Il lavoro penitenziario

 

Il lavoro penitenziario

di Monica Vitali (Giudice del lavoro presso il Tribunale di Milano)

 

Il lavoro inframurario alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria

 

La distinzione tra lavori domestici e lavorazioni

 

La definizione di lavoro inframurario è intuitiva, dal momento che il termine serve ad indicare ogni tipo di attività lavorativa svolta da detenuti all’interno dell’istituzione carceraria: la particolarità del luogo in cui si svolge è l’elemento qualificante.

All’interno di questa categoria, la distinzione fondamentale, che è già stata introdotta nel precedente capitolo, esaminando la giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia, è quella tra lavoro alle dipendenze della stessa Amministrazione penitenziaria e lavoro alle dipendenze di terzi. La contrapposizione strutturale tra questi due tipi di attività è icasticamente indicata dalla terminologia utilizzata comunemente per indicare queste due forme di lavoro carcerario.

Nel caso del lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione, si parla di c.d. lavori domestici per identificare, con assoluta certezza, tutta quella serie di compiti, vari e non solo domestici, che servono a far funzionare la macchina carceraria, come lo spesino, lo scrivano, lo scopino, l’addetto alla manutenzione, il cuoco, e cosi via. Nel caso del lavoro alle dipendenze di terzi si parla di lavorazioni, ponendo l’accento sul carattere produttivo di tali attività, contrapposto al carattere domestico e, per definizione, improduttivo del primo.

La distinzione va, comunque, sottolineata, dal momento che, nel secondo caso, è più agevole, soprattutto a seguito delle riforme legislative del 1993, cercare di applicare il nuovo e diverso criterio interpretativo nell’individuazione dei diritti del lavoratore detenuto, già delineato, e giungere alla conclusione che tali diritti sono gli stessi che ineriscono al rapporto di lavoro di ogni soggetto, salvo le necessarie limitazioni derivanti dalle esigenze di un regime detentivo e, quindi, gli indispensabili adattamenti legati alla condizione soggettiva di una delle parti del rapporto stesso.

Al contrario, nel caso dei lavori domestici alle dipendenze dirette dell’Amministrazione penitenziaria, tale conclusione non è affatto scontata, alla luce del carattere di specialità e della genesi non contrattuale che li contraddistingue.

 

Il lavoro per l’amministrazione: obbligo o diritto?

 

La prima caratteristica del lavoro inframurario alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria è l’assenza di quella trilateralità tipica di ogni altro tipo di lavoro carcerario. Infatti, manca, in questa ipotesi, un datore di lavoro distinto dall’amministrazione, così che la fondamentale distinzione tra rapporto punitivo e rapporto di lavoro appare molto più difficile da individuare nei suoi esatti contorni; allo stesso modo, risulta difficile, in concreto, identificare il momento di esercizio del potere derivante dall’uno e dall’altro rapporto da parte del medesimo soggetto che è titolare di entrambi.

L'altra caratteristica, strettamente connessa a questa, anche se relativa non più al piano strutturale del rapporto, bensì a quello genetico non contrattuale, è rappresentata dalla configurabilità del lavoro carcerario come diritto o obbligo: in altri termini, se pure ha perduto il carattere afflittivo che lo contraddistingueva prima dell’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario, il lavoro viene, ancor oggi, configurato come un obbligo per il detenuto, in quanto elemento cardine di un trattamento rieducativo globale, diretto a rieducarlo, appunto, e a rendere possibile il suo reinserimento nella collettività, attraverso l’imposizione di modelli di comportamento conformi ai parametri sociali.

Una delle precedenti stesure del testo della legge sull’ordinamento penitenziario recitava: "ai fini della rieducazione al condannato e all’internato è assicurato il lavoro", formula che aveva indotto gli interpreti a ritenere esistente un vero e proprio diritto soggettivo del detenuto al lavoro, mentre la formulazione definitiva dell’art. 20, 3° comma, L. 354 - "Il lavoro è obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro" - non autorizza più questa conclusione.

