Intervista a Domenico Arena

 

"Aiuto i giovani a rifarsi un vita"

Domenico Arena, ex direttore del carcere minorile di Torino

 

La Stampa, 15 ottobre 2003

 

"Noi mettiamo le risorse, loro una scelta di vita". È questo l’incontro fra istituzioni e minori secondo Domenico Arena, che per tre anni è stato il direttore del Ferrante Aporti, il carcere minorile noto per ospiti protagonisti delle cronache, ma anche porto di transito per vite ignote. Trentasette anni, laurea in Giurisprudenza, educatore dietro le sbarre a Trieste, a Pesaro e a Roma, poi, dopo il concorso, negli uffici di direzione a Napoli, a Civitavecchia e ancora a Roma, Arena lascia l’istituto di corso Unione Sovietica per un incarico al Provveditorato regionale.

 

Dottor Arena, che cosa significa essere "custodi" di ragazzi che hanno sbagliato, talora hanno commesso delitti terribili?

"Significa esattamente il contrario di quel che si intende per custodi. Certo, c’è la detenzione, ma a noi non tocca giudicare, né sul piano giuridico né su quello umano. I ragazzi sono capaci di cose meravigliose e di cose orribili. Da noi vengono persone comunque sofferenti (altrimenti non esisterebbero certi episodi) con le quali avviare un programma".

 

C’è comunque una sanzione penale…

"C’è una sanzione ed è la custodia, d’accordo. A noi spetta sostenerli pensando a domani".

 

A volte è una custodia breve, la "porta girevole" per cui si entra, si esce e si rientra…

"Questo è il nodo del problema minorile. Esiste una legislazione, ma non un ordinamento carcerario specifico. L’istituto funziona là dove c’è una rete con i servizi fuori dalle sbarre. Escono, approdano a Porta Nuova, o ai Murazzi, e da lì tornano qui".

 

La maggior parte sono stranieri…

"Il fatto che il 90 per cento siano stranieri non significa che i reati li commettano per il 90 per cento gli stranieri. Significa che tutte le misure alternative alla detenzione, previste da una normativa avanzatissima, si possono adottare là dove esiste una rete affidabile sul territorio. E quella ce l’hanno gli italiani"

 

I programmi di recupero sono il fine. Anche di fronte ad episodi atroci?

"Se non fosse così, non si lavorerebbe in quella realtà".

 

Lei ha visto transitare e sostare protagonisti della cronaca più recente, da Novi Ligure all’assassinio della suora di Chiavenna, fino all’omicidio di Desiré. Avviene qualcosa di diverso?

"No. È come per tutti gli altri. Non parlerò mai dei singoli casi. In generale posso dire che la vera diversità sta soltanto nel clamore. Tutti hanno un programma personalizzato, quindi anche queste persone. Nei casi di cronaca particolari è previsto un massiccio supporto psicologico, è ovvio, non un trattamento di riguardo, soltanto adeguato".

 

Ma che cosa distingue questi ragazzi dagli altri che hanno rubato o venduto hashish?

"Come ho detto prima noi non dobbiamo giudicare. Li distingue la gravità dell’episodio, quindi la condizione psicologica. E poi proprio il clamore. Noi cerchiamo di portarli alla realtà, invece le grida, i titoli, i telegiornali (non li critico, sono leciti) ne accentuano il protagonismo, li corazzano. La pressione non la avvertiamo noi, la avvertono loro".

 

Proverete pur delle emozioni di fronte a chi è precipitato in situazioni così tragiche. Avete anche voi delle famiglie…

"Senza retorica dico questo: hai di fronte ragazzi dei quali devi occuparti, non tenerli rinchiusi e basta".

 

A volte i ragazzi esagerano. È appena stata archiviata l’inchiesta sulla rivolta chiusa con una prova di forza…

"Nel carcere si creano tensioni. Ci sono ragazzi vissuti per le strade del mondo che sono più maturi della loro età, ci sono finti minorenni. Sempre, e ripeto sempre, le tensioni vengono affrontate con ogni mezzo pacato, il dialogo in testa. A volte la situazione degenera in modo da divenire pericolosa per loro stessi. Sono soddisfatto di come si è chiusa per tutto il personale la vicenda giudiziaria e lo sono come cittadino oltre che come operatore di giustizia che deve fare rispettare la legalità".

 

Quanto se li porterà dietro questi anni?

"Non quanto ma per quanto: per sempre. L’esperienza con i minori ti segna, ti coinvolge anima e corpo, ti amareggia e ti dà grandi soddisfazioni. Non ti dimentichi i piccoli passi avanti di chi ha invaso le cronache e quelli a volte lunghi e rapidi di chi è del tutto sconosciuto, ha sbagliato e si è rifatto una vita. Lui se l’è rifatta, noi gli abbiamo solo dato una mano".

 

 

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