attenzione: i limiti insiti nel T.S.O.

A parte il fatto che "esso sembra avere un iter troppo macchinoso, che nella prassi si scontra con l'esigenza di un pronto intervento spesso non attuabile proprio in attesa dell'espletamento delle pratiche burocratiche, con conseguente danno del malato stesso, a parte questo ciò che è ancora più assurdo è l'estrema brevità del ricovero in T.S.O. Può essere sufficiente un periodo di 7 giorni per risolvere una crisi psicotica acuta? Certamente si può accelerare il processo di remissione della sintomatologia grazie all'uso massiccio di psicofarmaci neurolettici, ma l'esaurimento della fase psicotica richiede un periodo ben più lungo".

Sono frequenti, infatti, i casi di soggetti con alterazioni psichiche che vengono dimessi in condizione di lieve miglioramento comportamentale ma ancora in fase instabile ed oltretutto gravemente impregnati dall'iperdosaggio degli psicofarmaci.

È pur vero che il malato dimesso dal servizio di diagnosi e cura viene, in genere, avviato ai servizi ambulatoriali, ma è risaputo anche come essi siano penosamente carenti e non in grado di fronteggiare l'esigenza di una seria ed adeguata programmazione terapeutica. Tant'è che spesso il malato dimesso dagli SPDC rimane senza una valida assistenza e, spinto anche dalle tensioni che si creano nel gruppo familiare, facilmente e rapidamente ricade nella fase acuta tanto da rendere necessario un nuovo ricovero in T.S.O.

Non solo. Molte persone sofferenti di un disagio psichico, private di ogni possibilità di contenimento sul territorio, finiscono per commettere quei reati per i quali la legge prevede la pena del carcere o la misura di sicurezza dell'O.P.G.

Infatti, essendo rimasta in vigore la legislazione sui manicomi giudiziari, essi restano le uniche istituzioni totalizzanti, assieme al carcere e, nella pratica, hanno finito per assumere una funzione vicaria nei confronti delle inesistenti istituzioni terapeutiche per questo tipo di soggetti.

Se si tratta di reati minori, essi verranno portati in carcere dove sconteranno una pena breve, ma dove sarà difficile che ricevano cure adeguate per uscire con gli stessi problemi di prima e ricominciare tutto da capo.

Per i reati più gravi si aprono le porte dell'O.P.G. Oggigiorno, comunque, si ricorre a questa misura di sicurezza con sempre minor facilità, sia da parte della magistratura che da parte dei difensori, i quali richiedono la incapacità di intendere e di volere e quindi la non imputabilità, solo in presenza di un reato davvero grave. Negli altri casi, spesso, il difensore imposta la difesa del proprio cliente ritenendo preferibile accettare a carico di questo una condanna di breve durata alla detenzione in carcere piuttosto che la misura di sicurezza dell'O.P.G. dove si sa quando un soggetto entra, ma non quando esce, senza che una seria motivazione suffraghi la istituzionalizzazione.

Come accennavo prima, però, tutto ciò comporta il rischio che queste persone, sofferenti di un disagio psichico, entrino ed escano dal carcere senza essere curate. È evidente che il carcere sta ormai svolgendo una funzione vicaria rispetto ad altre strutture. I percorsi che questi soggetti si trovano a compiere non sempre sono i più adatti alla loro situazione di sofferenti psichici.

Ma quali percorsi giudiziari e detentivi devono affrontare il "folle-reo" e il "reo-folle"?

In alcuni casi, ciò che porta un soggetto in carcere è proprio il disturbo psichico. Le manifestazioni psicopatologiche di esso, infatti, possono esplicitarsi sul piano del comportamento attraverso condotte individuate dalla legge come reati. Il "folle", in questo caso, diventa "folle-reo".

Il percorso inverso a questo appena descritto è quello del soggetto "normale" che commette un reato. La reazione all'evento carcerario che questo soggetto elabora, può non essere abbastanza forte da impedire una sofferenza o un disturbo della personalità che, già gravi di per sé, non raramente si trasformano in un disturbo psichico vero e proprio. Il reo acquisisce così la nuova identità di "reo-folle".

