Il lavoro penitenziario

 

Il lavoro penitenziario

di Monica Vitali (Giudice del lavoro presso il Tribunale di Milano)

 

Il lavoro extramurario: lavoro all’esterno e semilibertà

 

Lavoro all’esterno e semilibertà: presupposti e procedure di ammissione

 

Prima di esaminare, dettagliatamente, il tema del lavoro svolto dai detenuti all’esterno dell’istituzione penitenziaria, seguendo lo schema già utilizzato per il lavoro inframurario, occorre definire l’ambito, entro il quale si può, correttamente, parlare del lavoro come presupposto dell’ammissione a una modalità di esecuzione extramuraria della pena. Infatti, non è corretto parlare, genericamente, di misure alternative, posto che, all’interno del catalogo delle alternative alla detenzione a regime ordinario previste dall’ordinamento penitenziario, una sola misura, e cioè la semilibertà, richiede la presenza di un lavoro extramurario, come presupposto normativo all’ammissione al beneficio.

Da questo punto di vista, l’ossessione lavoristica, innescata da alcune prassi giurisprudenziali della Magistratura di Sorveglianza, ha portato a costruire l’attività lavorativa come presupposto necessario per l’ammissione a molte misure alter-

native, per esempio all’affidamento in prova al servizio sociale, mentre lo svolgimento di attività lavorative (ovvero istruttive o comunque utili al reinserimento sociale, secondo la formula contenuta nell’art. 48 Legge n° 354/1975) è richiesto dalla legge solo per l’ammissione al regime di semilibertà.

Per quanto riguarda, poi, il lavoro all’esterno, di cui all’art. 21 Legge n° 354/1975 e che costituisce la seconda tipica ipotesi di lavoro extramurario, va notato come, almeno nel disegno originario dell’ordinamento penitenziario, non configuri una vera e propria misura alternativa alla detenzione. Già la Legge n° 663/1986, c.d. Legge Gozzini, aveva sostituito l’originario testo dell’art. 21 cit., introducendo varie novità, tra cui, certamente, la più interessante era quella di aver subordinato il provvedimento di ammissione della direzione dell’istituto all’autorizzazione del Magistrato di Sorveglianza. Di fronte a queste modifiche, si poteva con una certa fondatezza sostenere che il lavoro all’esterno si era spostato dall’ambito delle modalità trattamentali a quello delle misure alternative alla detenzione, sia pure in senso lato: formalmente, rimaneva distinto dalla semilibertà, ma nella prassi la sostanza dell’istituto era divenuta quella di una modalità di esecuzione della pena extramuraria, sia pure meno stabilmente garantita, in assenza di un vero procedimento giurisdizionalizzato per la concessione e per la revoca, e con uno spazio di libertà più ridotto.

La successiva evoluzione normativa ha confermato questa parificazione: in primo luogo, la Legge 121uglio 1991 n° 203 ha limitato l’ammissione al lavoro all’esterno alle stesse condizioni restrittive cui sono subordinate le misure alternative.

In secondo luogo, l’art. 1 I comma Legge 22 giugno 2000 n° 193 prevede l’inclusione dei condannati ammessi al lavoro all’esterno nella nozione di persone svantaggiate, ai sensi e per gli effetti dell’art. 4 Legge n° 381/91, analogamente a quanto già stabilito per gli ammessi alle misure alternative alla detenzione, confermando lo spostamento di questo beneficio dall’ambito delle modalità trattamentali della pena a quello delle misure alternative alla detenzione in senso proprio.

Esaminando, ora, presupposti e procedure di ammissione di questi due istituti, va osservato come la competenza per la concessione (come pure per la revoca) della semilibertà spetti al Tribunale di Sorveglianza, nell’ambito delle regole procedimentali del processo di sorveglianza di cui agli artt. 677 ss. c.p.p.: l’ammissione va disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società (art. 50 IV comma Legge n° 354/1975).

