Arborea: il carcere è una fattoria

 

Ad Arborea il carcere è una fattoria

Il progetto di don Usai finanziato da Regione e diocesi: "Ma adesso ci manteniamo con i nostri ortaggi"

 

Corriere della Sera, 18 agosto 2003

 

C’è una fattoria nelle campagne del Sassu, in Sardegna, vicino ad Arborea, dove lavorano in ventisette. Sono di quattordici nazionalità diverse, tutti soci a busta paga della cooperativa "Il Samaritano". Guadagnano ogni settimana dai 50 ai 70 euro a testa, a seconda di quanti pomodori, zucchine, melanzane e altri ortaggi riescono a vendere. Hanno a disposizione 40 ettari di terra, 4 mila metri di serre, e da quattro giorni anche un box nel mercato civico di Oristano. E sono tutti detenuti. Il fattore è don Giovanni Usai, 58 anni il 7 luglio scorso, che oltre a fare il cappellano nel carcere di Isili, oltre a essere il parroco di Sant’Anna e Tiria, nell’Oristanese, oltre a studiare la geografia linguistica dell’isola, coordina le attività dell’azienda agricola inaugurata il 22 novembre scorso: la "Casa di Nostra Signora di Bonacatu", che significa della Buona accoglienza. La prima, e finora unica, casa di accoglienza per detenuti ammessi alle pene alternative o agli arresti domiciliari. Un modello che l’altroieri il Guardasigilli Roberto Castelli indicava come "punto di riferimento da esportare per la validità dei metodi di reinserimento degli ex carcerati".

Un esempio da imitare, forse anche perché qui gli "ospiti", anziché costare allo Stato 60 mila euro l’anno ciascuno, sono autosufficienti: producono quanto consumano. E perché i quattro corpi che compongono la fattoria - il chiostro, i laboratori, la mensa e gli appartamenti dei volontari - si trovano su un terreno dato in concessione dall’Ersat (l’Ente regionale di sviluppo e assistenza tecnica in agricoltura) e sono stati costruiti grazie al finanziamento della Regione Sardegna e alle offerte della diocesi guidata dall’arcivescovo Pier Giuliano Tiddia.

Senza don Giovanni Usai questa casa di accoglienza priva di lucchetti o garitte, soltanto le zanzariere alle finestre, non esisterebbe. Senza questo sacerdote che nell’89 non ha avuto dubbi tra scegliere se continuare a insegnare Linguistica all’Università di Sassari o fare a tempo pieno il cappellano della colonia penale di Isili. "Negli anni ‘80 cominciavano a esserci i primi detenuti extracomunitari - racconta - e io, appassionato di geografia linguistica, ero intrigatissimo all’idea di scoprire i loro dialetti". È sempre per un problema di varianti linguistiche che don Usai decise di accogliere nella sua casa parrocchiale i detenuti in permesso premio, i quali altrimenti non avrebbero saputo da dove telefonare ai familiari. "La prima bolletta fu di otto milioni - ride - ma concordai il pagamento rateale". Non sempre le sue iniziative furono comprese dai compaesani. "Nel ‘91 ospitai un ragazzo che doveva scontare gli arresti domiciliari. La gente di Senis raccolse le firme per farlo allontanare. Ma io fui irremovibile. Finì che chiesi al vescovo una casa più grande: da allora hanno abitato con me 1.000 persone".

L’idea del centro pilota di Arborea risale a pochi anni fa. "Non posso sopportare che i detenuti stiano 24 ore a oziare - spiega -. Il carcere è una struttura repressiva, ti chiede di rispettare le sue regole, ma non ti educa a ritornare nella società. Ne parlai con l’allora presidente della Regione, Federico Palomba. Pensavo a un’azienda come i monasteri benedettini, in cui la giornata è scandita dalla regola ora et labora: riflessione e lavoro. Il Consiglio regionale votò all’unanimità il progetto e lo inserì nella Finanziaria con un articolo di legge: era il 1999".

Nel Duemila è nata l’associazione "Il Samaritano", diventata poi la cooperativa sociale di oggi: i soci sono detenuti ammessi all’articolo 21, agli arresti domiciliari, semiliberi e in affido ai servizi sociali. Più un agronomo, un tecnico e un ex detenuto che aiutano don Usai, "e che sono a libro paga, come gli altri". "L’80% dei carcerati è recidivo perché dietro le sbarre non ha imparato nulla - conclude il fattore-cappellano -. L’Italia è piena di terreni incolti del demanio. Forse è arrivato il momento di sfruttarli per educare un detenuto a diventare responsabile. Di sé e degli altri".

 

 

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