L’art. 50 Regolamento ribadisce questa impostazione, stabilendo che i condannati egli internati (cioè i sottoposti alle misure di sicurezza detentive della casa di lavoro e della colonia agricola), non ammessi al lavoro all’esterno, alla semilibertà o autorizzati allo svolgimento di attività artigianali, intellettuali o artistiche, ovvero al lavoro a domicilio, "per i quali non sia disponibile un lavoro rispondente ai criteri indicati nel sesto comma dell’art. 20 della legge, sono tenuti a svolgere un’altra attività tra quelle organizzate dall’istituto", cosi che l’obbligo del lavoro viene, ancora una volta, confermato come un elemento del trattamento rieducativo.

Del resto, l’art. 15 2° comma, L. 354/1975, dopo aver indicato nella triade tradizionale, istruzione, lavoro e religione, cui aggiunge le attività culturali, ricreative e sportive, il contenuto del trattamento, specifica, nuovamente, che: "Ai fini del trattamento, salvo casi d’impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro".

Ciò significa che è rimasto immutato il carattere di specialità del lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, dove la particolare natura del datore di lavoro, lo Stato stesso, e dell’attività esercitata, non finalizzata alla produzione, determinano un duplice limite all’applicabilità della normativa standard, con il risultato di rendere meno ampio l’ambito della tutela giuridica riconoscibile ai detenuti.

 

Assegnazione del lavoro e costituzione del rapporto

 

Se si passa a esaminare, allora, il primo aspetto del rapporto di lavoro, la sua costituzione, il punto più rilevante, è quello delle modalità di assegnazione al condannato di una posizione lavorativa all’interno dell’istituto; questione tanto più rilevante in una situazione come quella attuale, di cronica carenza di attività lavorativa inframuraria.

Solo con la modifica del sesto comma dell’art. 20 Legge n° 354, introdotta dalla Legge 12 agosto 1993 n° 296, sono state abbandonate quelle prerogative discrezionali riconosciute alla direzione carceraria nell’assegnazione al lavoro, che consentivano, in precedenza, di utilizzare l’assegnazione al lavoro in un’ottica, nel migliore dei casi, premiale.

La formulazione originaria della norma si limitava a prevedere che, ai fini delle assegnazioni dei detenuti al lavoro, la direzione dovesse tener conto dei loro desideri ed attitudini e delle condizioni economiche della famiglia.

Ora, invece, l’art. 20 VI comma Legge n° 354/1975 indica, in primo luogo, i criteri di priorità per l’assegnazione al lavoro, e, in secondo luogo, fissa una serie di procedure, così da tipizzare un vero e proprio sistema di collocamento dei detenuti, per lo svolgimento del solo lavoro inframurario. Per quanto riguarda il lavoro svolto all’esterno, è lo stesso art. 20 ai commi XI e XII a richiamare la disciplina generale del collocamento, ordinario e agricolo, e l’art. 19 Legge n° 56/1987, così che, in campo extramurario, si debbono ritenere applicabili le norme ordinarie, con i problemi di coordinamento che saranno esaminati nel capitolo relativo a quest’argomento.

Per il lavoro inframurario è stabilito che i criteri di priorità nell’assegnazione siano esclusivamente quelli dell’anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione, dei carichi familiari, della professionalità, delle precedenti e documentate attività svolte e di quelle a cui potrà il detenuto dedicarsi dopo la scarcerazione.

L’art. 49 del nuovo Regolamento, con una significativa innovazione rispetto al testo del corrispondente art. 47 D.P.R. n° 431 1976, contiene un secondo comma, nel quale si stabilisce che il direttore dell’istituto assicura imparzialità e trasparenza nelle assegnazioni al lavoro, avvalendosi anche del gruppo di osservazione e trattamento, così che viene sancita l’applicazione dei principi legali, cardine della buona amministrazione, anche in ambito penitenziario.