Ora, senza entrare in dettagli del procedimento di concessione della semilibertà, che esulano dal tema del lavoro penitenziario, alcuni punti devono essere ribaditi. In primo luogo, risulta evidente come l’accertamento dell’esistenza dell’attività lavorativa, cui il detenuto indica di volersi dedicare se ammesso alla misura alternativa, sia parte fondamentale del procedimento di sorveglianza. Tale accertamento si tradurrà, sul piano dell’acquisizione probatoria, in un’attività istruttoria, da parte del Tribunale di Sorveglianza, il cui risultato, cioè le informazioni assunte in proposito, dovranno essere lette in udienza, alla presenza delle parti processuali, nel pieno rispetto del principio del contraddittorio. Sul piano della valutazione decisoria, invece, dovrà concretarsi in un’adeguata motivazione, in senso positivo o negativo, delle condizioni per il reinserimento del condannato.

In secondo luogo, il Tribunale di Sorveglianza non potrà valutare la certezza delle prospettive future di tale attività in termini di assolutezza, bensì di fiera relatività: ciò significa che, per esempio, nessun ostacolo può essere frapposto alla concessione della misura in presenza di un contratto di lavoro a tempo determinato, ovviamente di durata significativa, ovvero a tempo parziale, sempre che, in tale ultimo caso, il programma trattamentale disegni compiutamente le altre attività risocializzanti, cui il detenuto si dedicherà nel corso delle restanti ore della giornata, per esempio attività di lavoro autonomo ovvero di cura di familiari, in quanto utili al suo reinserimento sociale, secondo le previsioni dell’art. 101 Regolamento.

Inoltre, l’ammissione al regime di semilibertà potrà essere disposta anche in relazione ad un’attività di tipo autonomo, come le collaborazioni coordinate e continuative di tipo parasubordinato, estremamente diffuse nell’attuale mercato del lavoro: in presenza di un contratto tra le parti e di una qualche organizzazione imprenditoriale del contraente datore di lavoro, sarà verificabile quel carattere di relativa certezza delle prospettive lavorative future del condannato, cui fa cenno la giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Allo stesso modo, nessuna tipologia di lavoro può, in ipotesi, essere esclusa per l’ammissione al lavoro all’esterno, così che dovranno essere prese in considerazione sia le collaborazioni coordinate e continuative che i rapporti a termine, sia il lavoro autonomo che la prestazione in favore di cooperative sociali, nei limiti in cui permettano di realizzare le "condizioni idonee a garantire l’attuazione positiva degli scopi previsti dall’art. 15 Legge n° 354/1975" (art. 21 I comma Legge n° 354 cit.).

Rispetto al regime di semilibertà, in ogni caso, più semplice e meno garantita risulta la procedura di ammissione (e di revoca) del lavoro all’esterno. L’ammissione, infatti, è disposta con provvedimento della direzione dell’istituto, ex art. 48 I comma Regolamento, che diventa esecutivo dopo l’approvazione del Magistrato di Sorveglianza. Quest’ultimo, nell’approvare con decreto il provvedimento di ammissione, deve tenere conto del tipo di reato, della durata, effettiva o prevista, della misura privativa della libertà e della residua parte di essa, nonché dell’esigenza di prevenire il pericolo che il soggetto ammesso commetta altri reati.

Non è prevista, quindi, alcuna giurisdizionalizzazione della procedura di ammissione, nel senso che non è prevista l’applicazione del procedimento di sorveglianza. Peraltro, la circostanza che il decreto di approvazione sia adottato da un organo giurisdizionale non può essere priva di conseguenze, sul piano della qualificazione del decreto in termini di mero atto amministrativo ovvero giurisdizionale.

La Corte di Cassazione si è sempre pronunciata nel senso della natura amministrativa del provvedimento del Magistrato di Sorveglianza, argomentando che si tratta di un atto privo di autonomia dispositiva, che s’inserisce in un procedimento amministrativo. Per tali ragioni, la Corte ne ha escluso l’impugnabilità, anche sotto il profilo del ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.. "non potendosi la materia, riservata all’autorità carceraria, farsi rientrare in quella relativa alla libertà personale.

In senso diametralmente opposto si è, invece, pronunciato il giudice amministrativo, che non solo ha declinato la propria giurisdizione, ma si è anche espresso per la ricorribilità in Cassazione ex art. 111 Cost. del decreto stesso.

