In un'aula chiusi a chiave

 

Persone in un’aula chiusa a chiave

di Marco Lusardi, educatore al "Beccaria" di Milano

 

Corriere Lavoro, 4 ottobre 2002

 

Marco Lusardi, 42 anni, coordinatore della formazione professionale dell’Enaip all’interno dell’istituto penitenziale minorile Beccaria a Milano, vi ha messo piede per la prima volta 10 anni fa. Perito industriale, esperto di informatica, lavorava da poco più di 20 mesi all’Enaip quando è arrivata la proposta di insegnare in Beccaria.

"Allora era un progetto nuovo. Le uniche figure abbastanza delineate in quel settore erano gli educatori e anche per loro non esisteva ancora la laurea". Oggi al Beccaria lavorano, in stretta collaborazione, educatori ministeriali e comunali, docenti statali, operatori della formazione professionale, componenti dell’Unione italiana sport popolare e volontari, oltre agli agenti.

"Il mio compito principale è coordinare l’intervento dell’Enaip con quello delle altre agenzie". L’obiettivo comune è rieducare i ragazzi, circa 100, tra i 14 e i 21 anni. "La sfida è garantire le condizioni migliori per favorire cambiamenti positivi che li portino a scegliere di non commettere più reati. C è, però, anche il rischio che peggiorino". Spiegare una materia al Beccaria non è come farlo "fuori". A cominciare dal fatto che in una classe ci sono soltanto 6 allievi e che la porta dell’aula si chiude a chiave.

"Soprattutto, si ha a che fare con ragazzi più demotivati rispetto ai loro coetanei che partono da livelli di competenze molto differenziate, con tempi di permanenza nell’Ipm, e quindi anche a scuola, diversi". Una delle difficoltà maggiori che l’operatore nell’istituto penitenziario affronta è valorizzare il singolo individuo e il tempo che trascorre in carcere. "Una volta ogni due mesi ridiscutiamo con ogni ragazzo il progetto formativo per perfezionarlo. Riformuliamo un impegno reciproco e firmiamo un contratto". Un modo per far sentire alla persona che è importante.

 

I progetti di reinserimento dei giovani

 

L’Istituto penitenziale minorile è l’ultima destinazione per un ragazzo 14-21 anni che ha commesso un reato. La tappa iniziale è il Centro di prima accoglienza, struttura che fa capo alla Giustizia minorile. Entro 4 giorni il giudice decide se applicare la custodia cautelare in carcere o una misura alternativa.

"Di fronte a un minorenne si parte dal presupposto che il reato sia anche un sintomo di disagio, una richiesta d aiuto - dice Franco Occhiogrosso, presidente del Tribunale di Bari - Il principio è che non si nasce ladri, ma lo si diventa quando si incontrano problemi nello sviluppo della personalità".

Sottolinea Bianca Barbero Avanzini, ordinario di Sociologia della famiglia e Sociologia della devianza all’Università Cattolica di Milano: la Giustizia minorile dà un ruolo centrale alla rieducazione e al recupero. Nella maggioranza dei casi, quando non è dichiarata la pericolosità sociale, il giudice sospende il processo e concede al giovane imputato "la messa in prova".

I ragazzi in questo periodo hanno l’obbligo di permanenza in famiglia, o in comunità, e sono affidati all’Ufficio di servizio sociale per i minorenni che impone loro degli obiettivi, come lo studio, il lavoro o il risarcimento delle vittime. Se al termine del percorso il giudice li valuta recuperati, il reato è estinto e non compare sulla fedina penale. "Il 70 dei ragazzi per i quali abbiamo fatto un progetto di reinserimento ce l’hanno fatta", dice don Gino Rigoldi, cappellano del Beccaria.

 

 

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