Il lavoro penitenziario

 

Il lavoro penitenziario

di Monica Vitali (Giudice del lavoro presso il Tribunale di Milano)

 

La tutela dei diritti

 

Il problema della ripartizione delle competenze

 

La scarsità degli interventi giurisdizionali in materia di lavoro carcerario, è il dato che appare evidente nel momento in cui si affronta il tema della tutela dei diritti. Certamente, il primo motivo cui ricondurre tale situazione è la difficoltà ad instaurare controversie rispetto a lavori, in maggioranza domestici, scarsamente remunerati, rispetto ai quali viene ad essere disincentivato il ricorso allo strumento giudiziario.

D’altro canto, la povertà del panorama si ricollega, anche, alla scarsa visibilità sociale dei soggetti coinvolti nel problema, rispetto alla collettività che, da parte sua, sembra quasi infastidita dal doversi rapportare a individui facenti parte delle fasce deboli, quando si tratta di riconoscerli come destinatari di specifici interventi e diritti.

Tuttavia, la questione centrale che ha pregiudicato e limita, ancor oggi, in modo rilevante, ogni effettività dei diritti dei lavoratori detenuti, sul piano della tutela processuale, è la giurisdizionalizzazione ridotta di tali diritti, conseguente alla loro inefficace azionabilità sul piano giurisdizionale.

L’art. 69 V comma Legge n° 354, nella sua formulazione originale del 1975, prevedeva che il Magistrato di Sorveglianza decidesse i reclami dei detenuti. in materia di attribuzione della qualifica lavorativa, di mercede e remunerazione, di svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e di assicurazioni sociali, con un ordine di servizio, cioè un atto amministrativo non impugnabile.

La natura non giurisdizionale del procedimento disciplinato dall’art. 69 Legge n° 354/1975 era indiscussa, mentre la dottrina del tempo dibatteva, esclusivamente, il problema dell’individuazione dell’efficacia dello stesso ordine di servizio. sotto il profilo della sua vincolatività nei confronti dell’Amministrazione penitenziaria.

La soluzione, accolta peraltro solo da parte della dottrina e da alcuni esponenti di rilievo della Magistratura di Sorveglianza. fu di riconoscere effetto obbligatorio e vincolante all’ordine di servizio, argomentando che, in caso contrario, si sarebbe dovuto ammettere un potere meno ampio e incisivo del Magistrato di Sorveglianza rispetto al previgente sistema, malgrado il risalto attribuito dalla riforma del 1975 alla giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale.

Il legislatore del 1986 risolse il problema, attuando in modo più completo la giurisdizionalizzazione del procedimento di decisione dei reclami del detenuto. Venne previsto un procedimento speciale, regolamentato attraverso il rinvio dell’art. 69 VI comma Legge n° 354 cit. al procedimento giurisdizionale camerale di cui all’art. l4 ter Legge n° 354 cit. e l’ordine di servizio venne sostituito da un’ordinanza.

Il Magistrato di Sorveglianza decide, quindi, con ordinanza, impugnabile soltanto per cassazione, secondo la procedura di cui all’art. 14 ter cit., sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti:

  1. l’attribuzione della qualifica lavorativa;

  2. la mercede;

  3. la remunerazione;

  4. lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro; e) le assicurazioni sociali.

L’art. l4 ter, richiamato dalla norma in esame, pone, a sua volta, le regole procedimentali del reclamo: in primo luogo, relativamente alla sua proposizione, in secondo luogo, con riguardo alla sua trattazione, in un’udienza in camera di consiglio, in terzo luogo, sotto il profilo del rispetto del principio del contraddittorio, realizzato attraverso la partecipazione personale del difensore del reclamante e del pubblico ministero nonché attraverso la possibilità per l’interessato e l’amministrazione penitenziaria di inviare memorie, ed, infine, con riferimento alla decisione del giudice sotto forma di ordinanza.

