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"Ma tu, pensi di uscire con successo?" di Nicola Sansonna
"Pensi di uscire con successo?". Questa è la domanda che si è sentito fare Francesco da uno degli studenti di terza media della scuola di Limena. Uscire con successo dal carcere vuol dire recepire quanto di positivo ti viene offerto, vuol dire riuscire ad elaborare in maniera critica il proprio vissuto, vuol dire riprogettare la propria vita. È una delle cose che abbiamo cercato di spiegare e speriamo di esserci riusciti. Quando mi fu proposto di partecipare, in occasione del mio terzo permesso, a due incontri con tre classi di studenti sul tema: "Prevenzione alla criminalità e alla tossicodipendenza", restai un attimo perplesso. Cosa gli dico, pensai, da dove inizio, avranno voglia di ascoltarmi? Gli incontri si sono svolti direttamente nelle aule scolastiche. Il nostro gruppo era composto di quattro persone: oltre me c’era Francesco, Faisel, e Paola Soligon, che da anni collabora con la nostra rivista (e aveva già partecipato a precedenti incontri tra gli studenti e gli operatori del carcere). In aula erano presenti due degli insegnanti che normalmente seguono i ragazzi, che mi hanno colpito molto con la loro capacità di mantenere la disciplina in classe ed ottenere l’attenzione di tutti i ragazzi e ragazze: era sufficiente che battessero due volte la matita sulla cattedra perché il silenzio diventasse totale… mi sono venute in mente alcune mie insegnanti, con le quali pure si scherzava poco. Eravamo preparati al fatto che avevamo di fronte degli adolescenti e che, quindi, sia i termini usati che gli argomenti andavano adeguati alle circostanze. Paola ha introdotto con molto garbo l’incontro. Quando poi è stato il mio turno ho parlato di un argomento che conosco bene: la mia esperienza di vita, che è piuttosto particolare, infatti dei miei attuali 44 anni, 24 li ho passati in carcere. Tra i punti toccati con i ragazzi, quelli che seguono penso siano stati i più importanti.
I miti negativi
Ho raccontato come, alla loro età, vedevo certi personaggi che poi si sono dimostrati rovinosi per il mio sviluppo. Se il leader del gruppo ha la moto più bella, ha sempre soldi in tasca, e ti racconta che "per averli devi farti furbo", devi dimostrare di avere i coglioni, è molto facile per te cadere in questo errore di valutazione e vedere nel piccolo ladruncolo e bullo di quartiere che hai di fronte un modello da imitare. Perché si becca sempre le ragazze più carine, perché è sempre lui che decide le cose più divertenti, perché dà sicurezza stare con lui nel gruppo. Ho imparato che ci vuole più coraggio a portare avanti una famiglia numerosa, come ha fatto mio padre, lavorando onestamente, riuscendo a far quadrare il magro bilancio familiare, piuttosto che a fare una vita nella quale puoi disporre di molti soldi ma che alla fine diventa una parentesi breve… tra una carcerazione e la successiva. Il bilancio della vita di un balordo, dal punto di vista degli affetti e dell’autostima, del sentirsi realizzati, è sempre in deficit. A conti fatti, volendo anche soltanto analizzare i pro ed i contro, si tratta di un’esperienza fallimentare, che non conviene assolutamente.
L’imitazione dei comportamenti del gruppo di appartenenza
In tutti i quartieri c’è un muretto, un piazzale con tre gradini, un angolo di strada, un giardinetto che viene scelto come punto di ritrovo dai ragazzi del posto. Avviene spesso che, se nel gruppo qualcuno scopre una nuova forma di divertimento, in breve tempo diventerà patrimonio di tutto il gruppo. Questo accade anche quando qualcuno del gruppo viene in contatto con il mondo della droga. Il meccanismo che scatta è quello del timore di sentirsi esclusi, così che quando ti viene passata la tua prima canna ti senti quasi obbligato, per un malinteso senso di solidarietà, ad usarla anche tu. È proprio l’imitazione del comportamento del leader e della maggioranza del gruppo ciò che porta sovente a comportamenti a rischio.