In effetti, nel sistema originario della legge sull’ordinamento penitenziario, il previo assenso del Magistrato di Sorveglianza per l’ammissione al lavoro all’esterno si configurava come un mero atto endo - procedimentale, privo di rilevanza esterna, in quanto inserito all’interno di una procedura amministrativa, di competenza dell’autorità penitenziaria.

Dopo le modifiche della Legge n° 663/1986, tuttavia, tale ricostruzione non appare più corretta: già la nuova titolazione dell’art. 21 Legge n° 354 cit. "lavoro all’esterno", in luogo dell’originario "modalità di lavoro", appare significativa. Decisivo, poi, è il rilievo che è stato accentuato il controllo di legalità sul provvedimento della direzione, attraverso l’intervento di un giudice terzo, che compie valutazione autonome, sulla base dei parametri indicati all’art. 48 IV comma Regolamento.

Resta, comunque, irrisolto il nodo della motivazione del decreto stesso: in proposito, è stato osservato come l’art. 69 V comma Legge n° 354/1975 parli in modo generico di decreto, laddove, in analoghe norme, il legislatore utilizzi l’espressione "decreto motivato", così da far ritenere non necessaria la motivazione del diniego all’approvazione dell’ammissione al lavoro all’esterno. Peraltro, tale affermazione contrasta con il dato sistematico, che evidenzia una linea di tendenza alla giurisdizionalizzazione dell’esecuzione della pena, che si coglie nell’indicazione normativa dei parametri cui il Magistrato di Sorveglianza deve attenersi, nella sua decisione.

 

La partecipazione degli enti locali all’inserimento lavorativo dei detenuti

 

La legge della Regione Piemonte 8 gennaio 1990 n° 1 rappresenta un interessante esempio di iniziativa di un ente locale, per tentare di offrire concrete opportunità lavorative a detenuti che possono accedere al lavoro all’esterno e alla semilibertà. La vicenda si presta ad alcune riflessioni, perché non solo la legge ebbe un iter piuttosto travagliato, ma venne anche sollevata una questione di legittimità avanti la Corte Costituzionale dalla Presidenza del Consiglio, che ne sosteneva l’incostituzionalità, in quanto adottata, al di fuori delle competenze regionali di cui all’art. 117 Cost., nella materia penitenziaria di stretta riserva statale.

La legge in esame, intitolata "Impiego sperimentale di detenuti in semilibertà o ammessi al lavoro all’esterno per lavori socialmente utili a protezione dell’ambiente", configura la possibilità di utilizzare i condannati, ammessi al lavoro extramurario, in progetti in materia di tutela dell’ambiente, presentati da Comuni e Comunità montane, progetti finanziati dalla regione stessa, anche sotto il profilo dei costi della manodopera e degli oneri assicurativi, previdenziali e assistenziali. Malgrado venga utilizzato il termine "attività lavorativa", è esplicitamente escluso che l’impiego dei detenuti nei progetti determini l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato con l’ente territoriale, in considerazione delle esclusive finalità sociali. La scelta tecnica è stata, quindi, quella di qualificare l’attività come, comunque, prestata alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, così da superare l’ostacolo costituito dall’interdizione legale dei condannati, che impediva l’instaurazione di un rapporto diretto con l’ente pubblico.

La Corte Costituzionale, dal canto suo, ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità sollevata dal Governo : nella sentenza, la Corte ha chiarito come la legge regionale non costituisca in alcun modo una indebita interferenza nell’ordinamento penitenziario di stretta competenza statuale, limitandosi ad offrire una opportunità di possibile impiego dei detenuti in attività, caratterizzate da scopi di utilità sociale, e lasciando salvo il controllo esclusivo della stessa Amministrazione penitenziaria sul personale impiegato e sulla durata dell’esperimento.

La Corte ha ribadito, anzi, che la partecipazione degli enti locali nell’opera di reinserimento dei detenuti è in piena sintonia con le finalità proprie dell’ordinamento penitenziario. secondo quanto previsto dalla stessa Legge n° 354/1975.

