Giornalismo dal carcere

 

Uomini Liberi, numero di febbraio 2005

(Mensile dalla Casa Circondariale di Lodi)

 

Incontro con il sindaco di Lodi, Aurelio Ferrari

Difensore civico, una tutela per i diritti di chi è più debole

Il carcere di Lodi riapre i cancelli a chi vive "fuori"

Non bisogna deludere le legittime attese della cittadinanza

Troppi luoghi comuni da smontare

Informarsi di più, per non lasciarsi sfuggire diritti e benefici

La vostra grande voglia di dimostrarvi "uomini liberi"

L’addio a Morsello: un pensiero e un augurio per l’ormai ex direttore

La droga chiamata video poker: spero di trovare un aiuto per uscirne

Gigi, professione ladro: perché ho restituito un portafoglio

Diamo più spazio all’allegria, un po’ meno al "bla bla bla"

Il mio sogno... è come il vento mai spento

Un’occupazione esterna, per mantenere la famiglia

Un progetto per riavvicinarsi a mogli e figli

Il lavoro dell’educatore carcerario non consiste nel giudicare

L’esecuzione della pena tra la pura repressione e la protezione sociale

Incontro con il sindaco di Lodi, Aurelio Ferrari

 

Forse anche Aurelio Ferrari quando nel 1996 conquistò la poltrona di primo cittadino non conosceva il carcere. Nove anni dopo il sindaco è ormai diventato "uno di noi". In molti lo ricorderanno come il sindaco della moschea, ma per noi cittadini detenuti della casa circondariale di via Cagnola rimarrà nella memoria come un primo cittadino capace di snobbare "chi conta", vicino a chi sta dietro le sbarre. Grazie anche a lui oggi l’istituzione del comune di Lodi ci sembra più vicina. Non si è mai tirato indietro. Ogni volta che lo abbiamo interpellato si è fatto vivo. Così anche stavolta. Avevamo pensato a un’intervista per meglio capire il rapporto tra carcere e istituzioni, ma forse è meglio parlare di un colloquio, di un incontro. Tutti attorno ad un tavolo. Assieme a ragionare sulle strade possibili per individuare soluzioni utili al reinserimento nella società dei cittadini ristretti. Iniziamo noi a far domande ma bastano poche battute e il "signor sindaco" come lo chiama qualcuno di noi, con l’aria di un uomo che sa cos’è l’umiltà, non nasconde la sua voglia di apprendere da noi come si vive dietro le sbarre, come funziona la sanità. È lui a farci domande. Due ore di dialogo che siamo certi non rimarrà carta straccia. Signor sindaco, ci racconti: com’è iniziata la sua passione per la politica? "La passione per la politica spesso nasce dalla famiglia. È il mio caso. Eravamo in undici con un padre che ha frequentato l’ambiente politico. L’interesse per questo mondo l’abbiamo avuto tutti, anche se in maniera diversa". Ci parli di Lodi, di com’è cambiata la città nel corso dei suoi due mandati? "Per capire com’è cambiata in questi anni bisogna partire dal com’era. Ho ereditato la città dopo che era stata commissariata due volte. Venivamo da un periodo in cui vi erano state brevi amministrazioni e commissari straordinari. La città durante questo tempo è rimasta ferma. Tangentopoli in qualche modo aveva influito anche su Lodi. Si è cominciato da zero. In questi anni si è rimessa in moto la macchina comunale: alcune attività, per esempio per quanto riguarda il sociale, sono partite ex novo. Mi pare che si possa dire che in questi due mandati si è cercato di far contare un po’ di più tutti i cittadini. Spesso mi si rimprovera di non aver "seguito" quella parte di Lodi "che conta". Ho cercato di rappresentare tutti. Nel mio ufficio sono stati molto più frequenti gli incontri con la gente che si incontra per la strada piuttosto che i colloqui con quelli che contano. Anche se non mi sono mai rifiutato di incontrare tutti, anche quelli che contano". Le fa onore questo atteggiamento!"Magari non sono riuscito a fare tanto ma credo che l’incontro con la gente sia essenziale". Quali sono le decisioni più importanti che lei ha sostenuto in questi anni? "Bisogna fare una distinzione. Per quanto riguarda le opere credo che la decisione di dar vita con l’amministrazione provinciale e la Camera di commercio, al Parco Tecnologico sia stata una scelta fondamentale. C’è poi il rapporto coi diversi ambiti della società. Emblematica è la questione della moschea. Ma non solo. Ricordo quando decidemmo di sistemare i bagni pubblici e il dormitorio. Mi viene in mente anche la decisione di dare un terreno all’associazione Il Mosaico e alla Fondazione don Leandro Rossi per realizzare una comunità alloggio per minori con problemi di carattere giudiziario. Anche in quel caso ci furono fiaccolate e cortei contro la nostra decisione. Ma in consiglio comunale ogni volta che veniva sollevata la questione ho sempre detto che se si trattava di scegliere se vincere le elezioni o rinunciare a realizzare quella comunità avrei preferito perdere le elezioni. Sui principi umani non si può contrattare". Parliamo di carcere. Ne abbiamo parlato anche in altri incontri: il problema casa. Cosa può fare l’amministrazione comunale, l’istituzione? "La normativa regionale è schematica e non consente molte possibilità di scelte autonome da parte delle amministrazioni. Riservare un certo numero di alloggi al di fuori di quelli messi a disposizione dai bandi potrebbe essere una strada da percorrere. La questione casa non riguarda solo voi ma anche altre persone che avrebbero bisogno di un’abitazione in una fase di inserimento nella comunità. Penso agli immigrati. L’incontro con voi fa venire in mente alcune idee. Prima magari colpevolmente non avevamo pensato ad alcuni aspetti". Continuiamo a parlare di carcere. Vogliamo affrontare il problema sanità. È possibile pensare a più infermieri, a più medici, a più servizi anche per noi? "Facccio io una domanda a voi: qual è il vostro rapporto con la sanità dentro il carcere?". La sanità in carcere è nelle mani del ministero della Giustizia. Abbiamo medici che garantiscono una presenza. L’amministrazione del carcere stipula rapporti con l’Asl. È chiaro che siamo sempre nel mirino dei tagli. Il problema si presenta soprattutto per chi ha bisogno, come i malati di Aids, di cure particolari. "La separazione, ovvero la sanità gestita dal ministero della Giustizia, credo che possa effettivamente dare qualche problema. Probabilmente andrebbe superata questa separazione. Perché i cittadini detenuti devono avere una sanità diversa, quanto meno gestita da un Ministero differente, da chi si trova fuori?". Un altro aspetto significativo è la socializzazione. Vorremmo poter partecipare molto di più alle attività della città, far conoscere il nostro vero volto ai cittadini lodigiani. È possibile? "Le difficoltà in questo caso sono dovute più alla vostra posizione. L’esperienza di "Uomini Liberi" sta allargando l’interesse da parte della città per il carcere. Lo stesso riconoscimento dato al comandante della casa circondariale ha portato il problema carcere sotto i riflettori, ha messo la gente nelle condizioni di comprendere che la realtà di via Cagnola fa parte della comunità. Se fosse possibile mi piacerebbe che qualcuno di voi potesse partecipare a degli incontri promossi in città". Il 12 marzo organizzeremo ancora una volta l’iniziativa "Carcere a porte aperte": per un giorno i cittadini potranno entrare e conoscerci. Vorremmo poter incontrare i titolari di aziende, artigiani, persone che potrebbero aiutarci a trovare lavoro. "Mi sembra un’osservazione pertinente che potrebbe essere ascoltata invitando specificatamente le associazioni di categoria. La gente che viene qua quando viene organizzato "Carcere a porte aperte" aderisce all’iniziativa anche per curiosità ma il risultato positivo è che la curiosità una volta "dentro" sparisce per lasciare spazio alla sensibilità. Non tutti per esempio conoscono i benefici e gli sgravi fiscali che vi sono nell’assumere un ex detenuto o un detenuto in articolo 21". Cosa proporrebbe di serio e importante per cercare di portare un contributo significativo a livello sociale nel recupero dei detenuti?" Mi accontenterei di far qualcosa per il problema del lavoro. Si possono pensare molte iniziative (tutte giuste!) per la socializzazione, ma occorre focalizzare l’attenzione sulla questione lavoro. Non voglio enfatizzare ma la gente che entra qui e vi conosce esce cambiata. Non riuscire a trovare, con voi, un posto di lavoro per chi esce dal carcere è una sconfitta della società". Guardando negli occhi Aurelio Ferrari, ascoltando le sue parole ricche di umanità, di umiltà, vien voglia di andare oltre la politica prima di salutarlo. Qual è il suo rapporto con la religione?"Il mio rapporto con la religione è esplicito, fatto di tante incoerenze ma chiaro: credo, cerco di credere. Le risposte che mi dà la religione rispondono a tutte le domande che mi pongo. Spesso mi chiedo quanta di questa chiarezza appartiene a tutti quanti credono. Ho avuto difficoltà, anche ultimamente, a confrontarmi con persone che hanno fatto della religione un aspetto esteriore. Spesso ci son travisamenti. Trovo più coerenza in tante persone che dicono di non credere ma agiscono di fronte a casi concreti piuttosto di molti che dicono di credere ma non agiscono. Tra coloro che sostengono che è giusto che stiate in carcere, magari buttando la chiave, vi sono anche persone che credono". L’esperienza politica l’ha segnata umanamente? "Ci sono molti episodi che mi hanno toccato. Ma ciò che ti colpisce di più è il momento in cui ti rendi conto che le persone di cui pensavi di poterti fidare stanno lavorando alle tue spalle". Ha mai chiesto consigli a sua moglie?"Può succedere. Tendo a non portare i problemi della politica a casa. Ma a volte può accadere che chi ti conosce bene si accorga di quando le cose non vanno". Ora che finisce il mandato di sindaco come occuperà la sua vita nel prossimo futuro? "Tornerò a lavorare alla provincia di Milano. Senza patemi e senza problemi. Questo ruolo è sempre stato un po’ largo per me. A volte mi son sentito fuori ruolo. Non sempre si ha la sensazione di essere all’altezza. Torno a lavorare senza alcun problema dopo 9 anni da sindaco". Le proponiamo di tornare qui come volontario. La aspettiamo.Sono passate le 19.30. È sabato. Anche per noi detenuti è un giorno diverso. Il sabato si fa socialità: una sorta di "scambio" di persone tra diverse celle. Ma saremmo rimasti ancora a lungo a parlare con Aurelio Ferrari. Un sindaco per niente avvezzo a salamelecchi. Un uomo prima di tutto. Speriamo che il nostro invito non resti vano: ci piacerebbe veramente averlo tra noi come volontario ora che avrà più tempo. Appesa la fascia tricolore al chiodo lo attendiamo dietro le sbarre.