La soluzione accolta dal legislatore del 1986 postula il carattere di giudice naturale, tendenzialmente universale, della Magistratura di Sorveglianza, per quanto riguarda "i diritti del detenuto coinvolti nel corso e a causa o in occasione del trattamento penitenziario", secondo l’espressione utilizzata dalla Corte Costituzionale in una recente decisione.

Oggi, la centralità della Magistratura di Sorveglianza appare, tuttavia, piuttosto discutibile e sostanzialmente ancorata ad una concezione superata dei rapporti di lavoro all’interno e all’esterno del carcere. Tale ricostruzione interpretativa non può ritenersi prevalente, rispetto al contrapposto principio di tendenziale omnicomprensività del rito speciale del lavoro, per le controversie riconducibili allo schema standard del rapporto di lavoro subordinato, dal momento che quest’ultimo rappresenta, ormai, il lavoro carcerario comune, anche all’interno degli istituti.

Una volta realizzatasi la privatizzazione del lavoro inframurario alle dipendenze di terzi, attraverso la riforma legislativa del 1993, confermata dal nuovo Regolamento e dalle indicazioni della Legge Smuraglia, la scelta legislativa in favore dei diversi lavori penitenziari, individuati e distinti dalla Corte Costituzionale nella più volte citata sentenza 30 novembre 1988 n° 1087, si è modificata, sia in termini qualitativi che quantitativi. Di conseguenza, si è ampliato il campo del lavoro alle dipendenze di imprenditori, privati o pubblici, e, corrispondentemente, si è ridotto quello del lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica, relegato, ormai, ai soli c.d. lavori domestici.

In questo mutato orizzonte legislativo, è allora difficilmente sostenibile che le controversie proposte dal lavoratore detenuto possano essere decise con lo strumento processuale dell’art. 69 VI comma Legge n° 354 1975, in situazioni diverse da quelle dei dipendenti dell’Amministrazione. È evidente, infatti, che, solo in quest’ultimo caso, l’Amministrazione penitenziaria ne viene coinvolta, come diretto datore di lavoro, e lo schema, sopra riportato, di un processo in camera di consiglio, con l’intervento del P.M., la presenza del solo difensore del detenuto e la possibilità per il datore di lavoro di presentare esclusivamente memorie scritte, può realizzarsi correttamente, senza alcuna lesione del diritto di difesa, trattandosi di un’Amministrazione pubblica, in quanto tale tenuta al rispetto della legge.

In ogni altra ipotesi, sia di lavoro extramurario che di lavorazioni inframurarie, il diritto derivante dal rapporto di lavoro verrebbe rivendicato dal lavoratore detenuto nei confronti di un datore di lavoro, diverso dall’Amministrazione penitenziaria, e cioè di un imprenditore, pubblico o privato, ovvero di una cooperativa, alla luce dell’avvenuta privatizzazione del sistema lavorativo carcerario e la conseguente perdita di rilevanza della direzione penitenziaria nella titolarità, organizzazione e gestione dell’attività lavorativa inframuraria, estranea all’originale impianto della Legge n° 663 1986. Ora, sostenere che il detenuto debba reclamare, secondo il rito dell’art. 14 ter cit., avanti il Magistrato di Sorveglianza e alla presenza del pubblico ministero, un atto di autonomia privata, posto in essere da un imprenditore privato oda una cooperativa sociale, che dovrebbero essere assimilati, sotto questo profilo, all’Amministrazione penitenziaria, e cioè ad una pubblica amministrazione, cui si riferisce espressamente la norma, in quanto datori di lavoro di un detenuto lavoratore all’interno o all’esterno della struttura detentiva, contrasta, in primo luogo, sul piano sostanziale, con i principi dell’autonomia privata.

Poi, sul piano processuale, con il principio del contraddittorio, perché riduce, sensibilmente, i diritti di difesa del datore di lavoro, che non avrebbe alcuna possibilità di contraddire, se non attraverso la presentazione di memorie scritte, al di fuori dei principi che disciplinano le controversie di lavoro.

