Il lavoro penitenziario

 

Il lavoro penitenziario

di Monica Vitali (Giudice del lavoro presso il Tribunale di Milano)

 

Il lavoro penitenziario: nozione e sviluppo legislativo

 

Evoluzione storica del lavoro penitenziario

 

Il tema del lavoro penitenziario aveva suscitato nei primi anni Settanta l’interesse di alcuni giuslavoristi, che ravvisarono nella disciplina, allora vigente, i segni persistenti di rapporti giuridici desueti e di modelli appartenenti ad un’epoca ormai remota. Il materiale normativo con cui tali autori si dovevano confrontare era ancora costituito dal R.D. 18 giugno 1931 n. 787, che considerava il condannato come privo di qualsiasi capacità di agire, attribuendo, in modo paternalistico, allo Stato una superiore funzione educativa e di tutela, con la conseguenza che il lavoro veniva concepito come parte integrante della pena e come strumento di ordine e disciplina. In quanto sottratto, in ogni suo aspetto, alla disponibilità del detenuto, il lavoro era un obbligo, ma, almeno nell’opinione prevalente, non un diritto, non faceva sorgere, di massima, interessi tutelabili giuridicamente, mancando ogni rapporto di corrispettività tra lavoro prestato e mercede ricevuta. Per ogni aspetto, il rapporto di lavoro del detenuto era appiattito sulla incombente e prevalente funzione punitiva assegnata all’istituzione carceraria.

La dottrina e la giurisprudenza, dal canto loro, non avevano sottoposto ad alcuna valutazione critica il lavoro carcerario, pur in presenza dei principi costituzionali - cardine del diritto del lavoro, ricostruendolo, in termini teorici, come una prestazione di diritto pubblico, non riconducibile allo schema del rapporto di lavoro subordinato in quanto nascente da un obbligo legale.

 

La novità della Legge sull’ordinamento penitenziario L. 26 luglio 1975 n. 354

 

La grande novità portata dalla L. 26 luglio 1975 n. 354 e dal successivo regolamento di esecuzione, D.P.R. 29 aprile 1976 n. 43l, sotto il profilo che qui interessa, è costituita proprio dal fatto che, pur essendo ribadita l’obbligatorietà del lavoro dei detenuti, il lavoro stesso tende a perdere il carattere afflittivo, per diventare un elemento cardine del trattamento penitenziario, diretto a rieducare il detenuto e a reinserirlo nella collettività, attraverso l’adozione di comportamenti conformi ai parametri correnti di normalità sociale.

Su di un piano più generale, viene a modificarsi la posizione del detenuto nei suoi rapporti con l’Amministrazione penitenziaria, nel senso che l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera (art. 20 L. n. 354/1975) e la determinazione delle remunerazioni dovute, a seconda della quantità e qualità del lavoro prestato, viene agganciata agli indici di adeguatezza fissati dalla contrattazione collettiva (art. 22 O.P.). Ciò non significa, peraltro, che sia accolto, in ambito di lavoro carcerario, il principio di corrispettività tra lavoro e retribuzione, conformemente ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza, di cui all’art. 36, 1 comma, Cost., dal momento che si parla di mercede, e non di retribuzione, e viene comunque mantenuta la trattenuta dei tre decimi finalizzata all’assistenza alle vittime del delitto.

Una valutazione complessiva della riforma non può, tuttavia, nascondere il fatto che alcune affermazioni, come quella concernente la necessità di far acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative, per agevolarne il reinserimento sociale, sono di carattere puramente pro grammatico e resteranno disattese già in sede di regolamento di attuazione.

In linea generale, poi, la modificazione tipologica del lavoro carcerario viene ridimensionata dallo stesso legislatore, in quanto la realizzazione delle finalità del trattamento viene condizionata al mantenimento della disciplina in carcere.