 

Difensore civico, una tutela per i diritti di chi è più debole

 

n Il disegno di legge che istituisce la figura del difensore civico nelle carceri è in attesa di approvazione, si trova in commissione Affari costituzionali, all’esame del comitato ristretto.Una società che non garantisca il rispetto dei diritti fondamentali a chi si trova in una condizione di debolezza è una società in cui sono a rischio i diritti di tutti.Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti ha chiesto agli stati membri dell’Unione europea di dotarsi di organismi di controllo delle condizioni dei carcerati.Diversi stati europei (l’Austria, la Danimarca, la Finlandia, il Portogallo, la Norvegia, l’Olanda, l’Ungheria, la Gran Bretagna) hanno attivato a livello centrale e territoriale la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale.Si tratta di una figura terza e indipendente rispetto all’amministrazione giudiziaria e penitenziaria, con il compito di supervisione e di controllo dei diritti della persona e, soprattutto, con il compito di mediare nei conflitti e nelle tensioni che spesso accompagnano la condizione di detenzione o di limitazione della libertà personale.Diverse città italiane si stanno attivando intanto per promuovere l’istituzione di un garante con funzioni territoriali: nel maggio scorso, il comune di Roma ha già deliberato all’unanimità l’istituzione di questa carica, ricoperta da Luigi Manconi, lo stesso comune di Bologna sta discutendo in commissione consiliare Affari generali e istituzionali la creazione di un organo di controllo che svolga la funzione di verifica di quelli che sono i diritti di tutte le persone e soprattutto di coloro che sono privati della libertà personale.Auguriamoci che un progetto di questo tipo possa essere attuato anche in tutta Italia seguendo l’esempio di altri paesi europei che si sono dimostrati più virtuosi e rispettosi dei diritti umani rispetto a noi che troppo spesso accettiamo situazioni che sono a dir poco inverosimili e che confermano che la giustizia non è uguale per tutti.

 

Livio Celotti

 

Il carcere di Lodi riapre i cancelli a chi vive "fuori"

 