In questa stessa ottica si è mossa la Regione Lombardia che, nel capitolo 4 del Protocollo d’intesa con il Ministero di grazia e giustizia 22 febbraio 1999, già citato, si è impegnata ad assicurare uno stretto raccordo tra i percorsi di formazione professionale, promossi a favore dei detenuti, degli ammessi alle misure alternative e delle persone dimesse, e le reali esigenze occupazionali del mercato del lavoro regionale. Relativamente alle attività di avviamento al lavoro, la Regione Lombardia e il Ministero di giustizia s’impegnano nel Protocollo:

ad avviare una attività sistematica per informare i detenuti, le imprese e la cooperazione sociale su opportunità, servizi e agevolazioni per l’inserimento lavorativo e la nascita di attività imprenditoriali;

a coordinare e incrementare le forme di mediazione (borse lavoro, abbattimento degli oneri finanziari) a favore di imprese che assumono detenuti ammessi al lavoro all’esterno, a misure alternative e persone dimesse;

a rafforzare l’attuale rete di Servizi di Inserimento Lavorativo, sostenendone le competenze a favore dei detenuti e delle persone dimesse.

La legge regionale 18 gennaio 1999 n° 1 "Politiche regionali del lavoro e dei servizi per l’impiego", nell’ambito della disciplina dei compiti conferiti agli enti locali, ai sensi del D.Lgs. 23 dicembre 1997 n° 469, in materia di servizi per l’impiego e di politiche attive del lavoro, all’art. 10 chiarisce come la Regione Lombardia promuove misure di politica attiva del lavoro, finalizzate all’allargamento e alla qualificazione della base occupazionale, in relazione alle politiche formative ed ai servizi per l’impiego ed attraverso l’uso integrato di risorse comunitarie, nazionali e regionali.

L’azione regionale è finalizzata al sostegno, tra gli altri, ai soggetti appartenenti alle categorie deboli, attraverso interventi di erogazione di incentivi alle imprese, per l’assunzione a tempo indeterminato di ex detenuti e detenuti ammessi al lavoro esterno e di promozione di misure di orientamento, accompagnamento e formazione volte a favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, a favore dei soggetti deboli.

Infine, è previsto che il Consiglio regionale definisca annualmente, con una propria deliberazione, i criteri di attuazione degli interventi previsti dallo stesso art. 10, individuando i soggetti beneficiari, le tipologie e l’entità dei finanziamenti concedibili come pure il riparto delle risorse su base provinciale.

 

La parificazione al lavoro libero relativamente alla costituzione del rapporto

 

Esaminando ora i vari aspetti del lavoro extramurario, secondo lo stesso schema già seguito per il lavoro inframurario, occorre, in linea generale, osservare come il punto di interferenza tra la disciplina penale e quella lavoristica incida sul potere di autonomia negoziale di una sola delle parti, e cioè quella sottoposta alla misura privativa della libertà personale.

In altri termini, come sarà chiarito considerando lo svolgimento del rapporto di lavoro, nei suoi vari aspetti, la discriminazione della legge penale, nei confronti delle parti del contratto di lavoro, potrà influire direttamente solo sulla posizione del lavoratore detenuto, mantenendosi, cosi, su un piano distinto, anche se necessariamente correlato, rispetto a quello dell’autonomia negoziale delle parti.

Tale caratteristica era già stata evidenziata, con riferimento alle lavorazioni, nel nuovo assetto legislativo conseguente alla riforma del 1993, ma appare ancora più marcata nell’ambito del lavoro extramurario. Il primo aspetto, in cui tale influenza e, nello stesso tempo, separatezza, dei piani privatistico e penalistico deve essere evidenziata, è quello relativo alla costituzione del rapporto: come già detto, l’art. 20 Legge n° 354/1975 stabilisce che al lavoro extramurario si applicano la disciplina generale sul collocamento ordinario e agricolo, nonché l’art. 19 Legge 28 febbraio 1987 n° 56.

In questa sede non verranno affrontate le questioni specifiche, relative alla disciplina del collocamento, bensì il rapporto tra l’atto autorizzativo al lavoro extramurario, sia esso decreto di approvazione del lavoro all’esterno del Magistrato di Sorveglianza ovvero ordinanza di ammissione alla semilibertà del Tribunale di Sorveglianza, da un lato, e conclusione del contratto di lavoro con successiva comunicazione alla sezione circoscrizionale per l’impiego, dall’altro.