Il mito del denaro
Parlare del mio rapporto con i soldi non è affatto facile, perché in pratica il mio è stato un non - rapporto, nel senso che i soldi per me erano fatti per essere spesi, e non gli ho mai dato molta importanza, anche se poi ho commesso reati per poterne disporre sempre in misura maggiore. Mio padre, con il solo stipendio, riusciva a mantenere dignitosamente otto persone, perché ai soldi dava il giusto valore: erano necessari per vivere, per permettermi di andare a scuola, mantenerci in ordine, pagare l’affitto di casa. Lo stipendio di mio padre e la sua gestione erano una scienza esatta… che non ammetteva errori. I soldi che, in seguito, ho guadagnato troppo facilmente, evaporavano nelle mie mani e non bastavano mai. Quando si dà al denaro delle qualità che in realtà non possiede si cade nell’inganno che con i soldi si può avere tutto, la felicità, l’amore, gli amici, la serenità. Niente di più falso! Queste cose non si comprano in nessun supermercato, il denaro ti dà semplicemente una maggiore possibilità di acquisto, il resto nasce dalle relazioni sociali che una persona riesce a costruire intorno a sé.
L’importanza della scuola, sia fuori, sia in carcere
Ripercorrendo le tappe della mia vita non ho potuto fare a meno di sottolineare come la scuola da ragazzo mi piaceva, ma non è mai riuscita ad appassionarmi, a farsi vedere da me con quell’importanza che avrebbe poi avuto negli anni a venire. Probabilmente non sono stato in grado di recepire, allora, quanto di buono mi veniva prospettato. Fui bocciato in prima elementare perché non conoscevo bene la lingua italiana, mi esprimevo molto spesso in pugliese, tanto che la preside chiamò mia madre e la pregò di usare l’italiano, quando si parlava in casa, cosa che facemmo. Fui bocciato nuovamente in quarta, ma lì si trattò più della mancanza di applicazione, per una sorta di rigetto nei confronti di una maestra che ritenevo troppo severa ed autoritaria; probabilmente aveva anche ragione ad esserlo, ma sta di fatto che mi bocciò. Frequentavo ancora la prima media, ero forse più giovane dei ragazzi che avevo di fronte a Limena, e già andavo a lavorare: lavavo i piatti in un ristorante, poi passai per qualche tempo al servizio ai tavoli ma, a 14 anni, tornai in cucina, perché mi piaceva molto di più. Quando fui arrestato avevo 19 anni, dopo poco iniziai ad appassionarmi alla lettura, leggevo di tutto e, quando mi si presentò l’occasione, mi iscrissi al corso delle 150 ore, per conseguire il diploma di terza media. Lo conseguii senza troppe difficoltà: le mie letture, un po’ confusionarie, in qualche modo mi avevano lasciato delle nozioni di carattere generale che mi furono molto utili. Dopo qualche anno finii in cella con un geometra, che mi guidò alla scoperta dell’algebra e del disegno tecnico, tanto che chiesi il trasferimento ad Alessandria, dove tuttora c’è una scuola per geometri e dove iniziai gli studi, che poi conclusi da autodidatta a Bologna, conseguendo il diploma di geometra. Volevo continuare gli studi alla facoltà di Architettura, solo che per farlo dovevo essere trasferito a Ferrara, così ripiegai su una facoltà bolognese, che per i temi che trattava mi aveva da tempo affascinato: Scienze Politiche e Sociali. Uscito dal carcere non continuai gli studi, perché non avevo né il tempo né le energie fisiche necessarie a seguire tutti gli impegni che avevo assunto, quindi dovetti desistere. Ho scoperto la bellezza dell’apprendimento in carcere ed ancora continuo nella direzione di accrescere il mio livello di cultura, indirizzandomi verso campi d’utilità pratica: ora faccio informatica, sto imparando la creazione e la gestione di pagine web, passando attraverso il marketing e l’organizzazione aziendale. Chissà se sono riuscito, con quanto ho detto, a far sorgere delle riflessioni nei ragazzi. Lo sapremo leggendo quanto scriveranno: uno degli scopi dell’iniziativa è che questi studenti preparino degli articoli che verranno poi pubblicati in un inserto della nostra rivista.