n Fra pochi giorni, come sempre di sabato, due gruppi di persone entreranno all’interno di questa struttura per un incontro con chi qui ci vive, suo malgrado, per un periodo più o meno lungo.Non è la prima volta, dovremmo esserci ormai abituati, ma ogni volta ci crea sempre un po’ di ansia. L’incontrare persone che non conosciamo e che non abbiamo mai visto, per noi che la gente la vediamo solo in televisione, ci mette un poco a disagio. Ci sembra, scusate il paragone, di essere come degli animali dentro una gabbia allo zoo. So che questo non è vero. So che chi chiede di venire qui è animato dalle migliori intenzioni, che vuol vedere da vicino non noi, ma le condizioni in cui siamo segregati. Questo giornale fin dal suo primo numero si è prodigato proprio per questo. Trasmettere quanto più possibile quello che si prova: le nostre angosce, le nostre sofferenze e gli stati d’animo di una vita non certo invidiabile. Se queste persone ora sono qui, vuol dire che il nostro lavoro non si è dissolto al vento. Anche questa volta si ripeterà la medesima prassi: un agente ci informerà della visita e noi del giornale avremo il permesso di raggiungere la redazione per spiegare agli intervenuti in che modo svolgiamo la nostra attività. I visitatori ci raggiungeranno nella sala della nuovo fabbricato, dopo essere stati accompagnati a prendere visione dei vari settori dell’intera struttura dal comandante, dall’educatore, da un paio di agenti e da due volontari che sono stati gli ideatori di questi incontri e che da sempre sono "l’anima che vola oltre il muro" di "Uomini Liberi". In questo momento non posso non ricordare la prima volta. Eravamo ancora nella "mansarda", erano usciti solo pochi numeri del giornale e le lettere di incoraggiamento che ricevemmo ci riempirono di gioia. Noi della redazione eravamo pervasi da una forte emozione. Non avevamo la più pallida idea dell’effetto che potevano farci gli sguardi di chi sa dove ci troviamo e che siamo qui perché ci hanno condannato per qualcosa che non dovevamo commettere. Accettare di metterci di fronte non era semplice. Cercare di stare a testa alta ancora meno. Come potevamo trasmettere a quelle persone che anche in questo posto non dovevamo perdere la nostra dignità perché stavamo espiando la nostra pena? Sentiamo dei passi salire gli ultimi gradini, poi le prime facce fanno capolino all’ingresso, timidamente, con il timore reverenziale che viene riservato a quei luoghi bui e misteriosi che ci hanno accompagnato fin dall’infanzia.Arrivano tutti. Mamma quanti sono! Provo a contarli: una cinquantina. Quanto basta a riempire tutto il locale. Ci sono uomini e donne di tutte le età. Noi siamo seduti dietro tre scrivanie ravvicinate, gli altri di fronte, alcuni seduti sulle poche sedie, alcuni in piedi.L’atmosfera è pesante, si può tagliare con il coltello. Ci rendiamo conto che chi ci è venuto a far visita è imbarazzato ed intimorito più di noi. Le tre scrivanie sono un muro che ci divide più che mai.Dopo un breve attimo di silenzio che sembra non finire mai, Andrea, uno dei due volontari, prende la parola. Spiega come è nata l’idea di creare il giornale e della grande collaborazione del "Cittadino" di Lodi di ospitarci tra le sue pagine. Poi gli interventi del comandante e dell’educatore. I visi degli astanti sono attenti, non perdono una parola. Gli sguardi scrutano e cercano di capire chi sta loro di fronte. Terminati i preliminari, l’educatore ci chiede di spiegare ai nostri ospiti come è nato il giornale e come si svolge il lavoro della redazione.Attimo di panico. Il cuore aumenta i battiti. Ci guardiamo l’un l’altro interrogandoci su chi ha il coraggio di iniziare. Nessuno vuol essere il primo. Poi uno viene quasi costretto a forza: poveretto!Rosso in viso per l’emozione, balbetta qualche parola che nessuno sente. Poi, incoraggiato dai nostri sguardi, incomincia a farsi riconoscere attraverso quello che ha scritto ed a come abitualmente si firma. Adesso gli sguardi sono più distesi. Loro ora conoscono il volto degli anonimi che si nascondono dietro i soli nomi. Se hanno percepito gli stati d’animo tra le righe di quello che ognuno di noi ha scritto, lo dimostrano egregiamente. Il ghiaccio ormai è rotto. Uno dopo l’altro effettuiamo i nostri interventi cercando di soddisfare la curiosità di chi ci sta di fronte. I nostri interlocutori sono molto attenti, le domande si susseguono incalzanti. Vogliono sapere di tutto e di più.Una nonnina si preoccupa di come si mangia in carcere e se è sufficiente. Altri vogliono sapere se possiamo circolare liberi o se siamo obbligati a restare in cella per la maggior parte del giorno. Altri ancora se esiste un’attività lavorativa all’interno del carcere, se il servizio sanitario è efficiente, se i contatti con la famiglia sono frequenti o meno, ecc. Ci rendiamo conto che la maggior parte della gente non conosce la realtà di un istituto di pena. Sanno solo quello che vedono nei film o quello che viene loro propinato da una stampa che molto spesso usa questo palcoscenico più per i propri interessi politici che per vera misericordia. Dopo che le domande si sono esaurite, ci sono i commiati dalla sede del giornale, i complimenti sono sinceri e i sorrisi hanno sostituito i volti tesi: loro al di là e noi al di qua delle scrivanie. L’ultima parte delle visita è riservata a quella specie di piscina vuota che è lo spazio per le ore d’aria. Veniamo invitati dal comandante ad unirci al gruppo. Adesso siamo mescolati tra gli ospiti. In tutti i sensi. Per la prima volta ci sentiamo parte di loro. Chiacchieriamo del più e del meno e non esiste più quel muro invisibile che fino ad allora faceva sentire la sua presenza. Forse anche loro, dopo averci conosciuto un poco hanno capito che non siamo poi così diversi, che la diversità ognuno di noi la crea per le proprie piccole necessità. La necessita di sentirsi più bravo, più ricco, più intelligente sempre a scapito di chi sta peggio e non si può difendere. Adesso è proprio finita, peccato. Ci piaceva tanto parlare con qualcuno di quello che succede fuori e non solo di processi, di permessi, di avvocati che si fanno desiderare, di richieste ai magistrati che vengono respinte e niente altro. Ci salutiamo con calorose strette di mano.Ritorniamo in cella soddisfatti e consci che "Uomini Liberi" ha raggiunto lo scopo per il quale era nato.

 

Franco

 

Non bisogna deludere le legittime attese della cittadinanza

 

Penso sia innata la fiducia che abbiamo verso i nostri simili, almeno lo è sino a quando qualcuno o qualcosa ci fa cambiare idea, cosa che purtroppo spesso capita molto presto e cioè non appena si cominciano a muovere i primi passi nella società, quindi obbligati al rapporto con gli altri, inteso come persone al di fuori della famiglia ma soprattutto con le istituzioni. L’homo sapiens è dotato di intelligenza, sensibilità e valori che non sempre, purtroppo, riesce o vuole sfruttare al meglio, soprattutto se entra a far parte di una qualsivoglia istituzione, visto che la libertà d’azione individuale al loro interno è molto limitata. La parola limite che spesso si sente, nel mio vocabolario non esiste, perché ho la convinzione che si possano ampliare i propri limiti all’infinito e in ogni campo, dunque è facile e funge spesso da alibi scusarsi di non poter fare, nascondendosi dietro regole, piuttosto che ordini scritti dall’istituto per il quale si lavora. La scienza addirittura ha dimostrato che l’organo cervello, oltre ad essere sfruttato in minima parte, è soggetto all’ampliamento fisico se fosse necessario, dunque non ci sono limiti se non quelli che noi stessi ci imponiamo. L’Italia è famosa nel mondo come concentrato di potenzialità creative, manifestate da sempre in diversi settori, dalla scienza alla tecnologia, rilevante il prestigio dell’artigianato ma purtroppo manca l’interazione fra le istituzioni di ricerca e l’industria, sembra più facile usufruire del prodotto estero che di investire in ricerca. Ecco uno dei perché della continua fuga di cervelli in altri paesi. Sappiamo tutti che è segno di maturità riflettere su se stessi, sulle convinzioni che ci incentivano a persistere nel realizzare le nostre imprese, quindi prendere coscienza del nostro operato, consapevoli del ruolo che ricopriamo nella società. Questo serve a capire i problemi per poi affrontarli con consapevolezza.Detto ciò mi rendo conto di essere al servizio della collettività e a seconda del ruolo che vado a ricoprire, devo assicurare la cooperazione fra gli enti per una maggior efficienza e produttività. Lo scopo della scienza è appagare l’innata curiosità dell’uomo, la tecnologia deve soddisfare la richiesta del mercato, quindi il fabbisogno. Mancando il connubio di questi due aspetti, si va a spezzare la catena atta alla concretizzazione di progetti, idee. Associare disponibilità, lealtà e concretezza, non è sempre facile ma è indispensabile per ottenere fiducia da parte del cittadino nei riguardi delle istituzioni che non devono eludere le aspettative, facendosi garanti per il funzionamento globale: servizi efficienti, trasporti puntuali, tempestiva sanità, lavoro adeguatamente retribuito e tutelato, e non dimentichiamoci dell’assistenza agli anziani, e dei giovani che sono il nostro futuro. Facciamo parte dei paesi denominati "ad alto livello culturale", non lasciamoci sfuggire l’occasione di un funzionamento esemplare che renda la nostra vita più appagante, scadendo in un sistema d’imposizioni che ci limita e umilia, solo perché al momento sembra più facile, egoisticamente parlando, perché poi le conseguenze se apriamo gli occhi le abbiamo di fronte. L’uomo si chiude sempre più in se stesso, aumenta l’aggressività e sviluppiamo nevrosi, pensate che più del 57 per cento degli italiani fa uso di psicofarmaci. Cosa può significare questo se non un’insoddisfazione di fondo dovuta ad uno stile di vita che non soddisfa: non siamo né valorizzati, né considerati. Basta svolgere il proprio dovere all’interno dell’azienda o istituto senza interrogarsi oltre e abbiamo reso felice il datore, veniamo giudicati, valutati e pagati a seconda di come svolgiamo il lavoro assegnato nei vari apparati. La tecnica è diventata il soggetto e l’uomo un funzionario dell’apparato. È brutto da dirsi, ma se tutti ci facciamo istituzionalizzare annullando la nostra individualità, finiremo come semplici controllori per il buon andamento di una società nelle mani di pochi eletti.