 

2.1. L'infermità psichica nel detenuto in attesa di giudizio

 

L'indagine sull'imputato la cui condotta è stata causata in tutto (vizio totale di mente) o in gran parte (vizio parziale di mente) da patologia, inizia con l'accertamento della pericolosità sociale (artt. 203 e 222 c.p.) che costituisce una prognosi di futuro comportamento delittuoso per la quale non vale alcuna presunzione. Questo principio è stato sancito dall'art. 31 della legge 663/86 che, abrogando l'art. 204 c.p. (pericolosità sociale presunta), ha di fatto imposto l'accertamento caso per caso. Pertanto, se l'autore di reato è prosciolto per vizio totale di mente, ha il diritto di non subire le misure di sicurezza senza il previo accertamento tecnico.

Per il caso di sopravvenuta infermità e quando la situazione processuale consente gli arresti domiciliari (art. 284 CPP) si deve eventualmente accertare se l'imputato versi in tali condizioni di salute mentale da essere autorizzato a soggiornare in un "luogo pubblico di cura e di assistenza". Del pari, anche la custodia cautelare in carcere (art. 285 CPP) può essere sostituita dalla custodia cautelare in luogo di cura (art. 286 CPP) se l'imputato "si trova in tale stato di mente che ne esclude o ne diminuisce grandemente la capacità d'intendere e di volere [85c.p.]". In tale ipotesi la "custodia" diventa "ricovero provvisorio in idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero [73 CPP]", con i provvedimenti necessari per "prevenire il pericolo di fuga". Il ricovero non può essere mantenuto quando risulta che l'imputato non è più infermo di mente.

Gli articoli 286 e 73 del nuovo CPP recepiscono il diverso approccio alla sofferenza psichica che la giurisprudenza era venuta introducendo rispetto al precedente codice di procedura penale del 1930.

L'innovazione consiste in una miglior tutela degli interessi e dei diritti del sofferente psichico, nel momento in cui lo spazio preposto ad accoglierlo, da rigido contenitore strutturato su esigenze custodiali, come sono il carcere e l'O.P.G., diviene un contenitore più elastico, il reparto psichiatrico dell'ospedale civile, che sebbene mantenga prerogative di contenimento, appare comunque più idoneo privilegiando le esigenze terapeutiche del soggetto in questione. Tutto ciò rispecchia le modificazioni sociali e culturali che si sono venute a creare nel nostro paese dopo l'introduzione della legge 180/78.

Nell'art. 286 CPP, l'attenzione si dirige verso l'infermità psichica attuale, per determinare la quale occorre riferirsi all'esclusione o alla diminuzione della capacità d'intendere e di volere del soggetto, a prescindere dalla circostanza che queste siano anteriori o successive al reato. L'attenzione si orienta anche sulle modalità d'intervento (la custodia in ospedale, ad esempio) che permettono di coniugare sufficientemente gli aspetti terapeutici con quelli cautelari.

Ritornando nell'ambito clinico penitenziario, ogni volta che lo psichiatra è chiamato ad intervenire, se ravvisa la presenza di un disturbo psichico importante, in specie se di tipo psicotico, dovrà adottare tempestivamente misure terapeutiche e trattamentali. Dovrà inoltre informare, attraverso una relazione psichiatrica, la Direzione e l'Autorità Giudiziaria competente (il GIP e il PM nella fase delle indagini preliminari, il Magistrato giudicante nella fase dibattimentale) sulla precarietà delle attuali condizioni psichiche del detenuto in attesa di giudizio; ciò per consentire che si valuti quali iniziative adottare a tutela degli interessi dell'imputato affetto da patologia psichica. Può, per esempio, essere disposta dal giudice durante la fase preliminare o dibattimentale, anche su richiesta del PM e dell'avvocato difensore, una perizia psichiatrica per valutare le condizioni psichiche dell'imputato al momento del reato e per accertarne quindi l'imputabilità. La perizia può essere disposta dal giudice delle indagini preliminari (art. 70 CPP), "quando non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere e vi è ragione di ritenere che, per infermità mentale, l'imputato non è in grado di partecipare coscientemente al processo [...]".

