Intervista a Franco Prina

 

Il declino dell’ideale riabilitativo

Nuovi orientamenti della giustizia minorile

 

Aggiornamenti sociali, settembre 2002

 

L’imminente riforma della giustizia minorile è in linea con un clima più portato alla punizione che al recupero. "Non abbiamo più a che fare con i ragazzi della via Pal", si dice per giustificare il pugno duro. Eppure, nell’affrontare il problema dei minori che compiono reati, si può prescindere da uno sguardo più ampio sui mondi che li hanno generati, accolti e utilizzati? Si può rinunciare alla possibilità di recuperare lì dove non si è stati in grado di intervenire prima? Non si corre così il rischio di trasformare le questioni sociali in problemi penali?

I due disegni di legge sulla giustizia minorile proposti dal governo stanno facendo, in questi mesi, il loro iter parlamentare (per aggiornamenti www.minori.it/aimmf). Prevedono pene più severe per i minorenni, il trasferimento nel carcere degli adulti una volta raggiunta la maggiore età (oggi è dopo i 21 anni), la separazione delle competenze civili e penali in materia minorile ( con le prime che verrebbero assegnate ai tribunali ordinari), l’estromissione della componente onoraria dei giudici (psicologi, neuropsichiatri infantili, assistenti sociali, pediatri etc., che come prevede la legge istitutiva dei Tribunali per i minorenni affiancano i giudici togati) dai processi civili e la loro riduzione a una unità in quelli penali, e altre misure (come l’esclusione dall’istituto della messa alla prova per i reati più gravi) che tendono ad avvicinare la giustizia dei minori alla giustizia degli adulti, senza considerare - ed è la critica che viene mossa con più forza - che il minore è una persona in evoluzione e che ogni disposizione a suo carico dovrebbe essere presa nel suo interesse.

Si coglie tuttavia in queste proposte l’eco di una tendenza non solo italiana. Tutti i paesi occidentali hanno infatti rafforzato negli ultimi anni il sistema penale per contrastare una presunta crescita della criminalità, accogliendo così una domanda di rigore che sale prepotente dall’opinione pubblica.

Di questi temi abbiamo discusso con Franco Prina, docente di sociologia della devianza e giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Torino.

 

Due decisioni danno il segnale di un’inversione di tendenza nelle politiche penali minorili. Il 1 marzo il consiglio dei ministri italiano ha approvato due disegni di legge volti a modificare in senso restrittivo la giustizia minorile. A metà luglio i giornali riferivano che il governo francese, appena insediato, prevede carcere preventivo a partire da 13 anni e possibilità di sanzioni anche contro i bambini di 10. La motivazione che accompagna questi provvedimenti è che i ragazzi non sono più quelli di una volta, che ci vuole la mano pesante. L’ ipotesi è che qualcosa di profondo stia avvenendo nella pancia delle nostre società. Cosa ne pensa?
Certamente non sono i dati a confortare questa sterzata repressiva. Non mi risulta infatti che i reati compiuti dai minori siano in aumento, semmai il contrario. Direi piuttosto che questi provvedimenti sono figli di un "nuovo senso comune penale". Un senso comune che si è formato negli Stati Uniti e in Inghilterra, con le amministrazioni Bush e Clinton da un lato, Thatcher, Major e, ancor più, Blair dall’altro, e che va diffondendosi nel resto d’Europa, anche in paesi come Francia e Italia tradizionalmente segnati da una giustizia minorile che ha puntato alla rieducazione e al recupero sociale.

La parola d’ordine oggi sembra una sola: punire e contenere. Punire e non educare, rovesciando completamente quello slogan che ancora 12 anni fa coagulò molte sensibilità individuali e collettive contro la legge Jervolino - Vassalli. Ma erano altri tempi. Oggi i processi di globalizzazione hanno davvero cambiato la scena; al punto che non è possibile parlare di una specifica politica, in questo caso quella penale, senza guardare alle condizioni in cui si sviluppano in generale le policies nel contesto contemporaneo.

 

Anche per discutere di giustizia minorile tocca parlare di globalizzazione?
Direi proprio di sì. Le trasformazioni delle politiche penali nei paesi occidentali si capiscono solo se viste dentro i grandi mutamenti sociali prodotti dalla globalizzazione.