La legge di modifica dell’ordinamento penitenziario 10 ottobre 1986 n. 663, c.d. Legge Gozzini, prosegue sulla stessa linea di tendenza, rimuovendo alcune limitazioni, poste in precedenza, all’ammissione al lavoro all’esterno, introducendo una fase di controllo giurisdizionale nel procedimento che ne regola l’ammissione del detenuto e, soprattutto, abolendo la trattenuta dei tre decimi sulle mercedi. In quegli stessi anni, altre norme vengono a incidere sul tema del lavoro carcerario:

si tratta di disposizioni sparse in vari strumenti legislativi, quali la L. 28 febbraio 1987 n. 56 e il D.P.R. 18 maggio 1989 n. 248, che aumentano la sensazione dell’interprete di trovarsi di fronte ad un complesso normativo scoordinato e lacunoso, nel quale risulta difficile orientarsi per la frammentarietà e l’imprecisione dei testi normativi.

L’art. 19 L. 56/1987 attiva nuove competenze degli organi pubblici di collocamento per quanto riguarda la domanda di lavoro extramurario, ma non raggiunge grandi risultati per una serie di difficoltà che saranno evidenziate a suo tempo: in ogni caso, ciò che emerge è l’eccessiva prudenza del legislatore, auto limitatosi ad un intervento sulle sole procedure, senza dare spazio a sistemi di incentivazione alle aziende ed a miglioramenti sul piano della formazione professionale della popolazione detenuta.

Il D.P.R. 248/1989, poi, ha modificato il regolamento penitenziario in alcune sue parti relative al lavoro carcerario: anche in questo caso, tuttavia, l’intervento del legislatore pecca di scarsa incisività, restando confinato agli aspetti della disciplina e della sicurezza. Solo due norme (artt. 47 e 45) si ricollegano direttamente all’attuazione dell’art. 19 L. 56/1987, prevedendo i criteri e le modalità per l’assegnazione del lavoro ai detenuti.

 

La legislazione emergenziale

 

Le più recenti modificazioni legislative appartengono già alla fase cosiddetta emergenziale: la L. 12 agosto 1993 n. 296 ha, infatti, modificato gli artt. 20 e 21 e ha introdotto l’art. 20 bis L. 354/1975.

Sotto un primo profilo, il legislatore ha posto, almeno programmaticamente, sullo stesso piano la destinazione dei condannati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale, consentendo, da un lato, l’organizzazione di lavorazioni gestite direttamente da imprese pubbliche o private, con modalità specificatamente previste, e, dall’altro, l’istituzione di corsi di formazione professionale svolti da aziende pubbliche o private convenzionate.

Sotto un secondo profilo, è stato introdotto un meccanismo di assegnazione del lavoro intramurario, cioè un vero e proprio collocamento interno, che opera attraverso la formazione di graduatorie dei detenuti e di tabelle dei posti, mentre per il lavoro all’esterno vengono richiamate le norme sul collocamento ordinario e l’art. 19 L. n. 56/1987.

Questo quadro legislativo configura un’ulteriore fase storica del lavoro carcerario: una volta preso atto che, nella fase precedente, l’aumento delle misure alternative alla detenzione, realizzato dalla legge Gozzini, non aveva prodotto l’effetto sperato di ampliare le occasioni di lavoro extramurario per i detenuti e che l’opzione legislativa si è orientata verso un restringimento della possibilità di accesso ai benefici, necessariamente, il lavoro penitenziario deve modificarsi, nel senso di un allargamento delle ipotesi di lavoro intramurario in relazione alle ridotte possibilità di svolgimento di attività lavorative all’esterno, sia per le note limitazioni introdotte con l’art. 4 bis L. 354/75, sia per la nuova situazione del mercato del lavoro delineatasi sin dalla prima metà degli anni novanta.

La realtà attuale del lavoro nel mondo carcerario è, tuttavia, molto lontana dall’offrire una possibilità di occupazione intramuraria a tutti i detenuti: infatti, riesce a lavorare in carcere solo una esigua minoranza sul totale dei ristretti e la gran parte di questi, secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, è impegnata nei lavori c.d. domestici, mentre coloro che svolgono lavorazioni per la committenza pubblica e privata sono un numero quasi insignificante su base nazionale, anche se molto interessante sotto il profilo qualitativo di alcune esperienze.

 

Gli ultimi sviluppi legislativi

 

A distanza di sette anni dalle ultime modifiche alla L. 354, nel giugno 2000 sono stati adottati due importanti strumenti legislativi: il primo è costituito dal D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230, "Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, approvato, dopo un lungo e faticoso iter, dal Consiglio dei Ministri nella riunione del 16 giugno 2000.

