Vivere Roma

 

Vivere Roma

 

La Stampa, 1 luglio 2002

 

La coreografa, esperta di tradizioni africane, insegna ai ragazzi di Casal del Marmo e ai bambini di diverse scuole La danza diventa un modo di esorcizzare paure infantili e traumi familiari vedevi questi ragazzi coi piercing, coi capelli irti sotto la gelatina, con storie di violenza alle spalle, che si cullavano da soli, che Un teatro di emozioni e stati d’animo. Senza scenografie e costumi, senza una trama da sviluppare e personaggi. Sulla scena, soltanto i tamburi, un percussionista, e gli interpreti: la musica e gli attori, scalzi, tutti in nero, che usano il linguaggio del corpo, comunicano con gesti che raccontano sogni, ricordi, incubi. Gesti liberatori, cui si arriva dopo infiniti imbarazzi e resistenze. E’ il teatro cui dalla fine degli anni Ottanta lavora Lucina De Martis, danzatrice e coreografa. Lavora nelle scuole, in quartieri come Tiburtino, Bella Monaca, Aurelio. L’unica che lo fa nel circuito del Teatro per Bambini degli Accettella. «Nei laboratori di quest’ultimo anno - dice - ho sperimentato un nuovo filone di ricerca: la trasposizione e interpretazione, sempre senza ricorrere alla parola, di testi letterari. Ad esempio, ho lavorato su "Le città invisibili" di Calvino e "L’occhio del lupo" di Pennac. Con le insegnanti si scelgono le pagine dell’opera che consideriamo più significative. Il primo nodo da affrontare è la rigidità dei corpi, la non abitudine ad ascoltarsi, le mille censure che i bambini hanno già introiettato. Gli dico, ad esempio: strillate, per quello che non vi piace, per le imposizioni che patite. Niente, silenzio. Insisto. E allora casca giù la palestra: urlano il dolore che hanno dentro, la rabbia che non sanno canalizzare, e non la finirebbero più. Hanno dai 6 ai 12 anni. Poi gli faccio ascoltare, con gli occhi chiusi, la musica. Gli chiedo che cosa vedono. E ciascuno dice la sua: chi vede le montagne, chi un fiore, chi la mamma? Ma quali sono gli stati d’animo, le emozioni che quella musica gli fa provare? Qui cominciano le difficoltà, perché nessuno gli pone mai domande simili e non sono abituati a cercare risposte adeguate. Finalmente si apre un varco e - sempre - pian piano viene fuori la paura. Viene fuori quanto questi bambini sono spaventati, quante cose inquietanti sentono incombergli addosso. Le maestre mi dicono: in questa classe 5 hanno subito violenza carnale, 5 hanno il padre tossico? Cercare di esorcizzare la paura si traduce in gesti da inventare. Ma la gamma dei movimenti possibili è sconosciuta. I maschi sanno come tirare pugni, come giocare al pallone. Le bambine niente. Per emulazione, ripicca, gioco, via via gli uni e le altre accettano di mettersi in gioco, di sperimentare in cerchio l’energia del gruppo, e allora scoprono che mani e braccia possono diventare ali d’uccello, ragno, serpente, che un movimento repentino può esprimere sorpresa, che uno lento può significare la percezione di un rumore lontano, che braccia, testa, spalle sono come le note di una partitura musicale. Ma il bacino no, quello non lo muovono assolutamente: è un tabù che affonda nel profondo, e se qualcuno tenta di farlo, tutti ridono come matti. «Con "Le città invisibili" hanno affrontato il tema del vuoto, il senso di precarietà, immaginando di camminare su un filo, di imbattersi in un precipizio. Hanno vissuto la precarietà dell’essere umano e scelto - fra la città stabile, con le banche, gli impiegati, le cose fatte in serie, e la città folle, fatta di giocolieri e artisti - quella regolata dalla fantasia, in cui si muovevano con salti, come piume che svolazzano nel vento. In "L’occhio del lupo" la musica assordante sottolineava lo sgomento per la guerra, i bombardamenti, la fuga, e conduceva nella gabbia immaginaria che nega la libertà dei movimenti, la libertà possibile: da qui il rompere con furia le sbarre e uscire urlando nel mondo, aprendosi alla fiducia negli altri, all’accettazione degli esseri umani di ogni colore e religione.

«Il tema del viaggio l’abbiamo affrontato più volte. Il viaggio come itinerario attraverso le tappe della vita, ma anche come l’esodo degli ebrei verso la terra promessa, come la perdita forzata del proprio passato, del proprio mondo. Hanno fatto cose struggenti. Gli dicevo: prima della partenza il profugo porta con sé tutto quello che può, ma gli oggetti ve li possono togliere, i ricordi, quello che portate con voi nel cuore, no, quindi guardate per l’ultima volta la vostra casa, le persone cui volete bene e che non dimenticherete mai. "Professoré, mi posso porta’ mi’ sorella?" chiese un bambino. Tutti - quando andammo in scena - si giravano, fissavano qualcosa che solo loro vedevano, e camminavano lenti con lo sguardo che incamerava il possibile, con la testa all’indietro dove il cuore li tratteneva. Allo spettacolo anche i genitori per i quali la mancanza di abiti di scena era una grave mancanza, piangevano. «Educare all’astrazione sembra impossibile a volte. Quando, ad esempio, ci sono i ragazzi che neanche dietro tortura accettano di togliersi le scarpe per entrare in palestra. Mi è successo a Bella Monaca, con quelli per i quali è impensabile uscire dal personaggio costruito con l’abbigliamento delle cose firmate da cui si sentono garantiti quanto a ruolo, mascolinità: ragazzi incapaci di fare le capriole, rigidi, già vecchi, che nessun percussionista o tamburo riesce a coinvolgere. Ma l’esperienza può dare frutti positivi nelle situazioni più impensabili. Nel carcere minorile di Casal del Marmo, ad esempio, dove ho lavorato due anni, e dove gli allievi più assidui erano i ragazzi condannati a pene lunghe, per omicidio, rapina a mano armata, violenza carnale. Lì ho visto emozioni che diventavano patrimonio di tutti. Come quando abbiamo lavorato sulla tenerezza, sull’abbandonarsi alle coccole materne. E allora vivevano una piena regressione nel ricordo o nella richiesta della gioia del corpo. Un’esperienza che ha lasciato tracce. Due di loro ultimamente, diventati maggiorenni e passati nel carcere di Rebibbia, mi hanno cercata. Per dirmi che quell’esperienza (li avevo portati a ballare anche con i ragazzi di altri miei corsi, ragazzi "liberi") era stata indimenticabile: il riconoscimento della loro dignità di persone».

 

 

 

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