Il primo ha a che fare con il declino della politica classicamente intesa. In un contesto in cui gli Stati nazionali vengono a costituire solo uno dei livelli di un complesso sistema di organi di governo sovrapposti e in competizione - alcuni dei quali, ricordiamolo, non sono pubblici e quindi non democraticamente controllabili - è sempre più evidente la perdita di centralità dell’intervento statale nella regolazione economica e sociale.

Questo processo accompagna, e insieme amplifica, quella che è stata da tempo definita crisi di governabilità. Ossia lo scarto tra una società che si complessifica e la capacità del sistema politico-statale di rispondere all’aumento delle domande sociali. La percezione di quest’inadeguatezza della politica ha come conseguenza - ed è una conseguenza che osserviamo nelle vicende di ogni giorno - una progressiva contrazione dell’attività decisionale sulle emergenze: sempre più, cioè, la politica si limita ad aspettare le crisi che scaturiscono da una società che si va sviluppando autonomamente, piuttosto che governare l’evoluzione sociale. Siamo alla crisi della politica programmatica - la cui espressione principale è stata lo Stato sociale - in favore di una politica concentrata su temi limitati, spesso di valore esclusivamente simbolico.

Terzo elemento, la politica ridotta a marketing. Chi partecipa alla corsa elettorale vuole convincere il pubblico a comprare la sua linea politica. Le scelte politiche si connotano sempre più come prodotti da porre in vendita sul mercato, dal momento che, come dice Dal Lago, il successo arriderà a chi saprà interpretare e prevedere i bisogni, l’umore e gli sbalzi d’umore dei consumatori, oltre che a propagandare efficacemente il proprio prodotto.

Di qui il venir meno delle differenze tra i programmi dei partiti, tutti protesi a ottenere voti da uno stesso elettorato. Un elettorato, da alcuni anni a questa parte, molto sensibile ai temi della sicurezza.

Se questo è il contesto - segnato da un sostanziale ritirarsi dello Stato dalla sua funzione regolatrice delle dinamiche sociali - che ruolo vengono ad assumere le politiche penali?

Bauman, uno dei più acuti analisti delle trasformazioni sociali e politiche della globalizzazione, ha sottolineato bene l’importanza crescente delle politiche penali proprio nel quadro del ridimensionamento delle funzioni dello Stato - nazione. La sua tesi è semplice, ma intuitiva: lo Stato, dice, impossibilitato a imporre un ordine generale attraverso un complesso di regole e norme - in particolare nell’economia, fondata su un capitale che gode ormai di assoluta extraterritorialità -, tende a concentrare la propria iniziativa sulle questioni della legge e dell’ordine nella loro dimensione locale. Assistiamo così, per usare la sua espressione provocatoria, alla "riduzione degli Stati a commissariati di polizia". Commissariati locali, capaci di garantire quel minimo di ordine necessario a mandare avanti gli affari, senza frenare la libertà delle imprese globali. Del resto è interesse degli stessi governi attrarre nei loro confini un capitale avvezzo al nomadismo.

 

Quest’ipotesi di Bauman, secondo cui la globalizzazione per conservarsi e riprodursi ha bisogno di Stati deboli ma autoritari, fa venire in mente la Cina. Lì un partito comunista ridotto a comitato d’affari reprime duramente persino le proteste sindacali…

In Cina, ma anche in altri paesi del Sud est asiatico, la riduzione dello Stato a compiti di polizia, per consentire la rapida crescita economica del Paese, assume dimensioni macroscopiche. Molto più che nelle nostre democrazie occidentali. Però questa tendenza è rintracciabile anche da noi, spesso indipendentemente dall’orientamento politico delle maggioranze di governo. Anche le sinistre infatti, quando hanno raggiunto il potere, sono sembrate ridefinire il perimetro e le modalità di azione dello Stato, in un senso restrittivo sul piano economico e sociale, ed espansivo in materia di polizia e penale. C’è un libro, "Parola d’ordine: Tolleranza zero", l’autore è Loic Wacquant, che mostra bene questa parabola. Le diverse forze politiche, lontanissime su altri problemi, su questo manifestano spesso un accordo. Le muove la comune preoccupazione di convincere l’elettorato che saranno più decise e spietate degli avversari nel perseguire la carcerazione dei criminali. Questo avviene anche, va ricordato, per la spettacolare pubblicità che, "nel catalogo delle preoccupazioni dell’opinione pubblica" dice Bauman, si è voluto dare ai problemi classificati sotto la voce "legge e ordine pubblico". Si compie così una saldatura tra esigenze del sistema politico e sentimenti diffusi…