Quanto alle procedure, il collocamento avviene sulla base di graduatorie fissate in due apposite liste, una generica e l’altra per qualifica o mestiere; i posti di lavoro disponibili devono essere indicati in una tabella preparata dalla Direzione dell’istituto, suddivisi ai sensi dell’art. 47 X comma del nuovo Regolamento, identico al previgente art. 45 VIII comma D.P.R. n° 431 1976, in servizi d’istituto, lavorazioni interne e lavorazioni esterne. La tabella è modificata secondo il variare della situazione e contiene anche l’indicazione dei posti di lavoro disponibili all’interno per il lavoro a domicilio, nonché quelli disponibili all’esterno. Per la formazione delle graduatorie all’interno delle liste e per il nullaosta per le richieste di avviamento, in base all’art. 20 VIII comma Legge n° 354, presso ogni istituto è costituita una commissione cui partecipano:

il direttore dell’istituto;

  1. un rappresentante del Corpo di polizia penitenziaria (appartenente al ruolo degli ispettori o dei sovrintendenti);

  2. un rappresentante del personale educativo, eletti, questi ultimi due, all’interno della rispettiva categoria di appartenenza;

  3. un rappresentante designato unitariamente dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale;

  4. un rappresentante designato dalla commissione circoscrizionale per l’impiego territorialmente competente;

  5. un rappresentante delle organizzazioni sindacali territoriali;

  6. infine, un rappresentante dei detenuti, privo di potere deliberativo, che viene sorteggiato secondo le modalità stabilite dal regolamento interno di ciascun istituto.

 

Svolgimento del rapporto

 

Una volta assegnato il lavoro ed instauratosi il rapporto tra l’Amministrazione penitenziaria e il condannato, si tratta di verificare quali diritti, nascenti in capo al lavoratore libero, possano essere riconosciuti al detenuto dipendente dell’amministrazione, alla luce del carattere di specialità di tale tipologia di lavoro inframurario. Come detto, la particolare natura del datore di lavoro, coincidente con lo stesso soggetto esercente il potere punitivo dello Stato, e dell’attività esercitata, non finalizzata alla produzione, determina un duplice limite all’applicabilità della normativa standard.

Ora, l’art. 20 XVII comma Legge n° 354, in ordine allo svolgimento del rapporto, stabilisce significativamente che la durata della prestazione lavorativa non possa superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti e che, alla stregua di tali leggi, è garantito il riposo festivo. Di conseguenza, la durata della giornata lavorativa non può superare il limite giornaliero delle otto ore e deve essere garantito un giorno di riposo settimanale.

Come è stato osservato, inspiegabile, al contrario, appare il silenzio del legislatore in materia di ferie, non solo perché il diritto alle ferie è sancito come irrinunciabile dalla Costituzione per ogni lavoratore, in quanto diretto a consentirgli il recupero delle energie fisiche e morali, ben si anche perché l’ordinamento penitenziario prevede uno strumento premiale specifico, come i permessi premio (di durata non superiore a quindici giorni ogni volta e per complessivi giorni quarantacinque per ogni anno di espiazione di pena), per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro, che ben possono essere coordinati con la fruizione delle ferie.

Recentemente, con ordinanza 5 maggio 1999, il Magistrato di Sorveglianza di Agrigento ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 20 XVI comma Legge n° 354/1975 (attualmente XVII comma, a seguito delle modifiche introdotte con la Legge n° 193/2000), nella parte in cui non riconosce, oltre al diritto al riposo festivo e alla tutela assicurativa e previdenziale, il diritto alle ferie e alla relativa indennità sostitutiva nei confronti del detenuto lavoratore, con riferimento agli artt. 27 e 36 Cost..

Secondo il giudice remittente, il diritto a fruire delle ferie annuali, in aggiunta al riposo settimanale, non può non essere riconosciuto anche al detenuto-lavoratore, per garantire il suo diritto al recupero delle energie consumate durante l’attività lavorativa ed al soddisfacimento delle proprie esigenze personali. Inoltre, rileva il Magistrato di Sorveglianza di Agrigento, tale mancato riconoscimento rende il lavoro penitenziario "sicuramente più afflittivo", pregiudicandone la funzione rieducativa.