Allo stesso modo, limita la possibilità di agire del lavoratore al solo piano dell’impugnabilità di un atto, per di più manifestazione di autonomia privata, per inosservanza della legge, secondo uno schema superato persino in materia di controversie di lavoro dei dipendenti pubblici.

Infine, finisce per ancorare il solo tema della tutela dei diritti a quella concezione della valenza terapeutica del lavoro penitenziario, che le novità legislative e la prassi quotidiana hanno largamente superato, incorrendo, in questo modo, in una vistosa contraddizione. Da un lato, infatti, si legittima il ricorso ad un procedimento speciale, riaffermando l’imprescindibile collegamento tra lavoro e trattamento penitenziario, in ogni attività lavorativa del detenuto, e, dall’altro, si ribadisce il perseguimento dell’obiettivo di sottoporre la vita negli istituti carcerari ai principi e alle regole generali dello Stato di diritto, in relazione all’assimilazione del lavoro carcerario a quello ordinario.

 

L’evoluzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale

 

Quest’ultima affermazione è contenuta, appunto, nella già citata sentenza 8 febbraio 1999 n° 26 che, riguardando il tema generale della tutela dei diritti dei detenuti nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria, contiene affermazioni di grande rilevanza.

In particolare, la Corte ribadisce il principio del primato della persona umana e dei suoi diritti, esclude che la restrizione della libertà personale possa comportare il disconoscimento di posizioni soggettive, attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria, e ne trae la naturale conseguenza sul piano della tutela dei diritti, affermando che al riconoscimento della titolarità di diritti deve corrispondere il riconoscimento del potere di farli valere, davanti a un giudice, in un procedimento di natura giurisdizionale.

La giurisprudenza della Corte Costituzionale, già da tempo, aveva dimostrato di aver presente la varietà di situazioni lavorative che, solo apparentemente, possono essere ricondotte ad un unico modello di lavoro carcerario e la necessità di intervento di un giudice dei diritti. In proposito, va ricordato come, sin dal 1978, la Corte Costituzionale aveva escluso la legittimazione dei Magistrati di Sorveglianza a sollevare questioni di costituzionalità nell’ambito del giudizio sui reclami in materia di lavoro, sul presupposto che fosse carente, in tale ipotesi, l’esercizio di una potestà giurisdizionale.

La Corte, argomentando dalla inesistenza nel procedimento per reclamo ex art. 69 Legge n° 354/1975 di garanzie a difesa delle parti, affermò che la tutela giurisdizionale vera e propria dovesse essere affidata al giudice dei diritti. Di conseguenza, di fronte all’inottemperanza dell’Amministrazione penitenziaria agli ordini di servizio del Magistrato di Sorveglianza in materia di lavoro, il rimedio seguito fu quello, suggerito dalla stessa Corte, di rivolgersi al giudice ordinario, che, nel caso di specie, era il Pretore del Lavoro. In questa materia, in sostanza, la Corte si attestò sin dall’inizio su una posizione di riconoscimento dell’insufficienza della tutela apprestata con il procedimento amministrativo, instaurato dal reclamo del detenuto in materia di lavoro, rilevando come quest’ultimo non fosse in grado di sostituire la tutela giurisdizionale, riservata al giudice dei diritti secondo le regole della competenza ordinaria, "non essendovi motivo di distinzione, a tale proposito, tra il normale lavoro subordinato e il lavoro dei detenuti".

Tale affermazione, peraltro, deve essere coordinata con l’altra fondamentale, desumibile parimenti dalla giurisprudenza della Corte, di cui alla citata sentenza 30 novembre 1988, n° 1087, sulla distinzione fondamentale tra lavoro intramurario, a sua volta suddiviso in lavoro domestico e lavorazioni, e lavoro extramurario.