 

Accennava alla diffusione in Europa di un nuovo senso comune penale. Di cosa si tratta?
David Garland, uno dei più importanti studiosi contemporanei dei sistemi penali, in apertura del suo ultimo libro dedicato alla "cultura del controllo", ha formulato proprio una lista di indicatori del mutamento intervenuto negli ultimi anni nel campo delle politiche di controllo e penali.

Anzitutto, dice Garland, il declino dell’ideale riabilitativo a favore del perseguimento di obiettivi come l’incapacitazione e la gestione e riduzione dei rischi. Secondo, il riemergere del carattere essenzialmente punitivo della sanzione, della sua finalità retributiva - letteralmente, "far pagare" ai delinquenti il male fatto. Terzo, il cambiamento nel "tono emotivo" della politica criminale, con l’enfasi sulla paura del crimine e l’abbandono della visione del delinquente come "svantaggiato" e "bisognoso di aiuto" a favore di una immagine dello stesso come pericoloso e incorreggibile. Quarto, la rivalutazione delle vittime ma soprattutto il loro utilizzo strumentale come elemento di supporto a politiche repressive. Quinto, la protezione della sicurezza pubblica, la difesa dai potenziali rischi, come priorità, anche a costo del sacrificio dei diritti civili e della tutela della libertà di coloro che sono sospettati metterla in pericolo. Sesto, la politicizzazione della questione e la sua centralità nelle contese elettorali, in cui assumono rilievo crescente parole d’ordine di stampo populista.

E ancora: la rinascita della prigione come istituzione non più da superare o riformare, ma da valorizzare come strumento di incapacitazione e di punizione, indispensabile per l’ordine sociale contemporaneo. Sul versante della riflessione criminologica, queste trasformazioni investono invece la definizione del criminale, concepito non già come individuo deprivato e correggibile, bensì come essere normale che razionalmente sceglie il male per una predisposizione a compierlo e che dunque va contrastato con strumenti di dissuasione e di controllo. È un lungo elenco, quello di Garland, che però ha il pregio di sintetizzare molte delle considerazioni che altri autori hanno sviluppato in questi anni.

 

È di Garland l’espressione "nuovo senso comune penale"?
No, è di Wacquant, che non usa certo mezzi termini per esprimere le trasformazioni in atto: dell’epoca della cancellazione dello Stato economico, del ridimensionamento dello Stato sociale e del rafforzamento e glorificazione dello Stato penale, dice, la vicenda americana rappresenta l’esempio di come possa nascere e svilupparsi un "nuovo senso comune penale", che mira a ridurre i timori delle classi medie e superiori: quelle che votano, per intenderci. Del resto è negli Stati Uniti che sono nate le idee che hanno portato ai programmi di "tolleranza zero". Si criminalizza la miseria, vengono posti sullo stesso piano delinquenti, senza dimora, mendicanti e altri marginali, assimilati a invasori stranieri, cosa che consente - osserva Wacquant - l’associazione alla problematica dell’immigrazione, elettoralmente sempre pagante.

La conseguenza è che oggetto di repressione poliziesca è soprattutto chi si presenta come portatore di segni esteriori a priori sospetti, come il colore della pelle. Poco conta poi che la gran parte di queste persone venga scagionata dalle successive indagini dei magistrati. L’universo penale americano ha visto la crescita esponenziale della popolazione incarcerata, che è triplicata in quindici anni, ed è composta perlopiù di piccoli delinquenti poveri e di colore. Insieme, si è assistito all’estensione del controllo penale e amministrativo su milioni di persone, alla schedatura, anche genetica, di centinaia di migliaia di condannati, alla trasformazione del sistema carcerario in un grande business e in fonte di occupazione.

In questo contesto quel che balza agli occhi è l’abbandono dell’ideale della riabilitazione, a favore di una "nuova penologia" il cui obiettivo non è più prevenire il crimine né trattare i delinquenti in vista di un loro reinserimento nella società una volta scontata la pena, bensì isolare i gruppi percepiti come pericolosi e neutralizzarne i membri più problematici.