Si tratta di una completa revisione delle norme di esecuzione della L. 26 luglio 1975 n. 354, resa necessaria dall’evoluzione delle strutture e delle disponibilità dell’amministrazione e dalle mutate esigenze trattamentali, nell’ambito di un diverso quadro legislativo di riferimento. Le singole disposizioni saranno esaminate in relazione ai vari tipi di lavoro penitenziario individuati: in linea generale, può rilevarsi come, in materia di organizzazione del lavoro, il nuovo regolamento recepisca l’impostazione contenuta nella novella del 1993, specificando le regole per l’organizzazione di lavorazioni penitenziarie, sia all’interno che all’esterno dell’istituto, gestite direttamente anche da imprenditori, pubblici o privati, o da cooperative sociali.

Il secondo è costituito dalla L. 22 giugno 2000 n. 193, c.d. Legge Smuraglia: recependo le indicazioni di larghi settori del privato sociale, il legislatore è finalmente intervenuto, modificando la definizione di persone svantaggiate contenuta nella disciplina sulle cooperative sociali, con l’aggiunta, alle categorie già contemplate dall’art. 4 L. 8 novembre 1991 n. 381, delle "persone detenute o internate negli istituti penitenziari".

Ha, poi, esteso il sistema di sgravi contributivi e fiscali, già previsto in favore delle cooperative sociali, alle aziende pubbliche o private che organizzino attività produttive o di servizi all’interno degli istituti penitenziari, impiegando persone detenute o internate, facendo, per la prima volta, un apprezzabile sforzo per rendere appetibile alle imprese esterne l’utilizzo della manodopera detenuta.

 

Il lavoro nella giurisprudenza della Corte Costituzionale

 

Un significativo contributo all’individuazione della nozione di lavoro penitenziario è stato offerto dalla pluriennale giurisprudenza della Corte Costituzionale. Fondamentale è in proposito la sentenza 30 novembre 1988 n. 1087 che, pur non essendo la prima in argomento, costituisce il punto di partenza per qualunque elaborazione sul tema. La Corte, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 L. 261uglio 1975 n. 354, ha sancito la distinzione tra lavoro dei detenuti e dei non detenuti, riconoscendo espressamente la peculiare funzione del lavoro dei primi, quale elemento fondamentale del trattamento rieducativo e del reinserimento sociale, senza che tale particolarità possa, tuttavia, concretarsi in minori garanzie per i lavoratori detenuti, certamente in contrasto con i principi costituzionali.

Il successivo passo dei giudici della Consulta è stato quello di individuare le diverse situazioni soggettive dei detenuti lavoratori corrispondenti a quattro diverse tipologie di rapporto di lavoro carcerario:

  1. il lavoro svolto all’interno dell’istituto, alle dipendenze della stessa Amministrazione Penitenziaria come addetti ai c.d. lavori domestici interni;

  2. il lavoro svolto all’interno dell’istituto, come addetti alle c.d. lavorazioni;

  3. il lavoro extramurario svolto in regime di semilibertà;

  4. il lavoro all’esterno di cui all’art. 21 L. 354/1975 alle dipendenze di un soggetto privato, ma sotto il diretto controllo della direzione carceraria.

L’argomentazione della Corte non sembra originale, laddove si adegua in forma acritica alla tesi penitenzialistica, secondo cui il lavoro carcerario, in quanto strumento per il recupero dei detenuti ed il loro riadattamento alla vita sociale, è una semplice modalità trattamentale, da valorizzare per i suoi scopi special-preventivi, che, tuttavia, non deve essere assoggettata alla disciplina del lavoro libero.

Risulta, al contrario, originale, nel momento in cui limita questa valutazione al solo lavoro inframurario alle dipendenze dell’Amministrazione, chiarendo che, per il lavoro extramurario, il rapporto che viene ad instaurarsi è disciplinato, nei suoi elementi essenziali, dal diritto comune. Le diverse situazioni di lavoro carcerario verranno esaminate una ad una, suddividendole, a fini espositivi, in tre categorie:

  1. il lavoro inframurario alle dipendenze della Amministrazione carceraria;

  2. il lavoro inframurario alle dipendenze di terzi;

  3. il lavoro extramurario, svolto in regime di lavoro all’esterno o di semilibertà.