 

Carlo Bernardi Pirini

 

Troppi luoghi comuni da smontare

 

Parlando del più e del meno con i miei compagni di cella salta fuori una mia esperienza passata; mi dicono: "Scrivi un articolo!". Sì ragazzi, sarebbe bello, però capite che è un argomento scottante e imbarazzante...Esco di galera in sospensione pena "carcerato ingiustamente" e mi trovo sommerso da mille sentimenti e pensieri. La gioia di riabbracciare i miei familiari che mi erano mancati e tanto aiutato a farmi forza per trovare il positivo in quella esperienza negativa, convincendomi o quasi che mi era servita. Poi secondariamente, ma molto importanti anche loro, gli amici e i conoscenti dell’ambiente dove sono nato e sempre vissuto, tranne brevi parentesi di quando ero via per lavoro. In poche parole, la mia amata terra e fiume, di cui mi mancavano profumi, odori e le nostre bricconate ecologiche con poi merendine a base di boti e zedule, rane e lumache... Come reagiranno? Mamma che bello essere assalito da questo caterpillar di emozioni. Entro al bar, dopo un paio di giorni che sono uscito, quando tutti sapevano che ero uscito, ma… Non ne avevo ancora trovavo il coraggio, ma da lì, via la festa. Baci, calorosi abbracci, strette di mano e pacche sulle spalle, da scaricatori di porto, riassaporare il sapore del Campari la mia bibita preferita... Dio mio sto sognando. Pian piano poi la curiosità si fa strada nelle menti di chi per sua fortuna non ha vissuto l’esperienza carceraria e così iniziano le prime domande: ma c’è la televisione? Si! Però! Le celle come sono? L’aria com’è? Ma vi trattano bene? Mangiate come nei film come in America? Porca vacca, ci siamo, quella maledetta televisione che condiziona tutto e tutti, Maledetta! Proponendo film dove di solito nelle galere la routine è prepotenza fisica e psicologica, ma soprattutto carnale. Mi dico, ora arriva la fatidica domanda, ci scommetto, e "chi casca l’asun": TAN FAI EL QUAIA? Come se fosse scontato che chi entri in carcere perda la sua sessualità. Vi rendete conto che oltre a dover pagare per reati commessi e non, dobbiamo anche subire gli sfottò? Ora potete voi spiegarmi come far capire che nelle carceri italiane non è così? Cornuti e mazziati! Certo che come esiste fuori l’omosessualità, anche in carcere è presente, ma si tengono le dovute distanze con chi è diverso da loro. Rispetto la sessualità altrui, come la maggior parte dei miei compagni, però "a du’ spane dal quaia!" Non è mica detto che perché siamo entrati in carcere, per forza si venga violentati. Per questo signori cari, prima di dare dei giudizi che ormai sono solo dei luoghi comuni bisognerebbe meditare.

 

E.C.

 

Informarsi di più, per non lasciarsi sfuggire diritti e benefici

 

Istituzioni… una parola nuova per il mio vocabolario. Ieri mentre ci trovavamo nella redazione del giornalino "Uomini Liberi", eravamo radunati intorno al tavolo per discutere quali fossero state le domande da proporre al sindaco di Lodi, signor Ferrari, e mentre stavamo discutendo è saltata fuori una parola nuova per le mie orecchie che mi ha incuriosito molto, ma onestamente non so neanche cosa voglia dire, che significato abbia. Onestamente posso dire che mi trovo in carcere per un’ingiustizia che ho commesso, ma la cosa più fatale è che non so quali diritti o quali benefici posso ricevere e secondo me non è giusto che debba rimanere all’oscuro di queste cose e per lo più se non spiego la mia storia, la mia avventura, a qualche detenuto… amico, non saprei cosa fare, come muovermi. Pensate che se non fosse per qualche amico che di galera se ne è fatta molta e altrettanta sulle spalle ne avrà ancora da fare, io non avrei mai immaginato di poter usufruire di benefici del tipo: che ogni anno abbiamo 90 giorni di bonus, che se la disciplina è buona e non si sono mai presi rapporti in carcere poi abbiamo diritto a 60 giorni di libera uscita superata la metà pena, e tantissime altre cose. Pensate che ora ho scritto al pubblico ministero di Milano per avere un permesso con la scorta per andare a trovare qualche ora il mio caro papà, visto che è terminale. Cosa sono le istituzioni, diritti dei cittadini, diritti dei detenuti, non mi riesco ad immaginare cosa può servire, ma in futuro mi prometto che mi informerò molto di più.

 

Jamaica

 

La vostra grande voglia di dimostrarvi "uomini liberi"

 

Anche oggi, come faccio abitualmente ogni mese, ho letto il vostro giornale inserito nel "Cittadino". Vi è sempre Andrea Ferrari che mi ricorda di acquistarlo. Io vi ho conosciuti il 13 dicembre 2003 e sono diventato amico di Calogero. Da allora mi sono interessato di quello che voi vivete, subite, sperate e scrivete. È una cosa grandiosa, secondo me, la vostra voglia di vivere, di sentirvi degli esseri umani con la loro importanza sia nell’ambito famigliare che sociale. Solo una decisa forza interiore può permettere agli uomini di superare tutte le difficoltà della vita. Questo vale anche per me e per tutte le persone che hanno avuto la fortuna di non dover provare quello che state provando voi. Anche per i problemi di lavoro, per quelli di salute e di rapporto con gli altri, deve essere la mente a dirigere tutto ed a programmare i miglioramenti che ci fanno sentire il gusto della fatica per conquistarli. Ecco perché ho sempre apprezzato il vostro titolo: "Uomini Liberi". Anche un mio amico affetto da sclerosi multipla, che è costretto a vivere su una carrozzina a 36 anni dice che anche lui si sente libero, perché la sua mente non potrà mai essere schiacciata da forze esterne. La mente è e deve rimanere libera.Mi ha particolarmente colpito il vostro articolo con la storia di Daniel e di Ghiorghita: una delle cose più eccezionali al mondo, che unisce tutti i popoli e le religioni, è l’amore che lega una madre al proprio figlio. È un sentimento che ci deve tenere sulla strada giusta e che ci deve far ritornare subito, in caso di deviazioni.Ma tutti gli articoli sono belli e vi descrivono: sono doni che fate a chi vi legge e cerca di esservi vicino, anche se non sempre si possono fare grandi cose. Ma l’amicizia si basa proprio sullo scambio di sensazioni e di idee.Vi dico anche che dai primi numeri la vostra rivista è diventata più bella e più ricca. Vi rinnovo quindi i miei complimenti.

 

Marco Meletti Secugnago

 

Caro Marco, chi risponde alla tua gradita lettera a nome della redazione di "Uomini Liberi" è Giuseppe.Tengo molto a dirti che ci fa molto piacere sapere che i nostri scritti ti coinvolgano emotivamente, come penso ad altra tanta gente che ci legge. Personalmente posso dirti che questa è la prima volta che mi trovo in carcere e che collaboro con un’equipe la quale mette insieme esperienze ed emozioni che nessuno mai ti potrà donare. Figurati che queste storie vissute dai miei compagni di sventura, coinvolgono anche me! Quindi capisco molto bene ciò che provi, e ti ringraziamo del giudizio positivo che hai espresso nei nostri confronti. Chiudo infine questa mia, nell’attesa di ricevere una tua, sempre cordiale, lettera e ti inviamo i nostri migliori saluti!La redazione di "Uomini Liberi"

 