Un ragazzo alza la mano e mi chiede "Ma tu, perché sei dentro?" di Francesco Morelli
La preparazione dell’incontro con gli studenti della scuola media mi ha dato parecchio da pensare. Cos’avrei detto loro: "Guardate ciò che ho fatto e… fate esattamente il contrario"? Presentarmi con il senno del poi, di cui trabocca la letteratura per ragazzi, mi sembrava inutile e anche un po’ ridicolo. Alla loro età avevo voglia di sognare, d’avventura, e anche di trasgressione. Poi rinunciavo a tutto, ma la voglia c’era, prepotente, come penso l’abbiano loro. È giusto così, a un adolescente non puoi pronosticare una vita qualunque, incolore, come quella di tanti altri. Anche quando sui banchi della scuola c’ero io i professori organizzavano incontri di questo tipo, magari non con dei detenuti, ma sempre con persone che dovevano esserci d’esempio, giusto (il missionario in Africa, l’educatore dei disabili, etc.) o sbagliato (l’adulto che aveva abbandonato prematuramente la scuola e a quarant’anni, pentito, tornava a studiare, l’infortunato in un incidente stradale, etc.). Il secondo gruppo riscuoteva maggiore interesse e ammirazione, nonostante avessimo sotto gli occhi le conseguenze sgradevoli delle scelte "sbagliate". Non ce ne fregava niente, la cosa importante è che queste persone avevano rischiato, si erano in qualche modo ribellate a un mondo che pretendeva di decidere sulle nostre teste, di modellarci senza tener conto dei nostri desideri. Da allora sono passati più di vent’anni; le mode e i desideri dei ragazzi sono profondamente cambiati, però penso che certi meccanismi siano rimasti inalterati e che i "buoni esempi" facciano sorridere, anche oggi. Forte di queste riflessioni mi sono presentato alla scuola di Limena con l’intenzione di parlare ai ragazzi dei miei sogni di adolescente, non per dire loro ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. I sogni rappresentano lo spazio di libertà per eccellenza e sono convinto che, in fondo in fondo, siano sempre volti al bene. I problemi nascono quando provi a realizzarli e scopri di non farcela perché inesperto, o timido, o per altre mancanze. A questo punto cerchi delle scorciatoie, che possono funzionare oppure causarti dei guai. L’esempio più immediato è quello delle droghe: si usano per "stare meglio" con se stessi e con gli altri, sono una scorciatoia che permette (almeno in apparenza) di superare le ansie e le difficoltà di relazione. Magari ci sarebbero altri metodi, ma questo sembra rapido e sicuro. Sul carcere non volevo dire nulla, oltre tutto sapevo che i ragazzi avevano già avuto un incontro con gli operatori che, "naturalmente", avevano spiegato per filo e per segno cos’è il trattamento e come si realizza la rieducazione dei detenuti. Però mi ero accordato con le classi che ero disposto a rispondere a qualsiasi domanda, così, dopo dieci minuti trascorsi a spiegare come dal desiderio di trasgressione si possa passare alla devianza e poi alla criminalità, un ragazzo alza la mano e mi chiede: "Ma tu, perché sei dentro?". Gli ho detto: "Perché ho ucciso". Al che lui ha concluso: "Ma allora sei pazzo!". Cosa dovevo ribattere? Che sono sano di mente ed ho sparato perché mi sembrava la cosa migliore da fare!? È difficile anche spiegare a se stessi cosa c’è a monte di certi comportamenti, figurarsi il doverlo fare davanti a cinquanta ragazzi e in pochi minuti… Ho cercato di chiarire che raramente si diventa criminali tutto d’un colpo, dall’oggi al domani; è piuttosto una progressione di barriere