Si affronteranno gli argomenti dell’evoluzione e dello svolgimento del rapporto, della sua costituzione e cessazione, sulla base del paradigma della riconducibilità di ciascuno al tipo legale di cui all’art. 2094 c.c., tentando di tenere distinti, sul piano degli effetti giuridici, il rapporto di lavoro, da un lato, e il rapporto punitivo, dall’altro. La riflessione riguarda anche la tipologia di lavoro per la quale tale distinzione appare più complessa, cioè il lavoro inframurario alle dipendenze della Amministrazione carceraria.

 

Le attività artigianali, intellettuali e artistiche

 

Nella figura generale del lavoro carcerario sono anche comprese altre realtà lavorative che meritano alcuni brevi cenni. In primo luogo, le attività artigianali, intellettuali e artistiche di cui all’art. 20 L. n. 354/1975 e all’art. 51 Regolamento; in secondo luogo, il lavoro a domicilio di cui all’art. 19 VI e VII comma L. 56/1987 e all’art. 52 Regolamento ed, infine, il lavoro autonomo di cui all’art. 48 XII comma Regolamento.

Per quanto riguarda le prime, l’art. 20 XV comma L. 354/1975 espressamente prevede che "I detenuti e gli internati che mostrino attitudini artigianali, culturali o artistiche possano essere esonerati dal lavoro ordinario all’interno del carcere ed essere ammessi ad esercitare, per proprio conto, attività artigianali, intellettuali o artistiche".

Tali attività autonome, in base alle disposizioni dell’art. 51 del nuovo regolamento, che ricalca, sotto questo aspetto, il precedente testo, si svolgono, fuori dalle ore destinate al lavoro ordinario, in locali appositi, ovvero, se non vi sia necessità di attrezzi ingombranti o pericolosi o non arrechino molestia, anche nelle celle. Il regolamento specifica che tali attività possono essere svolte da condannati e internati anche nelle ore dedicate al lavoro, con una autorizzazione specifica del direttore, sentito il gruppo di osservazione e trattamento: funzionano, in tal modo, come pienamente sostitutive del lavoro inframurario, con la ovvia prescrizione che siano allora svolte con impegno professionale.

Infine, queste attività sono assoggettate all’identico regime di prelievo per le spese processuali ed il risarcimento del danno cui sono sottoposte le altre remunerazioni dei condannati. L’ottica del legislatore è quella di permettere anche uno sbocco all’esterno dei prodotti realizzati dal detenuto, attraverso l’invio agli eventuali destinatari, così da rendere del tutto simili tali attività a quelle poste in essere come lavorazioni alle dipendenze di terzi, salvo il carattere autonomo, nel senso di auto - diretto, delle stesse.

 

Il lavoro a domicilio

 

Per quanto riguarda il lavoro a domicilio, si tratta di una tipologia introdotta come novità assoluta con la L. 56/1987. All’art. 19 VI e VII comma L. 56 cit., il legislatore non ha fornito alcuna definizione di tale tipo di lavoro inframurario, limitandosi a richiamare l’applicabilità delle norme sull’ordinamento penitenziario, in materia di lavoro artigianale, intellettuale e artistico, e preoccupandosi di ribadire, all’art. 52 Regolamento, le stesse modalità e condizioni di svolgimento,

già previste dal regolamento di esecuzione all’art. 51. Infatti, anche nel caso di lavoro a domicilio, il datore di lavoro deve versare alla Direzione carceraria le somme dovute al lavoratore, al netto delle ritenute di legge, dimostrando altresì l’avvenuto adempimento degli obblighi contributivi.

Nulla viene detto per quanto riguarda i modi di determinazione della retribuzione, ma, in proposito, si deve osservare come la dottrina avesse ammesso l’applicabilità della normativa ordinaria e, quindi, anche dell’art. 8 L. 18 dicembre 1973 n. 877, anche prima dell’esplicito riferimento al rispetto della normativa vigente, contenuto nel testo del nuovo art. 52 del Regolamento.