È questo il fondamento di quelle che sono definite "politiche attuariali", secondo le quali il controllo non si esercita più su singoli individui devianti, ma su soggetti sociali collettivi che sono istituzionalmente trattati come gruppi produttori di rischio. Si parla di "controllo attuariale" per la somiglianza delle nuove strategie di controllo con i procedimenti tipici della matematica delle assicurazioni, che trattano cioè non i singoli incidenti, ma le probabilità, il rischio che determinate categorie ne siano vittime o li causino...

Questi orientamenti spostano la riflessione dalla devianza effettivamente prodotta alla devianza possibile. In altri termini, affrontano il "rischio della devianza", cercando di valutare la potenziale pericolosità di gruppi cui appartengono i singoli devianti. Il rischio, come già a fine Ottocento, torna ad essere qualcosa di riferibile ad entità collettive, mentre l’individuo in pratica scompare. Ancora una volta al deviante subentra "la classe pericolosa". La punitività si concentra cioè verso le categorie di soggetti percepite socialmente e istituzionalmente come fonti di rischio: in Europa sono gli immigrati, in America le minoranze etniche. Questa tendenza si riscontra anche nella giustizia minorile, dove la presenza di minori extracomunitari è prevalente.

 

Questa tendenza a reprimere, piuttosto che integrare, è il segno di una trasformazione della questione sociale in questione penale?
Il rischio è forte. Del resto, che sia in atto un disinvestimento pubblico rispetto alla politica sociale, a favore invece di un forte investimento nella politica criminale, è sotto gli occhi di tutti. Prova ne è che le carceri sono stracolme, nonostante gli indici di criminalità siano rimasti sostanzialmente stabili nel corso degli ultimi due decenni. Negli studi comparati emerge con chiarezza che i tassi di incarcerazione non si giustificano con riferimento ai tassi di criminalità, ma dipendono dalle diverse politiche sociali e penali e dal livello di diseguaglianza socio-economica che presentano. Appare precisa scelta politica destinare parte delle risorse prima orientate allo sviluppo di servizi sociali, sanitari ed educativi al potenziamento e al mantenimento di un sempre più esteso sistema carcerario. Anche perché fare della reclusione la strategia centrale nella lotta per la sicurezza dei cittadini vuol dire affrontare la questione con una lingua d’estrema attualità. Certo più attuale di qualunque strategia di prevenzione volta a rimuovere i fattori sociali, economici, culturali favorenti il crimine: idea tipica della fase espansiva del welfare...

Ma oltre alla sua rinnovata centralità, quel che merita segnalare è il radicale mutamento delle funzioni che il carcere è chiamato ad assolvere: da fabbrica di disciplina a mero contenitore di categorie pericolose. Gli orientamenti "attuariali" rappresentano infatti il superamento del modello correzionale, trattamentale, di presa in carico degli individui per la loro riabilitazione. Gestori ed esperti del sistema penale contemporaneo sembrano oggi aver abbandonato ogni dichiarazione di intenti alla riabilitazione. È in atto un passaggio, per usare l’espressione di Alessandro De Giorgi, dal "progressismo criminologico" allo "scetticismo criminologico". Lo dimostrano il ritorno della definizione del crimine come scelta razionale e l’abbandono dell’idea di una penalità come strumento di risocializzazione da collocarsi in un contesto più ampio di interventi volti ad eliminare le condizioni sociali del crimine. Questa visione progressista dei problemi è oggi largamente perdente.

Il ricorso al carcere appare più in sintonia con sentimenti e orientamenti diffusi nell’opinione pubblica. Un carcere inteso come luogo di esclusione dal corpo sociale, dove non si pensa più a trasformare i reclusi orientandoli alla produzione, all’ordine e all’interiorizzazione di codici comportamentali ispirati all’etica del lavoro operaio. Anche perché, a che serve trasformare i devianti in lavoratori di cui il sistema produttivo non ha bisogno?