In particolare, già in precedenza, quando era vigente la disciplina del collocamento pubblico, si sosteneva che la conclusione positiva del procedimento di accertamento della sussistenza dei requisiti di idoneità al lavoro extramurario, da parte degli organi della giurisdizione rieducativa, costituisse condizione essenziale alla conclusione del contratto di lavoro, ma non potesse influire sul rilascio del nulla-osta da parte dell’ufficio di collocamento, atto vincolato unicamente al verificarsi delle condizioni normativamente previste.

Di conseguenza, l’atto di ammissione al lavoro extramurario poteva precedere o, anche, seguire l’atto di avviamento al lavoro esterno del detenuto. Parallelamente, l’eventuale mancata concessione della misura alternativa impediva il sorgere del rapporto di lavoro, costituendo, peraltro, giustificato motivo di rifiuto del posto di lavoro, tale da impedire la decadenza dal diritto all’indennità di disoccupazione e la cancellazione dalla lista di disoccupazione.

In conclusione, il procedimento di collocamento e il procedimento di ammissione alla misura alternativa agivano autonomamente, in base ai criteri che sovrintendevano alle distinte discipline che li regolavano, rappresentando procedure diverse, che si intersecavano nel punto di incidenza della legge penale sullo status di detenuto del contraente lavoratore.

Attualmente la situazione appare molto semplificata, per effetto della riforma del collocamento di cui alla Legge 28 novembre 1996 n° 608: una volta venuta meno la necessità del nullaosta all’avviamento al lavoro, a seguito della generalizzazione della regola dell’assunzione diretta, al datore di lavoro è fatto obbligo di inviare alla sezione circoscrizionale per l’impiego una comunicazione scritta contenente una serie di elementi, entro cinque giorni dall’assunzione. Tale comunicazione sostituisce il precedente procedimento di autorizzazione, che consentiva un controllo amministrativo sulla richiesta nominativa, eccezione alla regola, e dovrà essere effettuata una volta stipulato il contratto di lavoro, indipendentemente dalla presenza o meno dell’atto di ammissione al lavoro extramurario.

 

La parificazione al lavoro libero relativamente allo svolgimento del rapporto

 

Per quanto riguarda lo svolgimento del rapporto di lavoro extramurario, risulta evidente l’applicabilità di tutti gli istituti riconducibili alla disciplina standard, fatte salve alcune eccezioni in materia, per esempio, di espletamento di lavoro notturno, difficilmente compatibile con lo status di detenuto ammesso alla semilibertà o al lavoro all’esterno. L’art. 48 XI comma del Regolamento esplicita tale applicabilità, affermando che "I detenuti e gli internati ammessi al lavoro all’esterno esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti alla esecuzione della misura".

Naturalmente, in caso di lavoro esterno, sarà applicabile al lavoratore condannato il contratto collettivo, vigente all’interno dell’azienda presso cui è occupato, allo stesso modo in cui viene applicato agli altri dipendenti, sotto il profilo c.d. normativo.

Esaminando i singoli istituti, come già rilevato in tema di lavoro inframurario, l’art. 20 XVII comma Legge n° 354 cit., in ordine allo svolgimento del rapporto, stabilisce significativamente che la durata della prestazione lavorativa non possa superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti e che, alla stregua di tali leggi, è garantito il riposo festivo. Di conseguenza, anche in questo caso, la durata della giornata lavorativa non può superare il limite giornaliero delle otto ore e deve essere garantito un giorno di riposo settimanale, fatte salve le previsioni dei contratti collettivi, per esempio in materia di riduzione di orario di lavoro.

