Diciottenni in carcere?

 

Diciottenni in carcere? Un bel regalo alla criminalità

 

Mario Nasone, dell’amministrazione Penitenziaria di Reggio Calabria, avverte: "Significa mandare i ragazzi a scuola di mafia. Io leverei dal carcere anche tutti gli under 29"

 

Vita, 17 maggio 2002

 

Vogliono far scontare a dei diciottenni la pena nelle carceri per adulti? Ma che bel regalo alla criminalità organizzata! Un vivaio di persone suggestionabili e bisognose di attenzione. Mario Nasone, 52 anni, padre di tre figli adolescenti, trent’anni di esperienza nel disagio giovanile prima come volontario nell’azione Agape di Reggio Calabria e assistente sociale, poi, da un anno, come dirigente del Centro servizio sociale per adulti del Dipartimento amministrazione penitenziaria della città, salta sulla sedia quando sente parlare della proposta del ministro Castelli. Se fosse per lui, dal carcere tirerebbe fuori tutti i cosiddetti "giovani adulti", cioè quelli dai 21 ai 29 anni, che vorrebbe vedere assegnati agli arresti domiciliari o in semilibertà, e non tra quelle mura.

"Ne ho visti troppi rovinati dal carcere", dice Nasone, che in una zona infestata dalla ‘ndrangheta ha potuto verificare che esiste una vera e propria "procedura" di affiliazione per i giovani detenuti da parte dei gruppi delinquenziali adulti.

"In teoria per i più giovani la legge prevede circuiti penitenziari a parte, ma con l’affollamento delle carceri questo non sempre è possibile", spiega Nasone. "Anche il servizio "nuovi giunti", che dovrebbe fare acco-glienza psicologica e per l’ambientamento, non sempre è efficace. Così viene messa in atto una rete di ascolto da parte dei carcerati, alcuni sinceri, altri con secondi fini".

In anni di lavoro Nasone ha raccolto numerose testimonianze, anche di pentiti della ‘ndrangheta, che gli hanno raccontato come sono stati avvicinati dalla criminalità, non sulle strade ma proprio nel carcere. Finiti lì per il primo furto, spaesati e arrabbiati insieme, vengono tenuti "sotto osservazione" per sei mesi e quindi, una volta studiati per la loro personalità, vengono avvicinati da elementi mafiosi, selezionati proprio perché ritenuti più adatti a questa funzione.

In mancanza di riferimenti, il bisogno di sentirsi protetti da parte dei giovani, ma anche la capacità di relazione umana di queste persone fanno il resto (perché, ammette Nasone, esiste una componente "umanitaria" in questi approcci).

Quando si è presi sotto l’ala della ‘ndrangheta, però, i passi successivi sono i giuramenti di lealtà ritualizzati, a partire da un minimo che consiste nel promettere, una volta fuori, di restituire l’aiuto ricevuto in carcere.

Se questi sono i rischi che devono affrontare i giovani detenuti, non è difficile immaginare cosa potrebbe accadere a dei diciottenni. "La risposta per la sicurezza del Paese non è ancora più carcere, ma tutti gli strumenti possibili di esecuzione alternativa della pena", conclude Nasone. "Le persone spesso cercano solo l’occasione per poter cambiare. Noi dobbiamo dargliela, pur facendogli capire il danno arrecato alla società e la necessità di riparare".

 

 

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