infrante, cominciando da cose minime per arrivare agli atti più violenti ed estremi. Se sei abituato a guidare la macchina a ottanta chilometri l’ora ed un giorno la spingi a duecento all’ora è facile che ti spaventi, però se prima t’abitui a guidare a cento all’ora, poi a centotrenta, e così via, arrivi a duecento e ti sembrerà una cosa normalissima. Questo primo scambio di battute ha ottenuto l’effetto di sciogliere le lingue anche ai più timorosi: hanno cominciato a chiedermi che condanna avevo, come vivevo in carcere, cosa volevo fare quando sarei uscito. Quello che ho notato è che i ragazzi avevano un’idea molto vaga del carcere (nonostante l’incontro con gli operatori). L’immagine se l’erano fatta, più che altro, attraverso i film americani, quindi avevano in mente scene di violenza, sopraffazione, e via dicendo. Per far capire loro che in Italia le cose sono un po’ diverse ho fatto un accenno all’articolo 27 della Costituzione, al quale devono ispirarsi tutte le leggi e i regolamenti sull’esecuzione della pena. Gli insegnanti, ed a maggior ragione gli studenti, non sapevano cosa fosse: il fatto è che nella scuola italiana si studia più facilmente la Magna Charta che la Costituzione della Repubblica, ed è raro trovare qualcuno che abbia letto i tre semplici paragrafi che definiscono il rapporto dei cittadini con la giustizia.
Articolo 27 della Costituzione
Faisel
si racconta davanti a un pubblico particolare: di Faisel Soltani
Per il mio primo permesso premio sono stato ospite in una scuola media a Limena, per partecipare anch’io a questo incontro con due classi di ragazzi di terza media. Al momento di entrare ero molto emozionato e preoccupato, mi chiedevo soprattutto quale sarebbe stata la reazione dei ragazzi. Come avrei iniziato? Avrei dovuto presentarmi, raccontare la mia vicenda… il mio cuore aveva già iniziato a battere come un forsennato. Ero sicuro che non ce l’avrei fatta. Ma quando è arrivato il mio turno, non so come sia successo, ma le parole mi sono uscite fluide, senza problemi. Ecco come ho raccontato la mia storia. "Mi chiamo Faisel e sono tunisino. Provengo da una famiglia che appartiene a quello che voi in Italia definite il ceto medio. Non siamo ricchi, ma nemmeno poveri. Mio padre fa il macellaio, mia madre la casalinga. Tutti i miei fratelli si sono sposati e stanno bene: hanno figli, belle famiglie, lavorano tranquilli accanto a nostra madre, senza farle soffrire la lontananza, come ho fatto io. Sono contentissimo per loro. Io sono il più piccolo della famiglia. Ho studiato tanti anni, però non sono riuscito a passare l’ultimo esame per potermi iscrivere all’Università. Poi ho cercato lavoro nel mio paese, ma non sono riuscito a trovarlo. Nello stesso tempo aiutavo mio padre, e ho potuto così imparare un mestiere che mi piace, il macellaio. Mi sono iscritto a una scuola alberghiera e l’ho frequentata per i primi tre mesi, nei quali ti insegnano la preparazione dei piatti e la loro decorazione. Questo primo periodo è stato molto divertente, però quando abbiamo iniziato lo studio vero e proprio mi sono reso conto che la disciplina utilizzata in quella scuola era troppo rigida. Tanti ordini, sembrava una caserma: credo che quella tunisina sia la scuola alberghiera più severa del mondo. Nei fine settimana potevo uscire per andare a vedere la famiglia e gli amici. Un giorno ho incontrato un amico che lavorava e viveva in Italia. Aveva una macchina bellissima, tutti i vestiti griffati, tanti soldi. Ho riflettuto molto ed infine mi