L’addio a Morsello: un pensiero e un augurio per l’ormai ex direttore

 

n Pochi giorni sono trascorsi da quando improvvisamente, senza preavviso, il dottor Morsello ha lasciato la direzione della Casa circondariale di Lodi; nessuno se lo aspettava, sicuramente lui per primo che alla luce di quanto la nuova normativa in materia di pensionamenti prevede aveva richiesto di continuare a svolgere la propria attività per altri tre anni.La comunicazione che la sua richiesta di restare in attività gli era stata respinta gli è stata notificata pochi giorni prima che entrasse nei termini della pensione; conoscendolo posso sicuramente pensare che questa decisione sia stata per lui profondamente dura da accettare: per un uomo come Morsello che del lavoro ha fatto sempre una ragione di esistenza il passare da una fase di piena attività ad una situazione di riposo forzato deve essere stato un momento molto difficile da gestire.Posso immaginare che un uomo pieno di risorse come Morsello non resterà inattivo per molto tempo, sicuramente starà già programmando nuove iniziative che lo terranno costantemente legato a quello che è stato il suo mondo.La sua esperienza e professionalità devono restare un patrimonio di tutti ma soprattutto per le persone che come noi hanno sempre coltivato una speranza in un suo intervento decisivo che spesso sapeva risolvere situazioni complicate e difficili.Questo è un momento particolare, non abbiamo ancora un nuovo direttore, stiamo vivendo una fase di transizione e come in ogni struttura gerarchica dove il vertice non c’è più prevale la confusione nella quale spesso ognuno cerca di approfittare per acquisire vantaggi personali, ma la cosa che più sconcerta è il formarsi di tante piccole parrocchie dove ognuno si sente importante e a modo suo cerca di favorire le persone che più gli sono congeniali; questa la potrei chiamare la rivincita delle persone che contavano poco prima e che forse prima o poi saranno costrette a ritornare nei loro ranghi.Personalmente sono rimasto attento osservatore di quanto sta accadendo, certo non sorpreso avendo previsto che ci sarebbe stata questa fase di incertezza che durerà fino al momento in cui un nuovo direttore entrerà in questo carcere e da quel momento sarà lui a dettare le regole; auguriamoci che sia una persona di qualità che abbia la forza e il coraggio di proseguire su quel cammino tracciato dal suo predecessore, la vita di un detenuto senza speranze è come la morte.La speranza di un lavoro, la possibilità di espiare una condanna usufruendo del permesso di lavoro è stata per molti detenuti di questo carcere una vera salvezza, in questi ultimi anni l’ex direttore aveva impostato un discorso di grande apertura verso lo strumento del lavoro esterno, molte sono state le persone che hanno beneficiato di questa possibilità, qualcuno non ha avuto la forza per non ricadere nelle proprie debolezze ed è stato duramente colpito perdendo questo beneficio e subendo un trasferimento forzato.Altri hanno saputo attraverso il lavoro ed un comportamento esemplare arrivare nei termini dell’affidamento ai servizi sociali avendo la forza di consolidare quel recupero, reinserimento nella società che sono alla base del pieno recupero di un uomo.Concludo lanciando un appello affinché in questo carcere non si arrivi a creare una distinzione in detenuti di serie A e di serie B, ma a tutti deve essere riservata la stessa attenzione le stesse possibilità, sta poi al singolo dimostrare la propria volontà, capacità di riscatto, nel sapere capire e cogliere l’attimo decisivo.Auguriamoci che chi si troverà prossimamente alla direzione di questo carcere sappia proseguire il cammino tracciato dal dottor Morsello tutto quello che è stato fatto in positivo non deve essere disperso solo così si potrà sperare di costruire un domani migliore.Al dottor Morsello, ringraziandolo per quanto ha fatto per noi, va l’augurio sincero di una vita ancora piena di grandi soddisfazioni professionali e umane.

 

Livio Celotti

 

La droga chiamata videopoker: spero di trovare un aiuto per uscirne

 

n Ricordate la storia del dottor Faust, che per acquisire tutto il sapere del mondo vendette la sua anima al diavolo? Ricordate le sue drammatiche parole di pentimento per averla venduta, al momento di pagare il suo debito?È così che ci si sente dopo aver sbagliato, ma la cosa più assurda è che è molto difficile distinguere, a livello razionale, ciò che è giusto o sbagliato, soprattutto quando l’errore è commesso per la dipendenza da qualcosa. Nella vita c’è chi dipende dalla droga e chi dipende dal gioco d’azzardo. Penso che entrambe ti portino all’irrazionalità! Del primo caso non ho avuto dipendenza, ma quando avevo voglia di fumarmi uno spinello non mi tiravo indietro, anzi lo fumavo volentieri perché mi rilassava e mi faceva ridere, facendomi dimenticare di una giornata magari stressante.La mia vera dipendenza è il videopoker, un video-gioco ormai noto per aver portato allo sfacelo più totale diverse famiglie. Ho iniziato a giocare per essere stato invogliato da altri ragazzi, con la convinzione di "vincere", ma purtroppo nonostante le continue somme di denaro che continuavo a perdere, giocavo sperando quanto meno di recuperare la somma perduta, ma invano. Iniziai a giocare con il videopoker all’età di diciotto anni, portandomi all’assuefazione più totale. Dopo pranzo, piuttosto che studiare, chiedevo del denaro a mia madre per andare a giocare.I mesi passavano e le mie richieste di denaro aumentavano sempre di più, portando mia madre all’esasperazione. Non avrebbe mai immaginato che un giorno avrei avuto problemi di dipendenza. Un giorno mia madre entrò piangendo nella mia cameretta, domandandomi con il cuore in mano se avevo problemi di droga!Mio padre al contrario di mia madre è una persona caratterialmente burbera, che dimostra il suo affetto con i fatti. Era contrario ai soldi facili, tanto che, quando gli chiedevo diecimila lire, dovevo sudarmeli recandomi, la domenica mattina, nella nostra campagna per metà giornata a zappare. Per farla breve nonostante i rimproveri di mio padre, continuai a non chiederli ma a pretenderli da mia madre, ecco dove mi resi conto che ero diventato succube di quella maledetta macchina. Fu così che dopo qualche mese, nonostante un rimprovero intimidatorio dai carabinieri, essendosi mia madre confidata con loro, continuai con il mio assurdo comportamento, portando mia madre a denunciarmi. Ecco dopo sei anni di attesa processuale, una delle cause che mi porta ad avere un debito con la giustizia ma la cosa più assurda è che nonostante io abbia passato tutto questo, continuo ad avere quella assurda dipendenza che, prima di entrare in carcere, stava rovinando anche la famiglia che mi sono creato con amore e sacrificio. Non è stato facile ammettere questa mia dipendenza, tanto che negavo a chiunque di avere ancora questo problema per la vergogna ma spero, visto che voglio uscirne definitivamente, che l’equipe del carcere mi aiuti, affinché possa affrontare con maggiore sicurezza la mia vita una volta fuori dal carcere.

 

Giuseppe Sciacca

 

Gigi, professione ladro: perché ho restituito un portafoglio

 