 

Ha parlato di logiche "attuariali" nelle politiche di controllo. Questo significa che in prigione c’è gente "colpevole" solo di appartenere a categorie ritenute problematiche?
Può apparire sconcertante, ma c’è un dato empirico che attesta questo stato di cose: la presenza nelle carceri di una crescente percentuale di soggetti, appartenenti alle categorie considerate meritevoli di controllo, in attesa di giudizio. Il carcere, più che luogo di esecuzione di condanne pronunciate con sentenze definitive, gestisce oggi la custodia preventiva, che rappresenta per molti la vera pena, con una logica che contraddice i più elementari principi del sistema penale costituzionalmente orientato. Nei confronti degli immigrati, nell’intera Europa le pratiche poliziesche, giudiziarie e penali convergono, tanto che si può parlare di un vero processo di criminalizzazione degli immigrati che finisce, a causa dei suoi effetti criminogeni, per produrre il fenomeno stesso che si intende combattere. Perché naturalmente, oltre alla funzione di neutralizzazione, il carcere continua ad assolvere la funzione di perpetuamento e riproduzione della criminalità. Le prigioni si confermano scuola di criminalità, suscitando sentimenti di rivolta in chi è sottoposto a rituali "di rifiuto simbolico e di esclusione fisica".

 

Soprattutto per chi è minorenne, la prigione è stata in genere vista come istituzione da riformare, se non da superare. Oggi non più. È in corso un adeguamento del sistema penale minorile alle tendenze che ha descritto?
Certo quando si entra nel campo della giustizia minorile, alle tendenze oggi dominanti si oppongono fortunatamente molti e articolati filoni di pensiero e di azione politica e sociale. Dentro le stesse istituzioni - siano legislative, giudiziarie, penali o amministrative - la dialettica resta aperta, tanto che le politiche penali e le forme di controllo sociale appaiono mutevoli, contraddittorie, in parte almeno garantiste, spesso sensibili e attivamente impegnate in progetti di emancipazione delle persone. Alcuni indizi, tuttavia, fanno dire che anche in questo contesto, che a lungo ha espresso ben diversi orientamenti, è in atto uno scivolamento verso il "nuovo senso comune penale". E questo ancor prima di discutere le recenti proposte del governo.

Un indizio di deriva, ad esempio, è costituito dall’esistenza, oggi in Italia, di un "doppio processo penale minorile": uno che riguarda i minorenni italiani, l’altro celebrato a carico dei giovani stranieri o nomadi. Per le categorie "designate" sembra possibile mettere da parte molti dei principi fissati nei più importanti e altisonanti documenti che ispirano la giustizia minorile. Come il diritto ad avere un trattamento non differenziato sulla base del genere o della provenienza etnica; il diritto all’assistenza nel processo da parte dei genitori e/o dei servizi sociali; la riduzione al minimo della detenzione cautelare: la scelta di sanzioni che non comportino la privazione della libertà e che siano responsabilizzanti; in generale, quindi, il ricorso al carcere come ultima risorsa e per un tempo che sia il minimo possibile; e ancora l’impegno per il reinserimento sociale con coinvolgimento della famiglia, dei servizi del territorio, della comunità locale eccetera. La quotidiana esperienza dei Tribunali di mostra invece come si trattino i soggetti stranieri e nomadi non in quanto individui, ma in quanto appartenenti a una specifica categoria.

Dimostra come la personalità dell’imputato sia quasi sempre definita in base alle caratteristiche attribuite in maniera stereotipata allo stesso gruppo. Dimostra come scarso o nullo sia l’accompagnamento nelle fasi dell’iter processuale da parte dei servizi - in genere presenti e propositivi quando si tratta di minori italiani - e come assolutamente marginale sia, in genere, il ruolo della difesa. Dimostra come la stessa presenza di interpreti non garantisca che l’imputato comprenda a fondo i significati delle fasi processuali e delle misure adottate. Dimostra come, a volte, il rigoroso accertamento dei fatti attribuibili ad un singolo individuo lasci il posto alla presunzione di colpevolezza sulla base delle abitudini di comportamento del gruppo di appartenenza. Dimostra inoltre come la custodia cautelare in carcere sia il mezzo normale di trattamento della questione e che pressoché nessuno sforzo per l’invenzione di percorsi diversi di interazione e di "patto" con questi individui così apparentemente "intrattabili" si stia facendo seriamente.