Già in precedenza, è stato messo in rilievo l’incomprensibile silenzio del legislatore in materia di ferie: in questa ipotesi di lavoro extramurario, appare agevole richiamare gli strumenti penitenziari specifici, costituiti dai permessi-premio, per gli ammessi al lavoro all’esterno, e dalle licenze, di cui all’art. 52 Legge n° 354/1975, per i semiliberi, (concedibili entrambi per quarantacinque giorni per ogni anno di espiazione di pena), strumenti che potranno essere coordinati con la fruizione delle ferie. Nei casi in cui la fruizione di permessi e licenze non sia possibile, occorre ribadire il diritto del detenuto lavoratore a un periodo retribuito di non effettuazione dell’attività lavorativa, dedicato al riposo o alle attività sportive e ricreative esistenti (e usufruibili) all’interno dell’istituto.

Quanto ai diritti non ricavabili direttamente da norme di rango costituzionale, come già visto, nessuna disposizione è rinvenibile nell’ordinamento penitenziario con riferimento al diritto alle mansioni e alla qualifica contrattuale. Tuttavia, l’equiparabilità alla normativa standard comporta l’applicabilità della regola di cui all’art. 2103 c.c. sul divieto di assegnazione di mansioni inferiori e sulla promozione automatica, in caso di svolgimento di mansioni superiori rispetto al livello di inquadramento. Per quanto riguarda, poi, l’eventuale trasferimento da una unità produttiva ad un’altra del lavoratore detenuto, sotto il profilo privatistico, i poteri del datore di lavoro non differiscono da quelli esercita bili nei confronti di qualunque altro suo dipendente.

Dal punto di vista penitenziario, si tratterà, invece, di predisporre la modifica del programma di trattamento, con riferimento al nuovo luogo di lavoro e al percorso per raggiungerlo, sulla base della comunicazione del datore di lavoro e della relativa attività istruttoria, ove ritenuta necessaria, del Magistrato di Sorveglianza, in caso di semilibero, ovvero del direttore dell’istituto, nel caso di ammesso al lavoro all’esterno.

 

La parificazione al lavoro libero relativamente ai diritti sindacali

 

Con riferimento al tema del riconoscimento dei diritti sindacali, la parificazione dei lavoratori all’esterno con i lavoratori liberi, non comporta difficoltà particolari. Per quanto riguarda il diritto di associazione sindacale, come già più volte ricordato, non pare ravvisabile nello status di detenuto alcun limite all’iscrizione ad associazioni sindacali già esistenti, sempre che l’organizzazione sindacale, cui il soggetto si rivolga, non ponga, all’interno del proprio statuto o atto costitutivo, vincoli all’accettazione della domanda di iscrizione, correlati, per esempio, all’incensuratezza o al più generico concetto di buona condotta morale e civile dei richiedenti l’ingresso nell’associazione. In questo caso, sarà l’organizzazione sindacale stessa a dover valutare la sussistenza o meno delle condizioni per poter accogliere la domanda del detenuto, sulla base dei propri atti istitutivi e delle clausole dagli stessi previste, alla stregua di qualunque altra associazione.

Certamente agevole appare, poi, nel caso di lavoro extramurario, l’esercizio dei diritti sindacali, dal momento che, sotto questo profilo, nessun limite può nascere dalla condizione di detenuto che lavora all’esterno della struttura penitenziaria, in termini di diritto a partecipare alle iniziative di tipo assembleare e rappresentative, condotte sul posto di lavoro, nel rispetto delle previsioni legislative e della contrattazione collettiva nazionale e di livello aziendale.

Quanto al diritto di sciopero, che è un diritto costituzionalmente garantito, come già notato in precedenza, la dottrina appare nettamente divisa, tra chi mette in evidenza che, comunque, non sussiste alcuna incompatibilità tra lo stato di detenzione e l’esercizio del diritto di sciopero e chi, al contrario, ritiene impossibile il ricorso allo sciopero, in presenza dello status di detenuto. In argomento, nessuna incertezza deve sussistere nel caso del lavoro svolto all’esterno, rispetto al quale la differenziazione dal lavoro libero si ricollega solamente alla condizione soggettiva del prestato re d’opera e non può incidere sul piano delle relazioni tra detenuto lavoratore e impresa datrice di lavoro.