sono detto: cosa sto facendo ancora qui? Da lì è nata l’idea di emigrare in un altro paese. Ho scelto l’Italia per le storie che mi raccontava questo mio amico. Per prima cosa ho preso tutte le informazioni possibili all’ambasciata italiana: per avere il visto d’ingresso ho preparato tutti i documenti che servivano, li ho presentati assieme alla fotocopia del passaporto e al biglietto di viaggio. Però non sono riuscito ad avere quel maledetto visto, ho provato tante volte a chiederlo, ma la risposta era sempre negativa. Un giorno ero al mare con due amici che, vedendomi sempre triste e arrabbiato, mi hanno detto: "Se non sei riuscito ad entrare in Italia con il visto, esiste un altro modo, però è rischioso, è illegale. Se ti fermano ti possono portare in galera, a parte il rischio di attraversare il mare su mezzi di fortuna". Ma la voglia di scoprire un mondo nuovo mi ha fatto accettare la sfida. Dopo una settimana avevo già preso accordi per il viaggio: siamo partiti con la barca di un pescatore, trenta persone a bordo, con una voglia incredibile di attraversare il mare senza pensare al rischio che stavamo affrontando. Per nutrirci avevamo pane, formaggio ed acqua. Nella prima notte di navigazione ci ritroviamo in mezzo a un mare scuro, che avrebbe fatto spaventare l’uomo più coraggioso del mondo. La barca che hanno scelto per il viaggio è troppo piccola e il mare troppo grande. A un certo punto il motore si ferma e l’acqua comincia ad entrare nello scafo, noi passeggeri gridiamo dalla paura e il capitano nella confusione smarrisce la rotta, ormai tutti vorremmo tornare indietro ma non è più possibile. All’alba avvistiamo una barca di pescatori italiani e chiediamo di indicarci la rotta per arrivare a Lampedusa: quella barca ci ha salvati, perché dopo dodici ore siamo arrivati a vedere la montagna di Lampedusa. Eravamo salvi. Una motovedetta della Guardia di Finanzia ci prese a rimorchio e dopo due ore eravamo nel porto, dove ci diedero cibo e bottiglie d’acqua. Chi si sentiva male lo portavano all’ospedale. Quando ebbero verificato che tutti stavano bene, cominciarono a prendere le nostre impronte digitali e a chiedere le generalità, da dove provenivamo, etc. Dopo due giorni arrivò la nave dalla Sicilia, e ci portarono ad Agrigento. Anche lì ci aspettava la stessa trafila: impronte digitali, chi sei, da dove vieni e mille altre domande che mi avevano già fatto. Ad ognuno di noi fu consegnato un foglio di via, dove c’era scritto che dovevamo lasciare l’Italia entro quindici giorni. Ma la maggior parte di noi non si rendeva nemmeno conto di cos’era, quel foglio. Così siamo andati, tutti assieme, alla stazione e siamo partiti per Palermo, dove poi ognuno ha preso la sua strada. Io ho incontrato un vecchio amico e lui mi ha aiutato, consigliandomi di non rimanere al sud, poi mi ha dato un po’ di soldi e così ho potuto ricominciare il viaggio. Dopo due giorni di treno sono arrivato a Padova. Qui ho trovato tanti amici, che mi hanno ospitato e mi hanno fatto dimenticare tutta la sofferenza del viaggio. Dopo due anni sono stato arrestato per spaccio, perché in realtà le persone che mi avevano aiutato erano più sfigate e più sfortunate di me. Eccomi qui, sono in carcere da tre anni e quattro mesi, ed oggi grazie al primo permesso sono con voi, in classe, per un incontro che reputo bellissimo, per spiegare a voi che non c’è nessun valore e non c’è nessuna somma di soldi che valga la libertà di una persona".
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