Finalmente libero! Dopo aver scontato nove mesi della forzata privazione della libertà (la galera), mi trovo di nuovo di fronte il sole. Da qualsiasi parte mi volto, non vedo più mura. Sembrerà banale ma ogni volta è un’emozione. Mi fermo qualche secondo davanti al portone a respirare a pieni polmoni l’aria tiepida dell’inizio di primavera. Passo da casa per lasciare quelle quattro cose che mi son portato dietro ed a farmi una sana doccia "domestica". Mi sbarbo con cura, mi vesto con qualcosa di meglio di quello che ho portato in questi mesi ed esco. Oggi è sabato. Nella piazza c’è mercato. Decido di andare lì: voglio immergermi tra i vivi e poi devo fare un po’ di spesa.È quasi mezzogiorno e le strade del centro sono brulicanti di gente. La prima cosa che noto sono le donne, tante donne. Non viste con l’occhio di chi è stato per tanto tempo in astinenza: è solo una constatazione. Le viuzze che convergono nella piazza sono invase dai furgoni e dalle auto di chi fa il mercato e bisogna camminare di traverso per non strisciare contro le fiancate o contro il muro. Sono nella piazza. Alzo lo sguardo verso il Duomo e la torre campanaria che se ne stanno a guardare la gente in basso, quasi ad abbracciarla, da sempre.Non si sente il rumore delle auto, solo lo scalpiccio dei passi sul selciato e il brusio di mille voci. Ogni tanto una più forte che sovrasta le altre urla la bontà della propria merce. Guardo le bancarelle, la qualità della merce, i prezzi e sono indeciso su cosa comprare. Dall’orologio della torre arrivano i rintocchi di mezzogiorno ed il mio stomaco, come se avesse sentito, rumoreggia. Reclama la sua parte. Anche l’olfatto si è fatto più acuto: un profumo di arrosto quasi mi fa svenire. A pochi passi il banco della rosticceria. Un furgone enorme che cucina polli allo spiedo, carni alla griglia, salumi e la porchetta: la migliore di tutto il circondario.Talmente è buona che per avere un panino bisogna far la fila. Mi metto in coda e aspetto il mio turno. Finalmente arrivo alla cassa ed il mio stomaco ringrazia con un mormorio prolungato.Addento quel panino gustoso con il profumo che mi riempie le narici: Dio quanto è buono!Sono ad un paio di metri dal banco, assieme ad altri che come me pensano solo a gustarsi quel bendiddio. Ho quasi finito e sto pensando di farmene un altro, quando noto, e non si poteva non notarlo, un uomo enorme. Alto almeno un metro e novanta e con una circonferenza vita di due metri, sta addentando uno sfilatino intero. Non ho mai visto un panino così grosso. L’espressione del viso è tutta da vedere. Dal faccione rubizzo la mascella si muove lentamente, boccone dopo boccone con la masticazione lenta di chi vuol prolungare ogni secondo di quella beatitudine. Tiene gli occhi socchiusi, che fissano il vuoto. Ogni senso in quel momento è proteso ad un unico scopo: godersi il panino alla porchetta.Mentre accartoccio il tovagliolino di carta e lo porto verso il cestino per buttarlo, vedo che dalla tasca dietro dei pantaloni del colosso spunta un portafoglio. Ovviamente l’occhio cade sempre lì. Sembra messo apposta. Sporge dalla tasca per metà. Il leggero giubbino che porta si è impigliato tra i pantaloni ed il portafoglio.Ho impiegato meno tempo a prenderlo che a pensarci.Mi sposto immediatamente e mi porto fuori dalla piazza. Arrivato ad un giardinetto dove non c’è nessuno, lo prendo in mano, lo soppeso e noto con piacere che è gonfio. Lo sto per aprire, ma poi mi fermo. Rifletto per qualche minuto e poi decido. Rimetto il portafoglio in tasca e mi dirigo con passo deciso verso la stazione dei carabinieri.Oggi è il mio primo giorno di libertà e devo decidere diversamente.Arrivato chiedo del maresciallo Gallettoni. Lo trovo. "Vieni Gigi, sei appena uscito e sei già qui. Sentivi la mia nostalgia?", dice sfottendomi."No", dico estraendo il portafoglio dalla tasca. "Volevo consegnarle questo, l’ho trovato a terra nella piazza del mercato"."Uhè! Mi stai prendendo in giro?", dice lui diventando di colpo serio. Prende i portafoglio e continua: "Naturalmente era vuoto e non hai visto a chi apparteneva…"."Non so. Come l’ho trovato, così ve l’ho portato. Non l’ho nemmeno aperto", rispondo con lo sguardo più candido che potevo fare.Lo apre piano e commenta: "Ci sono le carte di credito…i documenti, la patente… Anche i soldi… ma sono… uno, due, tre, quattro, cinque, sei… seicento euro! Gigi, dove sta il trucco? Dove sono finiti gli altri?", ribatte con lo sguardo tagliente."Non lo so. Glielo giuro, non ho guardato dentro", rispondo.Il maresciallo cerca tra le carte e trova un biglietto con scritto il numero di telefono del proprietario. Alza la cornetta, digita il numero ed attende: "Buongiorno, sono il maresciallo Gallettoni della locale stazione dei carabinieri… no, non si allarmi, per caso ha smarrito il portafoglio… sì, è stato ritrovato ed è stato consegnato… per caso sa cosa c’era all’interno?... Sicuro che ci fossero solo seicento euro in contanti… bene… di niente. Può venire a ritirarlo quando vuole… Arrivederci".Il maresciallo depone la cornetta, si appoggia allo schienale e mi fissa per cercare di capire quale fosse la verità vera. "Come mai, Gigi, non è da te. Che cosa ti succede?"."Non so. Forse ad una certa età si ha voglia di cambiare"."Anche se a malincuore, questa volta devo dirti bravo. Naturalmente hai diritto al dieci per cento del valore del il ritrovamento"."Ecco quello, proprio adesso mi potrebbe far comodo, sono un po’ a secco…"."Se attendi il proprietario te li faccio consegnare subito"."No, preferisco di no. Se li faccia dare lei. Passerò un altro giorno. Grazie".Mi alzo per andarmene e lui: "Ma bisogna stendere un verbale…"."Maresciallo, vengo nel pomeriggio, adesso voglio solo andare a casa".Esco con un sorriso sul volto.Non sono impazzito di colpo e nemmeno la detenzione o l’età mi hanno rammollito. Ho pensato che al primo giorno di libertà non bisogna pensare al lavoro: porta sfiga. Il consegnare il portafoglio mi ha dato un credito positivo sulla valutazione che, alla prossima, avrà un peso notevole. Perché io sono sempre Gigi, Gigi il ladro.

 

Diamo più spazio all’allegria, un po’ meno al "bla bla bla"

 

È da parecchio che sono in carcere e, dopo una breve parentesi di quarantacinque giorni, mi sono ritrovato di nuovo dentro e tuttora sono circa tre anni. Ho sempre avuto un forte spirito di adattamento a tutte le situazioni, non sto a raccontarvi la mia storia, penso che lo spazio di "Uomini Liberi" dovrebbe servire solo ad alleviare un po’ il pensiero e non per continuare a parlare di affidamenti, permessi, amnistie e indulti. Si è stufi di sentire le solite lamentele, vado all’aria; bla bla bla, vado in doccia e bla bla bla, faccio la socialità bla bla bla, in più purtroppo a Lodi è come essere alla stazione: un via vai di persone che cambiano, oggi hai dei buoni compagni e domani cambia tutto e così ti ritrovi altri compagni di sventura che appena arrestati cominciano a raccontare la loro storia. Ma "cribbio", sono stufo di storie, così gli dico: scusate, due o tre giorni per sensibilità ti posso ascoltare, però poi basta, basta, "na podi più", il mio spirito di adattamento si sta esaurendo; in più attendevo con curiosità "Uomini Liberi" e cosa leggo? Affidamenti, permessi, amnistie, indulti... Cambiamo un po’, rispetto e regole che, come dice Jonatan del Grande Fratello, la beneficenza bisogna farla in silenzio, le regole e il rispetto non si devono solo scrivere, non serve, le devi applicare, la vita carceraria non è come la si scrive è diversa, persone che si isolano dagli altri perchè non si sentono parte di questo mondo, e non condividono l’adattamento carcerario se non solo quando ci sono manifestazioni o riunioni dove il "cortigianismo" e il "lecchinaggio" prendono il sopravvento sull’isolamento. Bravi!! La coerenza dov’è?Perciò vediamo di darci una bella specchiata e a costo di ripetermi, rispetto e regole in silenzio. Affidamenti, permessi, indulto, amnistia: basta! Tanto è inutile! Ci prendono in giro…Sono discorsi che lasciano il tempo che trovano e incrinano la psicologia di persone che come me il carcere lo conoscono bene, già è dura cercare di adattarsi e scantonarsi dai lagnosi. Senza accorgermi la penna ha scritto da sola, prendendo spunto dalla rubrica "lettera aperta", di M. Pm D. pubblicata sul n°14, e mi sono lasciato trasportare per 10 minuti, poi rileggendo spero che capiate il mio sfogo. È bello per chi scrive in redazione, però deve prima pensare anche a chi per sua sfortuna ed altro è in carcere, i lettori esterni sicuramente leggono incuriositi gli articoli perché bene o male, anche se qualcuno dice "se fosse per me io quelli li dentro li brucio tutti", molti altri ci aiutano, come gli assistenti volontari che ogni venerdì con amore alleviano qualche sfortunato che non ha asciugamani, accappatoi, slip, calze, scarpe insomma genere di vestiario di ogni genere. Colgo l’occasione di ringraziarli di cuore per il loro operato e mi chiedo: come si fa a non voler bene a queste persone che ci aiutano?Parliamo delle belle cose, teniamo l’allegria anche sforzata, questa non possono togliercela, la libertà sì, l’allegria e la bontà no. Lavoriamo su queste due cose per fare una carcerazione migliore, non continuiamo a darci le sgabellate sui ravanelli, uno è allegro e viene giudicato superficiale... No, non sono superficiale, l’allegria non sono ancora riusciti a togliermela, anche se si sta incrinando, ma a denti stretti cerco di non farmela rubare.La mia carcerazione l’ho portata avanti con questa superficialità e rispetto delle regole non scritte, perciò viva l’allegria e il rispetto, troviamoci in doccia, all’aria, in socialità senza bla bla bla ma con il sorriso e la dissacrazione della pena forse riuscirete ad alleviarvi la galera e un sorriso un gesto affettuoso verso i vostri compagni di sventura sia pure di nazionalità e culture diverse vi farà sentire migliori.