 

La parificazione al lavoro libero relativamente alla cessazione del rapporto

 

Il tema della cessazione del rapporto, analogamente a quello della costituzione, rappresenta un punto di necessaria interferenza tra disciplina privatistica e penale. La distinzione tra rapporto punitivo e rapporto di lavoro comporta che la cessazione del secondo sia compiutamente disciplinata dalla normativa standard: il datore di lavoro sarà vincolato dalla disciplina lavoristica e potrà intimare il licenziamento individuale solo per giusta causa o giustificato motivo, per iscritto e con comunicazione dei motivi, ove richiesto dal prestatore d’opera, secondo le previsioni dell’art. 2 Legge n° 604/1966, ovvero il licenziamento collettivo nel rispetto della procedura di cui alla Legge n° 223/1991, mentre la valutazione della legittimità del recesso intimato al lavoratore detenuto andrà operata secondo i parametri elaborati dalla dottrina e giurisprudenza lavoristica.

Quanto al caso in cui il detenuto presti la sua attività lavorativa esterna nell’ambito di una cooperativa come socio lavoratore, come già rilevato, la giurisprudenza appare consolidata nell’escludere, laddove non sia ravvisabile alcuna utilizzazione fraudolenta dello schema cooperativistico, la riconducibilità delle prestazioni di un socio di cooperativa, svolta in conformità dei fini statutari, alla fattispecie del lavoro subordinato.

Di conseguenza, la cooperativa non incontra i vincoli sopra delineati in materia di recesso individuale che resta regolato dalle norme di diritto comune. Il problema più complesso è costituito, invece, dalle conseguenze che la perdita dell’attività lavorativa per effetto di un licenziamento ovvero di dimissioni determina sull’ammissione alla semilibertà o al lavoro all’esterno. In primo luogo, per quanto riguarda la semilibertà, la misura alternativa può essere revocata solo quando "il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento" (art. 51 Legge n° 354/1975), così che non esiste alcun automatismo tra perdita dell’attività lavorativa, in se considerata, e revoca della misura alternativa. Per quanto, invece, riguarda l’ammissione al lavoro all’esterno, non sussiste alcuna norma che ne disciplini le condizioni della revoca, rimessa alla valutazione discrezionale della Direzione dell’istituto, in relazione agli esiti del programma di trattamento personalizzato. Va notato, tuttavia, come la revoca stessa divenga esecutiva solo dopo l’approvazione del Magistrato di Sorveglianza, secondo la nuova previsione dell’art. 48 XV comma del Regolamento.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione, in più occasioni, ha accolto una tesi particolarmente restrittiva in tema di revoca della semilibertà, configurandone come presupposto il semplice venir meno dell’attività lavorativa, indipendentemente dalla valutazione dei motivi di questa perdita e, quindi, dell’inidoneità o meno del soggetto a continuare il trattamento extramurario, anche se ciò è in contrasto con la lettera della legge sull’ordinamento penitenziario.

L’argomentazione, alquanto semplicistica, di questa restrittiva interpretazione giurisprudenziale trae origine dalla considerazione che "il concreto ed effettivo svolgimento di un’attività lavorativa non solo è il presupposto indispensabile per l’ammissione al regime di semilibertà, ma è anche condizione per il permanere della misura alternativa: il provvedimento di revoca è perciò doveroso in tutti i casi in cui l’attività lavorativa esterna non può più essere prestata, e quindi anche nel caso di licenziamento senza colpa".

Ora, la lettera dell’art. 51 Legge n° 354/1975, non supporta, in alcun modo, tale ricostruzione dell’istituto della revoca. Al contrario, la formulazione della norma fa chiaramente riferimento alla valutazione del comportamento del soggetto, ammesso alla misura alternativa, rivelatosi incapace di gestire in modo corretto il beneficio. Ciò significa che si tratterà di verificare, caso per caso, se la perdita del posto di lavoro, per le cause e le modalità con cui si è realizzata, sia, effettivamente, manifestazione dell’inidoneità al trattamento extramurario. Nella gran parte dei casi, un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, in quanto caratterizzato da un inadempimento, più o meno rilevante, agli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, sarà indice dell’incapacità del detenuto a gestire l’ammissione alla misura alternativa. Viceversa, le dimissioni del lavoratore per giusta causa , ovvero un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero un licenziamento collettivo, in quanto ricollegabili ad eventi del tutto indipendenti dal comportamento del semilibero, non dovranno avere alcuna influenza sul giudizio di idoneità dello stesso al trattamento extramurario. In questi ultimi casi, si tratterà di modificare il programma di trattamento per un congruo spazio di tempo.

in modo tale da rendere possibile per il detenuto l’avvio della ricerca di una nuova occupazione lavorativa e l’instaurazione di una trattativa in tal senso, supportato anche dagli operatori penitenziari.