Il legislatore con questo articolo cerca di tutelare la capacità di difesa dell'imputato, accertando se quest'ultimo possa consapevolmente far valere i suoi diritti e agire con facoltà all'interno dei vari gradi del procedimento penale. Se, a seguito degli accertamenti previsti dall'art. 70 CPP, l'imputato non risulta in grado di partecipare al processo a cagione del suo stato mentale, il giudice dispone la sospensione del procedimento penale (art. 71 CPP) con provvedimento cautelare di affidamento al servizio psichiatrico secondo le norme di cui alle leggi 180/78 e 833/78 (art. 73 CPP), salvo revoca dell'ordinanza di sospensione non appena risulti "che lo stato mentale dell'imputato ne consente la cosciente partecipazione al procedimento" (art. 72 CPP). La sospensione del procedimento acquisisce delle finalità protettive e di tutela che non erano contemplate nell'art. 88 del vecchio CPP (articolo già abrogato, peraltro, prima della promulgazione del nuovo CPP). Infatti, da una parte la nomina di un curatore speciale, e dall'altra l'obbligo del giudice di disporre accertamenti peritali dopo un intervallo di 6 mesi, e anche prima se ne ravvisi l'esigenza, per verificare le condizioni psichiche dell'imputato e per poter quindi revocare l'ordinanza di sospensione (art.72 CPP) quando ne sussistano le condizioni, impediscono che, con il protrarsi della infermità, tali soggetti divengano eterni imputati, rimanendo, "per inerzia degli organi amministrativi e giudiziari, custoditi in OPG per tempi assurdamente lunghi a procedimento sospeso". L'art. 88 del vecchio CPP, infatti, prevedeva nel caso di infermità mentale sopravvenuta durante il giudizio, l'invio preferenziale dell'imputato presso l'OPG.

L'art. 73 sui provvedimenti cautelari, introduce due importanti innovazioni, che sanciscono entrambe la necessità, segnalata dalla giurisprudenza, di adeguare, almeno parzialmente, gli interventi e i provvedimenti riguardanti il reo-folle a quelli previsti dagli orientamenti attuali dell'assistenza psichiatrica nell'ambito del SSN.

Di queste modificazioni, la prima riguarda l'individuazione di chi abbia competenza a richiedere il ricovero dell'imputato affetto da patologia mentale presso un servizio psichiatrico di diagnosi e cura. Tale competenza, sottratta in parte al giudice, è stata restituita all'autorità preposta all'adozione delle misure previste dalle leggi sul trattamento sanitario per malattie mentali, cioè all'autorità sanitaria. Soltanto "qualora vi sia pericolo nel ritardo, il giudice dispone anche d'ufficio il ricovero provvisorio dell'imputato in un'idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero" ( art. 73, 2ºc. CPP).

L'individuazione del Servizio Psichiatrico come luogo idoneo ad accogliere il reo-folle, rappresenta la seconda importante innovazione. È ormai opinione condivisa che l'internamento in OPG di molteplici categorie di persone, con diverse condizioni di "infermità mentale", e quindi diverse posizioni giuridiche che determinano l'adozione di provvedimenti differenziati - per citarne solo alcuni: il ricovero dopo proscioglimento per vizio totale o parziale di mente (artt. 222 e 219 CP), l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza detentive (art. 206 CP), l'internamento per osservazione psichiatrica (art. 99 D.P.R. 431 del1976) o per infermità psichica sopravvenuta nel condannato (art. 148 CP) - ha fatto perdere in buona parte, a quella struttura, la valenza curativa sulla quale doveva fondarsi il progetto riabilitativo del reo-folle, consentendole invece di conservare, in qualità di istituzione totale, la funzione di custodia e di protezione sociale.

Il ricovero in ambiente psichiatrico ospedaliero civile, inoltre, impedisce la separazione del detenuto sofferente psichico dai servizi territoriali (cosa che inevitabilmente accadeva e accade con l'invio in OPG), stimolando il soggetto a partecipare in maniera attiva e volontaria alla costruzione di programmi terapeutici mirati, anche allo scopo di fare evolvere in modo favorevole la posizione giuridico-detentiva.

Tuttavia, l'auspicata e prevista connessione con il servizio psichiatrico esterno (art. 11 Ordinamento Penitenziario, art. 100 Regolamento di esecuzione, regola n. 22 dell'ONU) sembra ancora incerta e non sufficientemente organizzata.

Gli operatori penitenziari si lamentano delle grosse difficoltà che incontrano nel ricostruire la storia personale di un soggetto e gli eventi che ne hanno determinato la detenzione, nel reperire all'esterno in tempo utile informazioni sui pazienti detenuti, non solo presso i servizi psichiatrici e i familiari, ma anche presso l'Autorità giudiziaria competente. Tali difficoltà sono rappresentate sia da problemi di natura amministrativa (tutte le comunicazioni ufficiali, comprese le richieste di notizie ai servizi sanitari esterni, devono essere preventivamente autorizzate dalla Direzione di Istituto), che da un frequente atteggiamento di disinteresse dei servizi psichiatrici competenti verso questi pazienti, che comunque risultano "impegnativi" per il carattere problematico della loro presa in carico.

