La "terza via" della Caritas

 

Immigrate e prostituzione, la "terza via" della Caritas

 

Il Manifesto, 5 ottobre 2002

 

Colf e prostitute, in mezzo "una fettina" di mogli, acquistate in fotografia. Sono le tre voci della "domanda diurna e notturna" di donne immigrate. La seconda, soddisfatta dalla tratta delle immigrate a scopo di sfruttamento sessuale, è l’oggetto della ricerca Comprate e vendute, promossa dalla Caritas ambrosiana e curata dal sociologo Maurizio Ambrosini.

La ricerca, sia nel taglio teorico che nella proposta concreta, sceglie la "terza via". Rifiuta due letture, rigide e speculari, della prostituzione delle immigrate: quella che l’interpreta tout court come riduzione in schiavitù e quella che l’interpreta (o piuttosto se l’immagina) come libera scelta individuale, tappa di un percorso di emancipazione. Entrambe "schiacciano" una realtà complessa su poli opposti, dice Ambrosini, usano le tinte forti quando invece serve il chiaroscuro.

L’Olanda, legalizzando la prostituzione di chi è già presente sul territorio "ha reso ancor più debole la condizione delle clandestine", nota il sociologo. E in una cooperativa presieduta "dalla donna del magnaccia albanese", o dalla "madame" nigeriana, Ambrosini dubita che le immigrate "se la passeranno bene".

La terza via, lunga e faticosa, vuole "persuadere e convincere", punta a sostenere le donne intenzionate ad uscire dal giro. Ovviamente presuppone un contrasto coordinato su scala internazionale del traffico, dice suor Claudia Biondi, soddisfatta per la recente operazione Girasole, ma per nulla sorpresa da quel che è emerso: "Tariffe, tragitti, trucchi. Sapevamo già tutto. La novità è che sono stati bravi a prenderli".

Alla terza via, non si stanca di ripetere il direttore della Caritas Ambrosiana don Virgilio Colmegna, serve un’interpretazione non micragnosa dell’articolo 18 della Turco Napolitano. La Bossi Fini l’ha mantenuta, ma se il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie viene concesso solo alle donne che denunciano i loro sfruttatori i risultati sono modesti.

Il permesso dovrebbe premiare chi smette di prostituirsi, punto e basta, dice don Colmegna che ieri ha lanciato l’idea di "un network europeo tra le associazioni cattoliche per fronteggiare la multinazionale del crimine che prolifera sulla tratta delle donne e sulla schiavitù sessuale".

In tre anni di applicazione dell’articolo 18 la Caritas in Lombardia ha ospitato 380 donne, aiutandole a sottrarsi a ricatti e sfruttamento. Una goccia nel mare. Le stime parlano di 2.500 immigrate prostitute a Milano, più di 4 mila in Lombardia, almeno 20 mila in Italia. Il turn over è altissimo, supera il 30%. Quelle che smettono in Italia vengono "trasferite" dalle reti criminali in altri paesi europei. Restano alti i flussi di provenienza da Nigeria e Albania, in continua crescita quelli dei paesi dell’Est.

Il "valore di mercato" di una donna, dice il criminologo Andrea Di Nicola, varia dai mille ai 14 mila euro. Il "fatturato lordo", l’incasso, di una prostituta supera i 150 mila euro l’anno. La parte che spetta alle donne è esigua perché devono pagare il debito contratto alla partenza con l’organizzazione. Un debito che si rivela sempre più alto del pattuito. In genere, le donne sono consapevoli che dovranno prostituirsi.

"Ignorano, però, le condizioni di violenza e ricatto in cui saranno costrette a farlo". Oltre al laccio del debito, spiega Ambrosini, le donne restano legate alla rete con varie manipolazioni del consenso, dalla magia vudù alle relazioni affettive o di sudditanza psicologica. Pesa, inoltre, "l’asimmetria informativa": non sanno nulla del paese in cui si trovano, dipendono in tutto, anche nelle informazioni, dagli organizzatori del traffico. Sui marciapiedi si vedono meno prostitute immigrate. Ma non sono diminuite, sono state spostate in zone più periferiche o al chiuso dopo le proteste dei tanti comitati a difesa del "decoro" e del prezzo di mercato degli immobili. La prostituzione "in casa", nei pip shop, nei locali della lap dance, nei night club rende ancor più difficile per la associazioni di solidarietà avvicinare le donne, stabilire in rapporto, consegnare di nascosto un indirizzo cui rivolgersi.

La ricerca della Caritas ha passato in rassegna 170 sentenze emesse nel biennio 2000-2001 dal Tribunale di Milano per violazione della legge Merlin. "Robetta", commenta Ambrosini, nel 70% dei casi alla sbarra c’era un unico imputato. Le sentenze pronunciate nello stesso periodo dalla Corte d’assise di Milano per il reato di riduzione in schiavitù; nel 41% dei casi la vittima era un minorenne. Anche in questo caso le reti individuate sono "molto corte".

Su scala nazionale, tra i denunciati per sfruttamento della prostituzione, gli albanesi incidono per il 42%, gli ex jugoslavi per il 10%, i nigeriani per il 7%. Il rapporto numerico si rovescia se si guarda alla nazionalità delle donne inserite nei 49 progetti di recupero finanziati dal ministero degli affari sociali: 1.441 sono nigeriane, 600 albanesi, 140 ucraine e rumene. "Significa che la rete nigeriana è più scaltra e sofisticata, si fa pizzicare meno", commenta Ambrosini.

 

 

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