 

La parificazione al lavoro libero relativamente a retribuzione e obblighi a carico del datore di lavoro

 

Come già evidenziato in precedenza, la dottrina sin dall’inizio ha ritenuto inapplicabile ad ogni forma di lavoro extramurario l’art. 22 Legge n° 354/1975, nella parte in cui prevede che la retribuzione dei detenuti possa essere inferiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva di settore. Inserita in un rapporto di scambio, la retribuzione dovrà conformarsi ai caratteri di onerosità e corrispettività, tipici del contratto di lavoro, commisurandosi alla quantità e qualità del lavoro prestato, secondo gli stessi parametri individuati dalle parti collettive per la generalità dei lavoratori.

Analogamente agli altri momenti del rapporto di lavoro carcerario, sussiste, anche per questo aspetto, un punto di necessaria interferenza tra disciplina civilistica e penale: la distinzione tra rapporto punitivo e rapporto di lavoro comporta l’estraneità del primo alla definizione del contenuto dell’obbligazione retributiva.

Tale estraneità agisce non solo sulla determinazione del corrispettivo, rimessa alla libera contrattazione collettiva e individuale delle parti, ma anche sotto il profilo dell’impossibilità di configurare, a carico del datore di lavoro, posizioni di obbligo nei confronti dello Stato, il cui comando, concretizzatosi nel rapporto punitivo, può indirizzarsi esclusivamente verso il lavoratore detenuto. La questione è, sostanzialmente, quella, alquanto dibattuta, del dovere legale, imposto al datore di lavoro, dall’art. 54 I comma Regolamento per i semiliberi e dall’art. 48 X comma Regolamento per gli ammessi al lavoro all’esterno, di versare la retribuzione del dipendente alla direzione carceraria, per rendere possibile l’applicazione delle norme riguardanti le trattenute dovute a fini risarcitori e di rimborso delle spese legali e di mantenimento. In proposito, la Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi, affermando che la norma regolamentare, il previgente art. 51 I comma, analogo all’attuale art. 54 I comma, contiene una disposizione che integra la previsione legislativa, senza contrastare in alcun modo con la ratio della semilibertà.

Le argomentazioni della Corte si fondano sul rilievo che la stipulazione del contratto di lavoro e lo svolgimento del conseguente rapporto non sono rimesse all’esclusiva autonomia del detenuto, dal momento che le vicende della misura alternativa interagiscono sul rapporto. Conseguentemente, il detenuto in semilibertà resta, comunque, detenuto e non può essere esonerato dal divieto di disporre di moneta all’interno dell’istituto, in deroga alle limitazioni stabilite dallo stesso regolamento per l’ammontare dei beni provenienti dall’esterno.

Peraltro, tale interpretazione sovrappone il piano del rapporto punitivo, intercorrente tra il detenuto e lo Stato, a quello del rapporto di lavoro, intercorrente tra il lavoratore (detenuto) e il suo datore di lavoro. Certamente, al lavoratore semilibero, in quanto detenuto, devono essere applicate le norme in materia di prelievi sulla remunerazione e di peculio, contenute negli artt. 24 e 25 Legge n° 354 1975 e 56 e 57 del Regolamento, ma l’aspetto in discussione è se il versamento della retribuzione possa essere imposto direttamente al datore di lavoro, ovvero al solo lavoratore detenuto, in occasione del pagamento del compenso. La soluzione più corretta appare essere quest’ultima, in quanto il datore di lavoro assume, semplicemente, la veste di necessario collaboratore del lavoratore nell’adempimento dell’obbligo che gli deriva dalla posizione di detenuto.

 

 

 

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