 

Il ricorso alla custodia cautelare è motivato dal rischio che i ragazzi stranieri possano scappare, già oggi molti processi si celebrano senza imputato…

È vero, le difficoltà di applicare il codice di procedura minorile per i minori stranieri sono reali. Tuttavia questo dato appare, per routine o per convinzione, il comodo paravento dietro cui nascondere la scarsa disponibilità alla ricerca di strade nuove e possibili. La vicenda della Commissione congiunta, istituita dal Ministero di giustizia e dal Comune di Torino nel 2000 e incaricata di suggerire risposte diverse dall’inevitabile ed esclusivo ricorso al carcere per i minorenni stranieri, è in questo senso emblematica. Nessuna - dico nessuna - delle pur molte proposte di adattamento delle misure non detentive alla condizione dei minorenni stranieri è stata accolta e quindi continua ad essere "inevitabile" rispondere ai reati di questi ragazzi con il carcere.

Ma i motivi per cui questo doppio binario si è consolidato sono anche altri. Da un lato la presenza di problematiche non più interpretabili con le categorie consolidate della cultura giuridica minorile, quali il disagio evolutivo, la responsabilità del contesto socioculturale, la scarsa pericolosità sociale e la natura episodica del comportamento deviante. La giustizia minorile si trova oggi ad affrontare e trattare un "oggetto" per lei nuovo.

Dall’altro, la domanda sociale di controllo e contenimento delle forme nuove di marginalità e trasgressione, soprattutto quelle rappresentate dai soggetti non appartenenti alla cultura italiana, che attribuisce al giudice il compito di rispondere ad esigenze di difesa sociale e alla crescente domanda di sicurezza dei cittadini. Sempre più spesso il richiamo retorico al carcere come occasione di aggancio e magari di riscatto per i minori più inafferrabili copre l’obiettivo vero: contenere e limitare i danni sociali prodotti da soggetti sempre e comunque considerati recidivanti e pronti a fuggire.

Dunque, per rispondere all’obiezione che si fa per giustificare il ricorso al carcere preventivo: è vero, i ragazzi stranieri non vogliono farsi conoscere e appena possono scappano, ma è anche vero che nessuno si impegna a conoscerli, dal momento che mancano i presupposti di fiducia perché questo avvenga. Dobbiamo tenerli in carcere in attesa di un processo celebrato sempre con molto ritardo?

Gli stranieri in custodia cautelare arrivano a essere il 70, a volte l’80 per cento del totale delle presenze in alcuni istituti penali minorili. Per assenza di alternative e perché è ritenuto preminente il rischio di fuga e di reiterazione del reato - dal momento che la custodia cautelare non si giustificherebbe con il solo riferimento alla gravità del reato.

Dobbiamo accettare che gli IPM si riducano a essere contenitori temporanei di soggetti nomadi e stranieri, in genere per la fase della custodia cautelare? Fino ad alcuni anni fa, questo era sentito perlomeno come un problema, da affrontare e superare, oggi invece ci stiamo abituando a considerare il processo penale minorile come suscettibile di una doppia logica, magari in attesa che il sistema politico ne sancisca l’esistenza anche formalmente.

Ma che dire di una società che perde la fiducia nella possibilità di inserire socialmente chi non è ancora adulto, che si preoccupa soltanto di ridurre il potenziale offensivo di gruppi di minorenni, restringendoli in carcere, che non si rende disponibile a offrire concrete opportunità di formazione, lavoro, abitazione, legami sociali costruttivi? Diciamo che è un po’ triste, probabilmente condannata anche a essere più insicura, dato che si tratta di soggetti con un enorme futuro davanti a sé.

 

Dei recenti provvedimenti, è proprio questa filosofia a preoccupare giuristi e operatori sociali; poco recupero, molta repressione…

Beh, certo il rischio che il futuro di questi ragazzi sia compromesso da politiche penali troppo repressive c’è. Se il sistema penale minorile non tenta di mantenere aperta una contraddizione tra relazione educativa e custodia; se l’organizzazione della vita quotidiana dei ragazzi è pensata in funzione del maggior ordine e dei minori rischi, al costo di svuotare di senso il tempo trascorso in prigione; se il carcere si chiude progressivamente al territorio, agli "sguardi" dall’esterno, ecco se avviene tutto questo non solo non si opera più nell’interesse del minore, non se ne favorisce la responsabilizzazione, ma si riporta l’istituzione penale a quella dimensione piena di istituzione totale che tutta la cultura minorile ha con forza combattuto per anni.