Come già osservato introducendo in termini più generali il tema, la logica della differenziazione attraversa la stessa disciplina del lavoro carcerario, riducendo, sotto il profilo della nozione e della disciplina, quello inframurario a modalità trattamentale penitenziaria e valorizzando quello extramurario come modalità alternativa di esecuzione della pena.

L’evoluzione successiva della giurisprudenza della Corte Costituzionale si è mossa nel senso di giungere progressivamente all’accoglimento della distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità nell’ambito dei provvedimenti di competenza della Magistratura di Sorveglianza. tra provvedimenti relativi alle modalità di esecuzione della pena, attratti nell’area dell’amministrazione, e provvedimenti riguardanti la misura e la qualità della pena, attratti nell’area giurisdizionale. alla stregua della riserva di legge. Il punto attuale di approdo della giurisprudenza costituzionale è rappresentato dal riconoscimento della tutela giurisdizionale dei diritti, la cui violazione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizioni della libertà personale e dipenda da atti dell’amministrazione ad esso preposta. Con riferimento a tali situazioni, la Corte afferma la tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti spettante alla Magistratura di Sorveglianza, garanzia che "comporta il vaglio di legittimità pieno non solo del rispetto dei presupposti legislativi dettati all’amministrazione per l’adozione delle misure, ma anche dei loro contenuti, con particolare riferimento all’incidenza su non comprimibili diritti dei detenuti e degli internati, la cui garanzia rientra perciò, nel sistema attuale, nella giurisdizione del giudice ordinario".

 

L’involuzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione

 

Dopo un lungo periodo di silenzio, durato quasi dieci anni, la Corte di Cassazione ha, nuovamente, affrontato il tema della tutela dei diritti dei detenuti lavoratori in due sentenze, 21 luglio 1999 n° 490 e 14 dicembre 1999 n° 899, rese a Sezioni Unite, in conseguenza dell’inesatta prospettazione della questione, in termini di difetto di giurisdizione. Entrambe le decisioni hanno concluso per l’affermazione della competenza del Magistrato di Sorveglianza, in ordine alle controversie relative al lavoro prestato dai detenuti all’interno o all’esterno dello stabilimento penitenziario, a seguito dell’entrata in vigore della Legge 10 ottobre 1986 n° 663, che ha modificato l’art. 69 Legge n° 354: 1975, introducendo uno speciale procedimento giurisdizionale, in quanto tale idoneo ad assicurare la difesa dei diritti del detenuto ammesso al lavoro.

Queste decisioni della Cassazione non introducono alcun elemento di novità, laddove affermano che, dopo l’introduzione della c.d. Legge Gozzini, il procedimento dell’art. 69 cit., per i reclami in materia di lavoro dei detenuti, si è giurisdizionalizzato pienamente. In apparenza, poi, si allineano alla giurisprudenza costante della Corte Costituzionale, ed in particolare ai principi contenuti nella citata sentenza n° 261/1999, ma, in realtà, ne accolgono una lettura superficiale, che non tiene conto della varietà delle tipologie di lavoro penitenziario e della riforma legislativa del 1993, così da realizzare una sostanziale involuzione dell’interpretazione giurisprudenziale.

Nel suo ultimo intervento in materia, la Cassazione aveva, al contrario, affermato che l’attività di lavoro, svolta dal condannato all’interno della struttura carceraria, come le altre svolte alle dipendenze di terzi o in regime di semilibertà, va qualificata come inerente ad un rapporto di lavoro subordinato con l’Amministrazione penitenziaria e, quindi, assoggettato alla competenza del Pretore in funzione di giudice del lavoro.

La Corte non si era preoccupata, in questa decisione, di cogliere le differenze strutturali e genetiche dei diversi tipi di lavoro penitenziario, ma era, comunque, pervenuta, da un presupposto tradizionale, quello della funzione rieducativa del lavoro, ad un’interpretazione evolutiva.