In linea generale, si è osservato come, nel caso del lavoro a domicilio carcerario, il nesso di compatibilità con la legge regolatrice della materia debba essere duplice, in quanto i limiti di attuazione della disciplina ordinaria derivano non solo dai connotati particolari della prestazione di lavoro, bensì anche dalla particolare condizione soggettiva del lavoratore detenuto. Ciò perché, se la specialità del lavoro a domicilio si radica, soprattutto, nella natura del luogo della prestazione, sottratto all’immediato controllo del datore di lavoro, nel lavoro a domicilio carcerario si verifica l’ulteriore particolarità che il lavoro non viene svolto nel domicilio abituale del lavoratore né, comunque, in locali di cui abbia la disponibilità.

Perciò, il rinvio alla disciplina del lavoro autonomo carcerario non assume alcuna valenza qualificatoria, nel senso di far rivivere il lavoro a domicilio autonomo, bensì va riferita alla regolamentazione delle concrete modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, sotto il profilo dell’individuazione dei locali

in cui svolgere il lavoro, l’uso degli strumenti necessari, il rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione, l’invio all’esterno dei beni prodotti: aspetti, questi ultimi, che vanno regolati tenendo in considerazione le peculiarità del luogo dove la prestazione si svolge e la condizione di privazione della libertà personale in cui versa il lavoratore a domicilio.

Il rinvio alle disposizioni del regolamento per il lavoro autonomo in materia di lavoro a domicilio diventa allora comprensibile e non smentisce la natura subordinata del lavoro a domicilio carcerario, restando limitato alla fissazione di una serie di regole, per il lavoro inframurario non gestito direttamente dall’Amministrazione penitenziaria, e ricollegate all’esistenza del rapporto punitivo in capo al prestatore di lavoro, essendo del tutto indifferente il carattere auto o etero - diretto della prestazione.

 

Il lavoro autonomo

 

Quanto, infine, al lavoro autonomo, non collegato allo svolgimento di attività artigianali, intellettuali o artistiche, già in precedenza, si era giunti, in via interpretativa, ad ammettere la possibilità dello svolgimento di un’attività di lavoro autonomo all’esterno, in assenza di preclusioni legislative espresse in proposito.

Il D.P.R. n. 248/1989 aveva, poi, modificato l’art. 46 XII comma del Regolamento, stabilendo che può essere disposta l’ammissione al lavoro esterno autonomo, alle stesse condizioni previste, in linea generale, dall’art. 21 I comma, L. 354/1975 per l’assegnazione al lavoro extramurario, sempre che il detenuto dimostri di possedere le attitudini necessarie e si possa dedicare a questa attività con impegno professionale.

L’art. 48 XII comma del nuovo Regolamento contiene una norma identica a quella del previgente testo: anche in questo caso, tuttavia, il condannato è tenuto a versare alla Direzione dell’istituto l’utile finanziario che gli deriva dall’attività di lavoro autonomo svolto, sul quale vengono effettuati i prelievi per le spese processuali ed il risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 24 L. 354/1975. Analogamente, l’art. 54 III comma del Regolamento permette di ritenere possibile lo svolgimento di lavoro autonomo in regime di semilibertà.

 

Le borse lavoro

 

Un ultimo cenno deve essere dedicato all’argomento delle c.d. borse lavoro, che pure rientrano nell’argomento del lavoro penitenziario, in senso lato. La borsa lavoro consiste nell’inserimento, a titolo gratuito, di lavoratori appartenenti alle aree del disagio sociale, quali tossicodipendenti, detenuti o ex detenuti, in imprese private, con la previsione della erogazione di una indennità a carico dell’ente pubblico di assistenza o che, in generale, ha in carico il soggetto a rischio.

La borsa lavoro viene solitamente assegnata, nell’ambito di convenzioni tra soggetti pubblici ed imprenditori privati, ovvero cooperative, allo scopo di facilitare l’ingresso di tali soggetti svantaggiati nel mondo del lavoro. Anche i detenuti possono usufruire di questa possibilità che assume, nei loro confronti, il carattere di presupposto per l’ammissione a forme di lavoro extramurario, garantite, solitamente, da enti locali territoriali che favoriscono, terminato il periodo di formazione professionale, l’inserimento lavorativo permanente del soggetto stesso.