Al di là del silenzio della legge ordinaria ed in attesa della decisione della Corte Costituzionale, l’esistenza di un principio costituzionale in materia fa si che il diritto alle ferie debba, comunque, riconoscersi ai detenuti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria, in coincidenza con la concessione dei permessi premio, mentre, nei casi in cui ciò non sia possibile, per l’inapplicabilità nel caso concreto della disciplina di cui all’art. 30 ter Legge n° 354/1975, al detenuto lavoratore dovrà, comunque, essere riconosciuto un periodo retribuito, equivalente alla durata di non effettuazione dell’attività lavorativa, dedicato al riposo o alle attività sportive e ricreative esistenti (e usufruibili) all’interno dell’istituto.

Allo stesso modo, nel caso in cui il detenuto lavoratore opti per la rinuncia all’utilizzazione delle ferie, ritenuta legittima in questa ipotesi dalla dottrina, dovrà essergli riconosciuto il diritto alla relativa indennità sostitutiva.

Passando poi a diritti non ricavabili direttamente da norme di rango costituzionale, nessuna disposizione è rinvenibile con riferimento al diritto alle mansioni e alla qualifica contrattuale: la situazione per i detenuti addetti a lavori domestici è certamente semplificata alla luce del tipo di attività inframurarie che solitamente svolgono, nel senso che l’applicabilità della regola di cui all’art. 2103 c.c. sul divieto di assegnazione di mansioni inferiori appare di scarsa rilevanza in concreto, trattandosi di compiti professionalmente semplici e di livello equivalente. Peraltro, in astratto, non pare compatibile l’esistenza di un potere discrezionale della Direzione di modificare i compiti già assegnati al detenuto, con il complesso e oggettivo meccanismo di collocamento interno descritto al precedente paragrafo.

 

Diritti sindacali

 

Particolarmente delicato è il tema del riconoscimento dei diritti sindacali dei detenuti che lavorino all’interno dell’istituzione penitenziaria, come dipendenti dell’Amministrazione.

Per quanto riguarda il diritto di associazione sindacale, non pare ravvisabile nello status di detenuto alcun limite all’iscrizione dei condannati lavoranti ad associazioni sindacali già esistenti, sempre che l’organizzazione sindacale cui il soggetto si rivolga non ponga, all’interno del proprio statuto o atto costitutivo, vincoli all’accettazione della domanda di iscrizione, correlati, per esempio, all’incensuratezza o al più generico concetto di buona condotta morale e civile dei richiedenti l’ingresso nell’associazione. In questo caso, sarà l’organizzazione sindacale stessa a dover valutare la sussistenza o meno delle condizioni per poter

accogliere la domanda del detenuto, sulla base dei propri atti costitutivi e delle clausole dagli stessi previste, alla stregua di qualunque altra associazione. Allo stesso modo, nulla vieta che i detenuti costituiscano organizzazioni sindacali associandosi tra di loro, in virtù del principio costituzionale della libertà di associazione sindacale.

Certamente più problematico appare l’esercizio dei diritti sindacali in ambito penitenziario, dal momento che i vari momenti comuni della vita penitenziaria si inquadrano, di regola, entro uno schema organizzativo predeterminato da parte dell’autorità, senza che, normalmente, siano lasciati margini al di spiegarsi di autonome iniziative dei detenuti a sfondo partecipativo. Si tratta di verificare, in altri termini, lo spazio che potrebbero avere iniziative di tipo assembleare e rappresentative. rispetto alle quali, peraltro. non pare sostenibile

una inammissibilità teorica di strutture di tipo partecipativo, laddove non si pongano in contrasto con le esigenza di sicurezza all’interno degli istituti.

Quanto al diritto di sciopero, che è un diritto costituzionalmente garantito, la dottrina appare nettamente divisa tra chi evidenzia come non sussista alcuna incompatibilità con lo stato di detenzione e chi, al contrario, ritiene impossibile il ricorso allo sciopero in presenza dello status di detenuto.