Il punto centrale dell’argomentazione della Suprema Corte era l’assimilabilità del lavoro carcerario al lavoro libero, derivante dalle innovazioni introdotte dalla Legge n° 6631986 all’ordinamento penitenziario. Tale assimilabilità non assurge al livello di identità, in quanto la funzione rieducativa del lavoro penitenziario e la sua appartenenza allo schema riabilitativo ne escludono la riconducibilità al diverso schema normativo del lavoro libero, ma è, in ogni caso, sufficiente a ritenere la competenza del giudice del lavoro.

Le due sentenze del 1999, allo stesso modo, sembrano non recepire la diversità delle situazioni tra gli ammessi al lavoro all’esterno e gli addetti al lavoro all’interno dell’istituto, tra gli addetti ai lavori domestici e gli addetti alle lavorazioni.

Peraltro, nel seguire l’ultimo orientamento della Corte Costituzionale, trascurano la diversità del contesto normativo in cui si è posta la sentenza n° 26/1999 di quest’ultima. La Corte, in questa decisione, sancisce l’illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 Legge n° 354 cit., in quanto i reclami concessi ai ristretti dalla prima norma danno origine ad un procedimento privo di quei requisiti minimi, idonei a fornire un mezzo di tutela qualificabile come giurisdizionale, assicurati dalla seconda ai reclami in materia di attività lavorativa e disciplinare.

La tutela che la Corte intende assicurare è quella nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria, lesivi di diritti dei detenuti. Da questo punto di vista, la sua affermazione che il procedimento di cui all’art. 69 cit. garantisca il diritto costituzionale di azione in giudizio non esaurisce affatto l’ambito della tutela dei diritti dei lavoratori detenuti, dal momento che non riguarda la lesione di diritti correlati alla posizione di lavoratore, indipendenti da provvedimenti emessi dall’autorità carceraria.

Ciò emerge, chiaramente, dalla lettura dell’ordinanza di rimessione, che si riferisce al caso di due detenuti, che avevano reclamato il provvedimento della direzione dell’istituto che aveva trattenuto delle pubblicazioni, spedite in abbonamento e da familiari, in ragione del loro contenuto, asseritamente osceno. Allo stesso modo, dal testo della decisione dei giudici costituzionali, si ricava che "la presente questione di legittimità costituzionale riguarda (...) specificamente la tutela giurisdizionale dei diritti la cui violazione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale e dipenda da atti dell’amministrazione ad esso preposta".

La Cassazione, volendo seguire quest’impostazione argomentativa in materia di lavoro, nelle due decisioni in esame deve utilizzare, come presupposto delle sue conclusioni, l’ormai inesatta affermazione che "il lavoro penitenziario è svolto all’interno dello stabilimento carcerario ovvero all’esterno, ma sempre in favore della pubblica amministrazione, con inserimento del lavoratore nella organizzazione e per il conseguimento degli scopi di questa".

Si tratta di una premessa non più corretta e corrispondente al dato normativo: dall’analisi delle varie figure di lavoro penitenziario individuate, si desume, in primo luogo, come il lavoro penitenziario svolto all’esterno sia, di regola, in favore di soggetti del tutto diversi dalla pubblica amministrazione, senza alcun inserimento nella organizzazione pubblica. In secondo luogo, come il lavoro svolto all’interno del carcere possa essere in favore di soggetti estranei all’Amministrazione penitenziaria, per scopi tipicamente imprenditoriali o cooperativistici, e con inserimento del detenuto nella struttura organizzativa di tali datori di lavoro.

Il passo successivo della Corte di Cassazione è quello di ricavare dalla sentenza n° 2699 il principio della natura giurisdizionale del procedimento ex art. 69 cit., per giungere alla conclusione che tale procedimento è la soluzione giuridicamente più ragionevole, attese "le peculiarità del rapporto inserito in un contesto di attività del detenuto strettamente connesse e conseguenziali alla pena e, pertanto, istituzionalmente sottoposte alla sorveglianza del giudice penale".