 

C.E.

 

Il mio sogno... è come il vento mai spento

 

"Un ricordo"…Aspettare…Niente da fare…Solo pensare…Ma i pensieri qui fanno male…Ti cerco di giorno…T’incontro di notte…Il mio sogno…È come il vento mai spento…I miei ricordi…Sono il tuo sorriso…La tua lontananza…La mia solitudine…

 

Jamaica

 

Un’occupazione esterna, per mantenere la famiglia

 

Quando si commettono dei reati spesso non si pensa alle conseguenze a cui si va incontro salvo poi pentirsene nel momento in cui si viene arrestati, ma oramai è purtroppo troppo tardi e non è più possibile tornare indietro e quindi poi si è obbligati a scontrarsi con una realtà che nessuno vorrebbe mai affrontare.Si viene portati in carcere e inizia lo strazio della mente; ci sono mille pensieri e mille paure, si entra in un nuovo mondo dove tutto quello che ti serve, anche le cose di prima necessità, devi sempre chiederle.Dopo pochi giorni inizi a renderti conto che tutto quel castello di sabbia che ti eri creato all’esterno viene fatalmente sgretolato, qui dentro non sei più nessuno e da un momento all’altro la vita degli agi e dei soldi facili diventa una vita di stenti e di problematiche da superare, di domandine da inoltrare per qualsiasi cosa tu abbia necessità, dove non hai più nessun potere decisionale, nemmeno un momento privato perché dentro una cella di pochi metri si è chiusi in tre o più persone, fino a sei. Ti resta solo il pensiero e il ricordo delle persone che sono all’esterno, di coloro che credono ancora in te e che soffrono insieme a te riuscendo in qualche modo a darti la forza di andare avanti; è solo nella disperazione di questi momenti che si riesce a vedere la vita nella giusta maniera, capendo e dando un valore a tutto e soprattutto dando delle giuste priorità a quanto hai lasciato fuori riuscendo a capire quanto è importante la famiglia che è l’unica che può darti quell’equilibrio fondamentale per una vita che sia completa. Penso che in ogni caso dopo i primi mesi di carcerazione comunque andrebbero valutate delle misure alternative soprattutto per quelle persone che entrano in carcere per la prima volta, con reati non di grave entità e con pene modeste: sicuramente questo sarebbe il modo migliore per un detenuto di rientrare nella società se la stessa vuole recuperare le persone che hanno sbagliato. Il tempo che si passa in prigione è solo tempo tolto alla nostra stessa vita perché niente ha di educativo se non solo il fatto di farti pagare quanto hai commesso ma non è questo a mio avviso il modo migliore di recuperare una persona che indubbiamente può aver commesso degli errori ma che certamente la società ha il dovere di cercare di riportare al suo interno facendogli seguire quelle regole che sono proprie di una società giusta.Valutando il comportamento e soprattutto dando alle persone private della libertà la possibilità di lavorare e mantenere quella che è la loro famiglia, si riuscirebbe molto spesso a recuperare pienamente queste persone evitando anche le difficoltà economiche che vanno a gravare su tutto il nucleo familiare. Per questo motivo penso che l’art. 21, il lavoro all’esterno che consente ai detenuti di svolgere una attività lavorativa nel corso della pena detentiva, sia una delle possibilità che sia giusto riservare a quelle persone che dimostrano di avere capito gli errori commessi e che manifestano una ferma volontà di riscatto.

 

C. Bruognolo

 

Un progetto per riavvicinarsi a mogli e figli

 

In questo periodo nel carcere di Lodi sono in atto diverse iniziative, ma un’iniziativa che secondo il mio punto di vista è molto importante è quella che riguarda il progetto "Bambini senza sbarre", iniziativa già operativa con successo a San Vittore, che è stata proposta da Grazia Grena, una assistente volontaria che presta la sua opera all’interno di questo carcere, in collaborazione con una assistente esterna. Questa iniziativa mira a facilitare il dialogo tra genitori detenuti e figli, dandoci delle indicazioni su come introdurre argomenti tanto delicati nella vita dei nostri figli, spiegando loro senza bugie e ipocrisie il perché di determinate situazioni. Durante questi incontri abbiamo la possibilità di scambiare idee e ragionamenti chiarendo i nostri dubbi e abbiamo modo di apprezzare quelle che sono le linee di principio da seguire che si basano sulla creazione di un rapporto aperto e franco tra genitori e figli evitando di raccontare loro inutili bugie. Ora si sta cercando di avere la possibilità di organizzare degli incontri domenicali con le nostre famiglie, possibilmente nella nuova sede che possiede spazi più aperti e più umani, questo ci consentirebbe di migliorare il rapporto con le nostre famiglie. Ci auguriamo che questa lodevole iniziativa possa arrivare a concretizzarsi in un qualcosa che continui nel tempo; ringrazio sinceramente tutti coloro che con il loro aiuto, la loro attività, i loro sacrifici personali hanno voluto dedicare parte del loro tempo ai nostri problemi.

 

C. Br.

 

Il lavoro dell’educatore carcerario non consiste nel giudicare

 