Si potrebbe dire che,

a causa della scarsa efficienza del contenitore terapeutico esterno nel gestire la sofferenza psichica del paziente, soprattutto quando questa si esprime attraverso l'emergente e diffusa patologia del comportamento, tale compito viene demandato al contenitore carcere, che paradossalmente, gioca un ruolo positivo nel limitare e contenere le forti tendenze distruttive altrimenti incontrollabili.

Jannucci fa notare che quando vengono effettuati ricoveri esterni, in strutture psichiatriche ospedaliere, di pazienti affetti da gravi alterazioni psicopatologiche, disposti in via di assoluta urgenza in base all'articolo 17 del Regolamento di Esecuzione dell'Ordinamento Penitenziario, o in base all'art. 73 del CPP, la durata della degenza è in genere molto breve, con relativo rientro del paziente in carcere, non ha causa di un effettivo miglioramento dei disturbi psichici ottenuto per mezzo di adeguati interventi terapeutici, ma per una diversa valutazione diagnostica che sembrava non rendere più attuale e necessario il ricovero stesso. La tendenza a minimizzare l'entità dei disturbi psichici del paziente-detenuto ricoverato in un reparto ospedaliero civile, risponde all'esigenza degli psichiatri "esterni" di liberarsi da una presenza "ingombrante", sia perché il paziente occupa comunque un posto letto in un reparto che come sappiamo è penalizzato dalla scarsità di posti disponibili e dalla loro alta utilizzazione, sia perché egli viene in genere piantonato durante il ricovero all'esterno, e la presenza del personale di Polizia Penitenziaria viene spesso avvertita come intrusiva dagli operatori sanitari del reparto.

Anche l'Amministrazione Penitenziaria, comunque, manifesta un'indubbia tendenza a evitare i ricoveri presso i reparti ospedalieri psichiatrici civili, preferendo invece, anche attraverso un esteso ricorso all'applicazione dell'art. 99 del Reg. di Esec., internare anche provvisoriamente i pazienti psichiatrici negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e nelle Case di cura e Custodia. L'Amministrazione, in questo modo, viene ad essere sollevata dall'incarico di organizzare il servizio di piantonamento, che impegnerebbe un discreto numero di agenti, distogliendoli dalle loro mansioni all'interno del carcere.

Sempre in rapporto all'imputabilità va considerato un ultimo caso, quello di chi abusa di sostanze alcoliche e stupefacenti cui si riferiscono gli artt. 91, 92, 93, 94, 95 c.p. per i quali si devono differenziare le sindromi acute dalle sindromi abituali e dalle sindromi croniche, con una differenza fra psicopatologia clinica e psicopatologia forense, perché la forma cronica (art. 95 c.p.) assume rilievo ai fini penali solo se e quando sopprime (art. 88 c.p.) o riduce grandemente (art. 89 c.p.) la capacità d'intendere e di volere al momento del fatto. È inoltre da considerare che, per il clinico, l'intossicazione "abituale" è già intossicazione "cronica", mentre ai fini penali essa è definita come quella di colui che è dedito alle sostanze d'abuso ed è in frequente stato di intossicazione, ma non è ancora pervenuto ad uno stadio psicopatologico significativo.

L'art. 90 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti (d.p.r. 9 ottobre 1990) prevede la sospensione dell'esecuzione della pena nei confronti di persona condannata ad una pena detentiva non superiore ai 4 anni, per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente. Tale sospensione è disposta dal Tribunale di sorveglianza qualora accerti che la persona si è sottoposta o ha in corso un programma terapeutico e socio-riabilitativo.

L'art. 94 dello stesso t.u. stabilisce che, se la pena detentiva, inflitta nel limite di 4 anni o ancora da scontare nella stessa misura, deve essere eseguita nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi, l'interessato può chiedere in ogni momento di essere affidato in prova al servizio sociale, per proseguire o intraprendere l'attività terapeutica sulla base di un programma da lui concordato con una unità sanitaria locale o con uno degli enti previsti dall'art. 115 o privati.

Qualora la pena detentiva nei confronti di persona condannata per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza, non possa essere sospesa o convertita in affidamento in prova, essa deve essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi (art. 95, t.u. 9/10/90).

Infine, chi si trova in stato di custodia cautelare o di espiazione di pena per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza o sia ritenuto dall'autorità sanitaria abitualmente dedito all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o che comunque abbia problemi di tossicodipendenza ha diritto di ricevere le cure mediche e l'assistenza necessaria all'interno degli istituti carcerari a scopo di riabilitazione. A ciò provvedono le unità sanitarie locali, d'intesa con gli istituti di prevenzione e pena ed in collaborazione con i servizi sanitari interni dei medesimi istituti (art. 96 t.u. 9/10/90).