 

La tutela avanti la Magistratura di Sorveglianza

 

Il criterio di ripartizione della competenza proposto risulta allora evidente: la tutela avanti la Magistratura di Sorveglianza, attraverso il procedimento speciale di cui all’art. 69 VI comma Legge n° 354 cit., deve essere limitata alle sole pretese dei detenuti addetti ai lavori c.d. domestici, rispetto alle quali mantiene ragionevolezza giuridica lo schema originariamente previsto per tutte le ipotesi di lavoro penitenziario.

Come si è ampiamente analizzato in precedenza, solo con riferimento a questi ultimi, l’Amministrazione penitenziaria è anche il diretto datore di lavoro del detenuto; in quanto tale, esercita il potere che le deriva congiuntamente a quello che le compete per effetto dell’esercizio del potere punitivo dello Stato.

In questa ipotesi si realizzano, quindi, tutte le condizioni erroneamente attribuite dalle recenti decisioni della Corte di Cassazione alle varie forme di lavoro penitenziario; in particolare, vale esclusivamente per i lavori domestici l’affermazione che si tratti di lavoro svolto in favore della pubblica amministrazione, con inserimento del lavoratore nell’organizzazione e negli scopi di questa.

Inoltre, solo con riferimento a questa tipologia di lavoro penitenziario, si può ancora parlare di un carattere di specialità dell’attività lavorativa svolta dal detenuto, dal momento che la particolare natura del datore di lavoro, lo Stato stesso, e dell’attività esercitata determinano un duplice limite alla applicabilità della normativa standard, con il risultato di rendere differenziato l’ambito della tutela giuridica riconoscibile ai detenuti.

Sotto questo profilo, la scelta di attribuire la decisione delle controversie al Magistrato di Sorveglianza, cioè al giudice penale che sovrintende all’esecuzione della pena e ne garantisce la legittimità in rapporto alle leggi vigenti, risulta giuridicamente ragionevole, attese "le peculiarità del rapporto inserito in un contesto di attività del detenuto strettamente connesse e conseguenziali alla pena e, pertanto, istituzionalmente sottoposte alla sorveglianza del giudice penale". In altri termini, risulta coerente con la funzione di garanzia dei diritti dei detenuti nei confronti dell’amministrazione, attribuita alla Magistratura di Sorveglianza dall’ordinamento penitenziario, nel suo impianto tradizionale.

Dal punto di vista processuale, poi, lo schema di procedimento. delineato dall’art. 69 VI comma cit. attraverso il richiamo all’art. 14 ter cit., risulta del tutto funzionale. L’esercizio, da parte dell’amministrazione carceraria, dei poteri che le competono come datore di lavoro si concreta, infatti, in atti, che incidono, direttamente, sull’attribuzione della qualifica, come pure sulla remunerazione, mentre, in materia di assicurazioni sociali, è già stata evidenziata l’esistenza di particolari convenzioni con gli istituti assicurativi, da parte del Ministero di giustizia. La costruzione del procedimento come reclamo contro un atto amministrativo, pretesamente lesivo di diritti, costituisce, quindi, una diversità strutturale rispetto al rito del lavoro, correlata alle particolarità del rapporto che ne viene coinvolto.

In ogni caso, la natura giurisdizionale, pacificamente riconosciuta al procedimento delineato dall’art. 69 VI comma cit., permette di ritenere salvaguardati i diritti fondamentali di difesa del reclamante. Ciò vale, soprattutto, per il mancato rispetto, in tale procedura, del principio del doppio grado di giurisdizione, dal momento che l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza è solo ricorribile in Cassazione. In proposito, occorre ricordare come la Corte Costituzionale abbia in più occasioni ribadito la legittimità di simili disposizioni P), valutate non incompatibili con i precetti della Costituzione.