All’obiezione diffusa, che la risposta penale è inevitabile a fronte di reati commessi ripetutamente dalle categorie di cui parliamo, si possono opporre due considerazioni: la prima attiene alla natura dei reati, la seconda all’effetto rinforzante - non deterrente - della stessa risposta penale.

Riguardo ai reati, i minori stranieri sono a tutti gli effetti l’anello debole, sovraesposto, di economie criminali gestite da adulti. La loro presenza è quasi tutta interna alle economie illegali "di servizio", ossia alle economie strutturalmente correlate a bisogni e domande di merci illegali - soprattutto droghe - espressi nel contesto sociale locale. Trovo paradossale come sia diverso il destino dei giovani italiani che acquistano qualche grammo di hashish da quello del coetaneo magrebino che mette a loro disposizione questa merce tanto sollecitata. Quel ragazzo è l’anello debole - su cui è molto facile che si eserciti la repressione che produce consenso - di catene complesse. Per lui l’impatto con le istituzioni penali significa in genere annullamento di ogni alternativa di vita non illegale. E qui veniamo al secondo ordine di considerazioni.

Mentre i minori italiani possono più facilmente evitare che la delinquenza iniziatica e occasionale si strutturi in carriera, gli stranieri molto meno. Per gli stranieri il rischio di essere coinvolti in percorsi strutturati di illegalità è forte, vuoi per le loro condizioni di base, vuoi per la scarsità di proposte rispetto a quanto offre loro la permanenza nel circuito delinquenziale, vuoi anche per gli effetti della reazione istituzionale. Perché rispondere alla durezza e provocatorietà dei loro atteggiamenti con altrettanta sfiducia e rigidità, immette dritti in un circuito di rinforzo dei ruoli che è privo di sbocchi. Chi viene rifiutato rifiuta. Reagire con la violenza significa provocare un circolo vizioso che non fa che confermare nel suo ruolo di reietto pericoloso, il soggetto e giustificare il carcere nella propria funzione di esclusione e repressione. In questo senso il carcere diventa lo strumento principale di una profezia che non può che avverarsi.

 

Rimangono fuori dal discorso alcuni punti, come la questione dell’imputabilità a 12 anni, l’inasprimento delle pene per chi ha 16 anni - età in cui, secondo il disegno di legge, il processo di maturazione dell’individuo è quasi interamente compiuto – e, soprattutto, la scelta di ridurre la presenza dei magistrati onorari; cioè psicologi, sociologi, educatori, dai collegi giudicanti…

La cultura giuridica minorile italiana è parsa in questi ultimi anni un po’ rassegnata e afona di fronte alle trasformazioni che hanno investito la realtà. Nessuno può negare che la realtà dei fenomeni su cui la giustizia minorile si trova ad operare presenti caratteri di elevata complessità o che su di essa si riversino contraddizioni sociali di grande portata, nonché carenze e limiti di altre istituzioni e più in generale di un contesto sociale che consegna alle aule dei Tribunali per i minorenni i suoi "prodotti di scarto".

Tuttavia ho l’impressione che qualcosa stia cambiando anche negli orientamenti dei giudici, ma più ancora nella loro consapevolezza circa il ruolo che vengono a ricoprire e alla finalità che assume il loro operare. Assorbiti nella routine, i giudici penali minorili sembrano aver perso la disponibilità a continuare a riflettere sul "senso" del loro giudicare e del loro decidere sui destini di individui in crescita e su come si debbano porre di fronte alla domanda insistente di soluzione o meglio di rimozione dei problemi.

Se ciò avviene, forse lo si deve anche all’affievolirsi del confronto tra chi è, nella giustizia minorile, portatore delle istanze tecnico - giuridiche e chi rappresenta le culture altre: i sociologi, i criminologi, gli psicologi, i pedagogisti. Eppure proprio nella ricchezza di questo confronto molti riconoscono la specificità e la fertilità delle prospettive coltivate in passato dalla giustizia minorile italiana. L’auspicio è che la contaminazione continui, per elaborare ancora politiche penali almeno un po’ coraggiose e idee capaci di rifiutare le logiche del mero buon senso.

 

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