 

Cessazione del rapporto

 

In tema di cessazione del rapporto, va osservato come in questa materia risulti necessariamente esclusa una diretta applicabilità di alcune nozioni giuslavoristiche, quali la giusta causa e il giustificato motivo per il recesso. Invero, l’ordinamento penitenziario prevede una disciplina speciale per l’allontanamento dal posto di lavoro del detenuto, definito di esclusione dalle attività lavorative (art. 53 Regolamento) in cui si prevede che il provvedimento relativo possa essere adottato dalla Direzione dell’istituto solo in presenza di fatti o comportamenti commessi durante il lavoro.

Nel Regolamento previgente (art. 50), erano contemplate due ipotesi tipiche: il sostanziale rifiuto dell’adempimento dei compiti e la mancanza di rendimento. Con una scelta condivisibile, la disposizione è stata modificata. limitando al solo caso del sostanziale rifiuto nell’adempimento dei suoi compiti e doveri lavorativi l’esclusione dall’attività lavorativa del detenuto.

e abbandonando l’equivoca formula della mancanza di rendimento, che si prestava ad abusi, in misura molto maggiore dell’ipotesi rimasta in vigore. La disposizione evidenzia l’equivoco di fondo che permea tutta la disciplina del lavoro inframurario, dal momento che in essa, da un lato, viene descritto un comportamento che, immediatamente, richiama alla mente il concetto civilistico di insubordinazione, riscontrabile in tutta la contrattazione collettiva come causa di licenziamento per giusta causa del lavoratore, e la nozione di inesatto adempimento della prestazione lavorativa, quale tipica causa di risoluzione del contratto a prestazioni sinallagmatiche. Dall’altro, si definisce la sanzione come esclusione dalle attività lavorative, ponendo l’accento sulla conseguenza più rilevante per il detenuto, cioè la perdita di quella limitata libertà di movimento e di contatti all’interno del carcere che contraddistingue la posizione dei lavoranti.

Esaminando l’unica ipotesi attualmente prevista dal Regolamento, va osservato come la lettera della norma sia stata modificata, in quanto si stabilisce l’esclusione dalle attività lavorative nei casi in cui il detenuto manifesti "un sostanziale rifiuto nell’adempimento dei suoi compiti e doveri lavorativi":

l’originaria disposizione regolamentare si esprimeva, invece, in termini di "un sostanziale rifiuto dell’adempimento dei suoi compiti". È rimasta la qualificazione del rifiuto come "sostanziale", che permette, ancora, di interpretare la regola nel senso che, per legittimare un provvedimento così grave, quale la rimozione dal lavoro, il rifiuto deve riferirsi al nucleo essenziale dei compiti assegnati al condannato e non a semplici elementi di dettaglio. L’aggiunta dei doveri lavorativi e la trasformazione della proposizione rende, tuttavia, più generica la previsione, collegando, in modo più sfumato, il comportamento sanzionabile con l’adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto di lavoro.

Del resto, la realtà dei fatti conferma quell’ambiguità latente in tutta la materia: chiunque abbia un minimo di esperienza di vita carceraria sa bene che i casi di rimozione dal lavoro avvengono, in larga misura, per motivi disciplinari. collegati a fatti indipendenti dal comportamento sul posto di lavoro del detenuto.

D’altro canto, l’art. 77 del Regolamento, nell’elencare i comportamenti passibili di una delle sanzioni disciplinari previste dall’art. 39 Legge n° 354/1975, al n° 3 prevede "il volontario inadempimento di obblighi lavorativi" che, certamente, è espressione ben diversa dal sostanziale rifiuto nell’adempimento dei compiti e dei doveri lavorativi, risultando connotata da un elemento soggettivo molto marcato. In altri termini, il sistema risultante dal complesso delle norme esaminate, perfettamente allineato con l’impostazione trattamentale dell’obbligo di lavoro, tende a colpire l’atteggiamento del detenuto che non lavori o lavori poco e malamente, sotto un duplice profilo, sia privandolo di quell’elemento del trattamento per il quale si è dimostrato immeritevole e inadatto. sia colpendolo sotto il profilo disciplinare. Nella pratica, però, l’allontanamento dal lavoro viene utilizzato illegittimamente per sanzionare comportamenti che nulla hanno a che fare con lo svolgimento dell’attività lavorativa, operando come ulteriore sanzione per infrazioni disciplinari di altro genere.