 

2.2. L'infermità psichica nel detenuto condannato o internato

 

L'art. 11 della legge 354/75 oltre a stabilire che il servizio sanitario degli istituti penitenziari deve disporre dell'opera di almeno uno specialista in psichiatria, aggiunge che "nel caso di sospetto di malattia psichica sono adottati senza indugio i provvedimenti del caso, col rispetto delle norme concernenti l'assistenza psichiatrica e la sanità mentale".

L'art. 148 del c.p. prevede il caso della infermità psichica sopravvenuta al condannato, stabilendo che "se, prima dell'esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale o durante l'esecuzione, sopravviene al condannato una infermità psichica, il giudice, qualora ritenga che l'infermità sia tale da impedire l'esecuzione della pena, ordina che questa sia differita o sospesa o che il condannato sia ricoverato in un ospedale psichiatrico giudiziario ovvero in una casa di cura e custodia. [...]".

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 146/1975, ha poi dichiarato l'illegittimità dell'art. 148 c.p. nella parte in cui prevede la sospensione della pena nei casi di ricovero nelle strutture di cui sopra. Ne consegue che il periodo di ricovero rientra nel computo della pena.

L'art. 99 del D.P.R. 431/76 (Regolamento di esecuzione della legge 354/75), stabilisce che l'accertamento delle infermità psichiche sopravvenute nei condannati è disposto dal magistrato di sorveglianza ed è espletato nel medesimo istituto in cui il soggetto si trova o in un altro della medesima categoria o, per motivi particolari, presso un O.P.G. o una casa di cura e custodia o in un istituto o sezione per infermi o minorati psichici ovvero presso un ospedale civile con le forme previste dagli artt. 6-8 della legge 180/78 e dagli artt. 34 e 64 della legge 833/78.

Per l'infermità sopraggiunta in persona sottoposta a misura di sicurezza vale la norma di cui all'art. 212 c.p. e per quanto concerne la pericolosità sociale eventualmente accertata ai sensi dell'art. 203 c.p. è previsto il riesame di essa (art. 208 c.p.), poiché cessazione della pericolosità non equivale a cessazione della causa psicopatologica di essa, bastando in tal caso una modificazione o un'attenuazione del disturbo mentale.

In pratica, quindi, ai condannati a pena superiore a tre anni ai quali sopravvenga un'infermità psichica, si applica l'art. 148 c.p. che prevede il ricovero in O.P.G. o in casa di cura e custodia. Per i condannati a pena inferiore a tre anni, non esistendo più il manicomio civile cui si riferisce ancora il predetto articolo, si ricorre al servizio psichiatrico della struttura pubblica. L'accesso a questa è però subordinato all'ipotesi di cui all'art. 47 ter della legge 354/75 che limita la detenzione domiciliare, quando la pena della reclusione non supera i tre anni, riservandola, fra gli altri, a coloro che per le condizioni di salute particolarmente gravi in cui si trovano, richiedono costanti contatti con i presidi sanitari territoriali.

Tutto ciò, se da un lato è l'ennesima conferma di una maggiore attenzione (teorica) alla salute mentale del condannato, dall'altro ci mostra che le misure alternative con finalità di cura sono spesso subordinate alla durata della pena per cui, a parità di disturbo mentale, il condannato può fruire o meno di cure adeguate. Ciò a causa di un conflitto che viene a crearsi fra il diritto dell'individuo alle cure e il dovere del sistema penale di subordinare quel diritto al grado di minaccia sociale desumibile dalla gravità del reato, la cui misura è indicata dal periodo di detenzione stabilito con la sentenza.

Il problema tecnico dell'individuazione della malattia mentale e della pericolosità sociale è meno complesso nel condannato di quanto non lo sia nell'imputato in attesa di giudizio. Nel primo è meno difficile ricostruire la progressione lenta e cronica del disturbo mentale, provocato da almeno qualche anno di detenzione. Nel secondo invece non solo si tratta spesso di comportamenti ricattatori, ma altrettanto spesso si tratta di reazioni psicogene, causate dal brusco passaggio dalla libertà alla detenzione, dal faticoso adattamento ad uno stile di vita "innaturale", dalla stressante attesa del processo e dell'esito del medesimo.

 

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