Si fa quasi sempre fatica a vivere nuove esperienze. L’abitudine spesso inibisce la nostra volontà di agire e pensare diversamente. L’abitudine è una sorta di madre egocentrica e possessiva che vieta ai suoi figli di far nuove esperienze. Ma cosa significa vivere nuove esperienze? Significa forse compiere viaggi alla conquista di nuovi posti? O abdicare dal proprio stile di vita? O avventurarsi alla ricerca di nuove amicizie? O cercare un nuovo Dio perché stanchi del nostro monotono e vecchio Dio? Niente di tutto ciò. Vivere nuove esperienze vuol significare semplicemente chiudere gli occhi e dedicarsi per un breve attimo a se stessi. Cercare di capirsi. Chiudere gli occhi per valutare che in realtà tutta la nostra vita è fatta di straordinarietà. Lo straordinario non è l’inaspettato, non è l’evento eclatante che spezza, variandola, la monotonia dei nostri giorni. Straordinario non è un evento che accade raramente; straordinaria è la vita nella sua interezza. Straordinario è il sole che quotidianamente e coerentemente sorge al mattino. Straordinario è l’affetto che l’uomo gratuitamente è capace di provare. Straordinaria è soprattutto la capacità di pensare, vero istinto di ogni uomo. Da educatrice, quotidianamente, mi sforzo di aiutare a "far chiudere gli occhi" in un contesto chiaramente non semplice da accettare. "Chiudere gli occhi" è una attività personale nel senso che, inevitabilmente, deve essere compiuta da sé e non da altri: non può essere delegata. Se qualcuno si offre di "chiudere gli occhi" per noi o meglio al nostro posto, in realtà, sta solo cercando di giudicare. L’umiliazione che, sovente, i detenuti sono costretti a sopportare è appunto quella del giudizio. Il mio lavoro non consiste nel giudicare, nel valutare o ancor peggio nell’assegnare voti; ma, semplicemente devo osservare. Osservare ciascuno di loro. Ascoltare. Riduttivamente potrei affermare che i principali ingredienti del mio lavoro sono: l’ osservazione e la capacità d’ascolto. Ascoltare le loro storie, i loro dubbi, i loro ripensamenti, i loro progetti. Ascoltare il loro pensiero che si fa linguaggio. Ascoltare il frutto di quell’atto introspettivo che abbiamo un po’ metaforicamente comparato all’atto del "chiudere gli occhi". Sovente, amici o semplici conoscenti mostrano una superficiale curiosità nei riguardi del mio lavoro. Non ben nota è la figura dell’educatore penitenziario e parimenti non ben noto è il ruolo che tale figura esplica all’interno del carcere. Spesso si ignora che l’educatore fa parte di una pubblica amministrazione che eroga un servizio che non consiste solo nel tenere lontano dalla società civile i "criminali" ma anche e soprattutto nell’assicurare l’esecuzione delle pene che tendono alla rieducazione del soggetto. Da qui nascono i loro ingenui interrogativi, quali: "Non hai paura di loro? Come vivono?". È difficile far loro comprendere che i detenuti sono uomini come tanti, con le loro debolezze, con i loro progetti, con le loro paure, con le loro forze, con le loro ingegnose idee, con la loro voglia di poter ritornare nel più breve tempo possibile nella società. Quotidianamente ci si confronta con un dono prezioso che, ahimè, un errore ha fatto loro perdere. Si tratta del dono della libertà. Agognata libertà. Si prega tanto per essa. La libertà, nel carcere, non è solo un ideale: è di più. È un’amante che si desidera abbracciare e colmare di baci. Qualche volta si cerca di frenare il desiderio della libertà appigliandosi ai ricordi e ai futuri progetti. E spesso si parla di essa e le si dedicano bellissime poesie soprattutto nel corso di alcuni laboratori.Le attività che hanno luogo all’interno dell’istituto sono varie: corso professionale di informatica; presenza e gestione di una biblioteca; incontri religiosi; produzione del giornalino mensile; incontri di lettura; laboratorio di musica. Tali attività sono accostate alle attività quotidiane legate alla gestione dell’istituto che vedono impegnati alcuni detenuti. Tutte queste attività richiedono uno sforzo organizzativo notevole in una realtà dove l’esigenza primaria della sicurezza è una regola fondamentale. Si fa quasi sempre fatica a vivere nuove esperienze e altrettanto faticoso è raccontarle. Anzi impossibile è raccontare cosa accade una volta che "hai chiuso gli occhi". Vedi te stesso ma impossibile è scrivere, raccontare tale esperienza. Resta solo il senso di te stesso che finalmente hai colto. L’augurio vorrei rivolgerlo a tutti voi, amanti della libertà, affinché, chiudendo gli occhi, possiate percepire quell’uomo che abita in voi. E allora, buona conoscenza di voi stessi!

 

Maria Michela De Ceglia

 

L’esecuzione della pena tra la pura repressione e la protezione sociale

 

Può darsi che abbia messo troppo vivamente in evidenza un certo stato d’animo e non abbia sufficientemente sottolineato la relatività delle cose.Mi sembra opportuno porre in rilievo il fatto che se da una parte si sono approfonditi tutti gli aspetti del sistema penale e processuale, d’altra parte non si è finora approfondito il problema dell’esecuzione della pena, pur di notevole importanza non soltanto ai fini della repressione, ma anche ai fini della cosiddetta protezione sociale, a seconda della scuola alla quale ci si riferisce.Non intendo attirare l’attenzione su dette teorie filosofiche, che pur non debbono essere trascurate giacché i diversi sistemi penitenziari vi hanno attinto la loro giustificazione.Ma ciò che vorrei considerare è la problematica fondamentale, relativa agli obbiettivi della privazione di libertà quali sono attualmente concepiti. Per quanto strano può sembrare nella nostra società non si può, in occasione dello stato della pena privativa di libertà, perdere di vista il fatto che l’instaurazione della detenzione come sanzione penale fu considerata e veniva considerata come misura umana di repressione. Per situare questa constatazione nella giusta prospettiva, devo subito aggiungere che la privazione della libertà serviva appunto come misura alternativa ad un sistema repressivo e cruento.Intendo precisare che se la pena privativa di libertà in origine rappresentava una volontà d’umanizzazione, tale carattere umanitario nella sua applicazione si conserva ancora oggi.Questa tendenza verso l’umanizzazione, che era alla base dell’instaurazione della detenzione come sanzione penale, è rimasta nel corso dei secoli e perdura ancora servendo da pungolo per pretese più volte reiterate verso la riforma migliorativa di situazioni esistenti. Allo scopo di precisare la concezione attuale della tendenza umanitaria sorta tre secoli addietro, non posso far meglio che richiamare come punto di riferimento il vecchio articolo 58 delle regole minime per il trattamento dei detenuti, adottate dal comitato dei ministri del consiglio d’Europa il 19/01/73: "Il regime penitenziario deve tendere a ridurre la differenza tra la vita in istituto penitenziario e la vita in libertà, in modo che non sia menomato il senso della responsabilità del detenuto e il rispetto della dignità della sua persona". Questo non è certamente un compito facile.La questione non può in ogni caso essere prospettata come se la libertà dei detenuti abbia identico valore della libertà delle persone non detenute. Le stesse regole minime precisano che la similitudine in argomento non deve essere assoluta; tutt’al più si potrebbe concludere che le differenze devono essere quanto più possibili minime e tali da non comportare l’indebolimento del senso di responsabilità e la riduzione del rispetto dovuto al detenuto in quanto essere umano.Circa l’attuale determinazione degli obiettivi della politica penitenziaria occorre pensare a una riforma: è necessario abdicare dal vecchio sistema e pensiero. È evidente quanta importanza è da attribuire al modo con cui lo Stato organizza il sistema penitenziario, non basta prendere come punto di riferimento i diritti dei detenuti ed esaminare quali diritti permangono e quali diritti vengono meno per il fatto della carcerazione: è tutta l’organizzazione della prigione che deve essere canalizzata. Alcuni diritti esercitati dall’uomo in libertà non devono necessariamente essere limitati per il fatto della carcerazione. Conviene aggiungere ancora che quando la pena privativa di libertà si sostituì ad un sistema penale "cruento" e in seguito, quando la rivoluzione francese comportò la generalizzazione della detenzione come sanzione penale, sembrava essere pervenuti al massimo traguardo sul piano umanitario. La pena privativa di libertà fece nascere un problema nuovo, quello del sistema penitenziario; il diciannovesimo secolo caratterizzò la ricerca di un sistema penitenziario ideale da corrispondere alla sanzione ritenuta ideale, ossia alla privazione della libertà. Si parlò via via di regime cellulare, di regime comunitario e di regime progressivo, ogni sistema veniva, di volta in volta esaltato e rigettato fino a quando, nella prima metà del secolo ventesimo si giunse a prospettare l’opportunità della specializzazione degli stabilimenti, dell’individualizzazione del regime penitenziario e della classificazione dei detenuti.In ogni caso si conclude rivelando che lo "jus puniamoli" dello Stato si concretizza soprattutto mediante la pena privativa della libertà. In questo senso bisogna cambiare pensiero, bisogna pensare ad un sistema riformista, non solo in senso umano della parola, ma anche per concetto economico di costi: cosa costa un detenuto in un carcere dello Stato? Il problema non sarà risolto proponendo la gestione carceri ai privati, anzi si aggraverà, poiché il concetto diventa esclusivamente business, e se questo business non vi è, chi ne farà le spese sarà soprattutto il detenuto.

 

M. Pm. D.

 

 

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