Si tratta di un fenomeno molto diffuso, rispetto al quale esistono, peraltro, una serie di problemi di inquadramento giuridico. In particolare, sotto il profilo della riconducibilità di tali forme al paradigma del lavoro subordinato, con tutte le ovvie conseguenze, sul piano della disciplina del rapporto. Il contratto di borsa lavoro, è stato ricondotto allo schema di un contratto atipico, qualificato dalla sola causa dell’addestramento professionale e del recupero sociale, e non assimilabile in quanto tale, ad un rapporto di scambio, come quello di lavoro subordinato, con l’ovvia conseguenza di non poter usufruire del sistema di tutela apprestata dall’ordinamento per il lavoratore dipendente.

 

La tutela dei diritti

 

Il continuo intersecarsi tra situazioni giuridiche nascenti dal rapporto di lavoro e istanza punitiva dello Stato si riflette anche sul tema della tutela dei diritti.

L’argomento sarà trattato al termine dell’esame delle singole tipologie di lavoro penitenziario, quando saranno state identificate le varie posizioni giuridiche, vantate nelle diverse situazioni di lavoro extra e inframurario, ma, in questa sede di definizione della nozione di lavoro carcerario, è opportuna qualche premessa di carattere generale, sul tema delle procedure attraverso cui azionare giurisdizionalmente la tutela dei diritti riconosciuti a coloro che prestano una attività lavorativa durante la detenzione.

La norma fondamentale in ambito penitenziario è l’art. 69 VI comma L. 354/1975: tale disposizione stabilisce che il Magistrato di Sorveglianza decide con ordinanza, impugnabile soltanto per cassazione, secondo la procedura di cui all’art. 14 ter della stessa legge, sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti:

  1. l’attribuzione della qualifica lavorativa;

  2. la mercede;

  3. la remunerazione;

  4. lo svolgimento delle attività di tirocinio;

  5. lo svolgimento delle attività di lavoro;

  6. le assicurazioni sociali.

L’art. 14 ter citato, richiamato dalla norma in esame, pone, a sua volta, le regole procedimentali del reclamo, relativamente alla sua proposizione, alla trattazione dello stesso, in un’udienza in camera di consiglio, al rispetto del principio del contraddittorio, realizzato attraverso la partecipazione personale del difensore del reclamante e del pubblico ministero, nonché attraverso la possibilità per l’interessato e l’Amministrazione penitenziaria di inviare memorie, e, infine, alla decisione del giudice in forma di ordinanza.

In materia di tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria, l’evoluzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale si è mossa nel senso di giungere progressivamente all’accoglimento della distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, nell’ambito dei provvedimenti di competenza della Magistratura di Sorveglianza, tra provvedimenti relativi alle modalità di esecuzione della pena, attratti nell’area dell’amministrazione, e provvedimenti riguardanti la misura e la qualità della pena, attratti nell’area giurisdizionale alla stregua della riserva di legge.

Per quanto riguarda, poi, il tema specifico della tutela dei diritti nascenti dal rapporto di lavoro dei detenuti ed internati, sin dall’inizio, la Corte ha chiarito come il procedimento instaurato dal reclamo del detenuto in materia di lavoro non possa sostituire la tutela giurisdizionale, riservata al giudice dei diritti, secondo le regole della competenza ordinaria. "non essendovi motivo di distinzione, a tale proposito, tra il normale lavoro subordinato e il lavoro dei detenuti".

Ciò significa che, laddove vi sia il riconoscimento di una posizione di diritto soggettivo, connesso alla sussistenza in capo al detenuto della titolarità di un rapporto di lavoro, la relativa azione giurisdizionale dovrà essere fatta valere avanti il Giudice unico in funzione di Giudice del lavoro, secondo le norme processuali tipiche del processo del lavoro.

Tale affermazione, peraltro, deve essere coordinata con quella della differenziazione tra lavoro inframurario e lavoro extramurario, di cui alla citata sentenza n. 1087 della Corte Costituzionale, che, distinguendo queste due forme di lavoro, sotto il profilo della nozione e della disciplina, riduce la prima a modalità trattamentale penitenziaria e valorizza la seconda, come modalità alternativa di esecuzione della pena.

Questo necessario coordinamento e l’evoluzione normativa della disciplina delle c.d. lavorazioni, creano, tuttavia, una serie di problemi interpretativi in ordine al riparto delle competenze tra Magistratura di Sorveglianza e Giudice del Lavoro che dovranno essere esaminati nel capitolo dedicato al problema della tutela dei diritti.

 

 

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