La sovrapposizione tra potere punitivo dello Stato e rapporto di lavoro emerge con tutta chiarezza: in questo caso, molto più difficile risulta, in concreto, identificare il momento di esercizio del potere derivante dall’uno e dall’altro rapporto da parte del medesimo soggetto, titolare di entrambi, che ne fa uso in modo indifferenziato.

Evidentemente, un simile utilizzo dell’istituto della rimozione, in violazione delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario, può essere contrastato attraverso il reclamo al Magistrato di Sorveglianza ai sensi dell’art. 69 lett. b) Legge n° 354/1975, che concerne l’osservanza delle norme riguardanti le condizioni di esercizio del potere disciplinare.

 

Mercede e retribuzione

 

La retribuzione del detenuto lavoratore è definita dalla legge come mercede: l’art. 22 Legge n° 354!1975 stabilisce che "Le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi".

Prevede, altresì, che, allo scopo di fissare le mercedi, sia costituita una commissione, composta:

  1. dal direttore generale, che la presiede;

  2. dal direttore dell’ufficio del lavoro dei detenuti e degli internati della direzione generale;

  3. da un ispettore generale;

  4. da un rappresentante del Ministero del tesoro;

  5. da un rappresentante del Ministero del lavoro e della previdenza sociale;

  6. da un delegato per ciascuna delle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale.

La semplice lettura della norma permette di notare, in primo luogo, che il legislatore utilizza l’espressione "mercede", invece di "retribuzione", quasi a marcare la scarsa produttività del lavoro carcerario e la giustificazione, sotto questo angolo visuale, della sua riduzione sul piano retributivo. Al lavoratore viene assicurato un compenso, non coordinato sinallagmaticamente alla prestazione, cioè non correlato ad essa in termini di corrispettività, e di ammontare inferiore a quello previsto per il lavoro libero. In secondo luogo, vi è comunque un riferimento, per la determinazione delle remunerazioni dovute, alla quantità e qualità del lavoro prestato e agli indici di adeguatezza fissati dalla contrattazione collettiva.

La previsione legislativa non vale, peraltro, a far ritenere che sia direttamente accolto in ambito di lavoro carcerario inframurario il principio di corrispettività tra lavoro e retribuzione, conformemente ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza.

In effetti, la Corte Costituzionale si è occupata del tema della retribuzione in varie sentenze, delle quali la più nota è la n° 49 del 18 febbraio 1992 con cui è stato dichiarato illegittimo, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, l’art. 23 Legge 354/1975, nella parte in cui stabilisce una riduzione dei tre decimi della mercede corrisposta per il lavoro dei detenuti, da versarsi alla Cassa per il soccorso e l’assistenza alle vittime dei delitti e, dopo la sua soppressione, alle Regioni e agli enti locali.

Da tale sentenza, che pure ha avuto l’importante conseguenza di permettere la restituzione delle somme trattenute ai condannati dopo la soppressione della Cassa e sino all’abrogazione della norma da parte della Legge Gozzini, a far data dal 31 ottobre 1986, non è dato ricavare alcuna argomentazione in ordine alla vigenza del principio di proporzionalità e sufficienza della mercede, in modo analogo a quanto accade per la retribuzione dei lavoratori liberi, in quanto la pronuncia di illegittimità costituzionale, per disparità di trattamento tra i condannati e gli altri cittadini, è stata affermata in relazione al venir meno del vincolo di solidarietà tra autori e vittime del reato, conseguente alla soppressione della Cassa per il soccorso e l’assistenza alle vittime e alla destinazione delle somme trattenute al soddisfacimento di interessi generali, che ha reso ingiustificate le trattenute stesse. In altri termini, la Corte ha ritenuto che "essendosi sostituiti alla Cassa enti portatori di interessi plurimi, sono venuti meno la specifica destinazione delle trattenute di cui trattasi al soddisfacimento dei bisogni delle vittime delle azioni delittuose e il vincolo di solidarietà tra detenuti e vittime dei delitti, sicché le trattenute sono dirette a soddisfare finalità di beneficenza pubblica. E siccome il relativo onere deve gravare sull’intera collettività e non solo sui detenuti che lavorano. sussiste violazione del richiamato art. 3 della Costituzione, ponendosi un’irrazionale ingiustificata discriminazione tra i detti detenuti e gli altri cittadini".