 

La tutela avanti il Giudice del lavoro

 

Con riferimento ad ogni altro tipo di lavoro carcerario, la competenza a conoscere delle controversie tra il detenuto prestatore di lavoro e il suo datore di lavoro spetta, al contrario, al Giudice Unico di primo grado in funzione di giudice del lavoro.

Per quanto riguarda le preoccupazioni espresse nelle sentenze della Corte di Cassazione del 1999 e appena esaminate, è sufficiente osservare che tale riparto di competenza non vale a determinare una perdita di effettività della tutela giurisdizionale, dal momento che non interrompe quella dialettica con l’Amministrazione penitenziaria. parzialmente sovrapposta a quella delle parti, che dovrebbe caratterizzare l’attività del Magistrato di Sorveglianza.

In realtà, al di là della notazione che tale dialettica diretta si è dimostrata scarsamente presente (e basti pensare all’evoluzione storica del procedimento per reclamo e ai problemi nascenti dai passati rifiuti dell’Amministrazione penitenziaria a dare esecuzione ai provvedimenti della Magistratura di Sorveglianza, come pure alle odierne difficoltà, sia pure in presenza di strumenti giurisdizionali più efficaci), resta decisivo il rilievo che, in questi casi, i processi si svolgono tra due soggetti privati, senza alcun coinvolgimento diretto dell’Amministrazione penitenziaria, analogamente ad ogni altro processo del lavoro.

Infatti, le pretese verranno fatte valere da un lavoratore, ancorché detenuto, nei confronti del suo datore di lavoro, necessariamente soggetto distinto dall’amministrazione, secondo le norme di legge e di contratto applicabili al rapporto di lavoro in essere tra le parti. Ciò, anche nel caso in cui il datore di lavoro sia organizzato in forma cooperativa e il lavoratore detenuto sia socio d’opera, alla luce delle più recenti decisioni della Corte di Cassazione in materia.

Le situazioni in cui si può ipotizzare il ricorso allo strumento giurisdizionale specializzato del rito del lavoro sono quelle in cui, solitamente, controvertono lavoratori e datori di lavoro, quali il riconoscimento dello svolgimento di mansioni superiori, la condanna per differenze retributive, il riconoscimento dell’indennità sostitutiva del preavviso e così via.

Per quanto attiene, poi, il problema dell’impugnazione dei licenziamenti, è stato già ampiamente esaminato il diverso piano in cui debbono porsi ed essere valutati la cessazione del rapporto di lavoro, sottoposto alle regole della legislazione lavoristica, e le eventuali conseguenze della perdita, colpevole o meno, dell’occupazione lavorativa sul regime detentivo del lavoratore.

In questa sede, è sufficiente ricordare come, risultando il datore di lavoro vincolato dalla disciplina lavoristica standard, oggetto del giudizio potrà essere solo la legittimità e fondatezza del licenziamento individuale o collettivo, valutata secondo i parametri elaborati dalla dottrina e giurisprudenza civilistica in materia.

Sotto altro profilo, il rischio d’utilizzo del rito del lavoro è piuttosto quello di un sovraordinamento degli strumenti rispetto alle esigenze e alle capacità di chi dovrebbe fruirne: il processo del lavoro, sia pure con i contemperamenti che la giurisprudenza, soprattutto in tempi recenti, vi ha apportato.

resta, comunque, un processo che necessita di una assistenza tecnica di livello elevato, per il sistema di rigide preclusioni che lo contraddistingue e che ne condiziona l’esito.

D’altro canto, questo è il prezzo da pagare, per far transitare il lavoro penitenziario fuori dalla dimensione assistenziale, in cui è stato confinato sino ad oggi: certamente, non si tratta di un costo eccessivamente elevato, se solo si pensa ai benefici che da tale mutamento possono derivare, in termini di maggiore giustizia sostanziale e sicurezza sociale.

 

 

 

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