Più interessanti risultano, al contrario, le affermazioni contenute nella già citata sentenza n° 1087 del 1988, con la quale la Corte dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 22 Legge n° 354 1975, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 36 Cost.: la soluzione accolta dalla Corte è, comunque, una soluzione di compromesso, perché si basa sulla distinzione non solo tipologica, ma ontologica, tra lavoro carcerario e lavoro esterno, assimilabili, ma non identici, che rende ragionevole e giustificata la disparità di trattamento economico. La pronuncia arriva, però, ad ammettere l’operatività della garanzia costituzionale di cui all’art. 36 Cost. anche per il lavoro carcerario, ricostruendo l’art. 22 cit. nel senso che la remunerazione fissata in base a tale disposizione, per essere legittima, deve risultare conforme ai principi di proporzionalità e sufficienza di cui al dettato costituzionale. La conclusione è che, in caso contrario, il detenuto potrà rivolgersi al giudice del lavoro per ottenere la disapplicazione dell’atto amministrativo di determinazione della mercede.

Si tratta, come è evidente, di una soluzione poco convincente e contraddittoria con le premesse da cui muove, dal momento che l’affermazione della esistenza in capo al detenuto di un diritto tutelabile ex art. 36 Cost. avanti il giudice ordinario dovrebbe portare alla esclusione di un potere discrezionale dell’Amministrazione penitenziaria nella determinazione della mercede che, per rispondere ai requisiti di proporzionalità e sufficienza richiesti dalla Corte, non potrebbe che essere parametrata ai minimi contrattuali stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale.

La soluzione indicata dalla Corte resta quella della parificazione delle situazioni concrete attraverso la soluzione giudiziaria, con tutti i limiti e le possibili difformità di giudizio che questo comporta, a cui deve essere aggiunto il rischio, recentemente non più solo teorico, di un arretramento della giurisprudenza in ambito di tutela giurisdizionale del lavoratore detenuto.

 

La specialità dei lavori domestici

 

In conclusione, si è visto come per i lavori c.d. domestici alle dirette dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria risulti poco agevole applicare il nuovo e diverso criterio interpretativo nell’individuazione dei diritti del lavoratore detenuto già delineato e giungere alla conclusione che tali diritti sono gli stessi che ineriscono al rapporto di lavoro di ogni soggetto, salvo le necessarie limitazioni derivanti dalle esigenze di un regime detentivo e quindi gli indispensabili adattamenti legati alla condizione soggettiva di una delle parti del rapporto stesso.

A riprova del perdurante carattere di specialità di tale tipologia di lavoro, si può citare un parere sull’incidenza dell’effettuazione di lavoro domestico all’interno dell’istituto, in relazione alla maturazione dell’anzianità di iscrizione nella lista di disoccupazione di lunga durata, reso recentemente dalla direzione generale per l’impiego del Ministero del lavoro, in risposta a un quesito avanzato, in proposito, dalla Commissione Regionale per l’impiego della Lombardia, nella seduta del 3 maggio 1999, in cui è stata condivisa la soluzione prospettata, favorevole alla possibilità per il detenuto, impiegato nei lavori domestici, di maturare l’iscrizione in lista quale disoccupato di lunga durata. Soluzione, questa, prospettata proprio in considerazione del carattere obbligatorio di tale lavoro e della remunerazione, inferiore rispetto a quanto previsto nei contratti collettivi nazionali. per lo svolgimento delle medesime mansioni.

 

 

 

Precedente Home Su Successiva