Giornalismo dal carcere

 

Il Sestante - Giornale dalla Casa Circondariale di Vigevano

Anno 1, numero 1: aprile – giugno 2004

 

Sommario

 

Un incoraggiamento sincero

Eccoci qua!!!

Scuola: insieme per costruire

L’importanza del dialogo

Perché "Il Sestante" ?

Cinque domande al Direttore

Il senso della vita

Attrazione fatale

Notizie dall’estero

Amici miei

Dedicato a mia madre

Pensieri e poesie

Il passato nel presente

Lettera a Giuliacci

Istanze fai da te

Ce l’abbiamo fatta

Fumo sì, fumo no

Lettera ai docenti

Io e la scuola

Poesia, musica...

Teatro in carcere

Derby della solidarietà

Un incoraggiamento sincero

 

L’uscita di un giornalino d’Istituto rappresenta una tappa molto importante se la vediamo non come iniziativa assestante ma come momento di un percorso trattamentale inserito in un più ampio progetto volto a creare un ponte fra comunità interna e territorio.

Non è cosa facile fare uscire un giornalino con periodicità: occorre impegno, serietà, tensione ideale. Bisogna crederci. Appunto per questo ho apprezzato che la proposta sia venuta prima dai diretti interessati piuttosto che, come una iniziativa caduta dall’alto, dalla Direzione.

Conoscendo i promotori, ritengo che questo giornalino farà molta strada. Gode anche del supporto forte ed appassionato di operatori esterni provenienti dal mondo della Scuola e dell’Informazione, che hanno fermamente creduto a questa iniziativa ed hanno deciso di sostenerla. Io vorrei che il giornalino rappresentasse lo strumento principe per condurre una battaglia ideale e culturale proiettata verso l’esterno, contro l’ignoranza e il pregiudizio, ma nel contempo costituisse opportunità offerte a tutti per far conoscere ciò che di potenzialmente positivo esiste in ogni persona e costituisce il suo patrimonio morale, al di là di ciò che nelle contingenti vicende della vita possono fare apparire.

Per diventare un giornalino letto e seguito con interesse, ben venga il confronto delle idee con quanti rappresentano le Istituzioni. Lo apprezzeremo tanto più se si saprà condurlo con spirito positivo, nel giusto intento di favorire migliori condizioni di vita e suscitare prospettive per un reale reinserimento nella società esterna.

Sono convinto che con l’avvio di questa nuova esperienza ci conosceremo meglio tutti e potremo operare più proficuamente per il raggiungimento di certi obbiettivi.

Da parte dello scrivente e di tutto lo staff dirigenziale c’è l’impegno a seguire con tutta l’attenzione necessaria questa nuova esperienza e a sostenerla in tutte le sedi competenti.

Costruire il dialogo, diffondere i valori della solidarietà e del rispetto reciproco sono traguardi che i promotori del giornalino si devono proporre. Si può ben dire che la legalità, nel vivere quotidiano, passi anche attraverso l’affermazione di questi principi.

Un augurio di buon lavoro pertanto a tutta la redazione. La rotta è tracciata. Siate buoni naviganti!

 

Dott. Nicolò Mangraviti

 

Eccoci qua!!!

 

Finalmente, dopo alcune peripezie dovute all’organizzazione redazionale, siamo riusciti ad uscire con questo primo numero. Per iniziare, vogliamo ringraziare il Direttore, Dr. Nicolò Mangraviti, e l’ufficio educatori per la grande disponibilità e l’impegno profuso nel mettere la nostra sezione di alta sorveglianza nelle condizioni di poter realizzare la pubblicazione. Sono state accolte le nostre esigenze riguardo ai tempi e alla logistica redazionale, con una linea di apertura nei confronti di questa nuova esperienza giornalistica. Vogliamo anche ringraziare a priori voi lettori, ricordandovi che, se una pubblicazione ha motivo di esistere, è solo perché vi è chi la legge.

Noi vogliamo spingerci oltre il rapporto che ha comunemente un lettore con il suo giornale, fino ad arrivare a chiedervi di essere interlocutori diretti con la vostra partecipazione attiva al giornale.

Questa pubblicazione, che abbiamo chiamato "Il Sestante" (vedi art. pag. 3), è nata con l’intenzione di non essere solo un giornale di un istituto penitenziario come ce ne sono tanti, ma, principalmente, un punto di incontro di chiunque gravita intorno alla realtà penitenziaria.

Nel "forum" troveranno spazio (noi ci auspichiamo) non solo articoli scritti dagli "ospiti" della struttura e destinati alla direzione o eventualmente all’esterno, ma anche pezzi che percorrano il canale inverso.

Vale a dire, che permettano la comunicazione a tutti noi da parte degli organi responsabili della gestione dell’istituto, dal territorio o da chi si senta di far giungere la propria voce a chi è recluso.

Ben lontani dal tessere lodi in favore di questa pubblicazione e forti anche della conoscenza del detto "chi si loda si imbroda", vogliamo solo ricordare a tutti gli "ospiti"che questo è il nostro giornalino, dove nostro significa di tutti noi e non di un’elite di persone, per cui invitiamo tutti voi a leggerlo, divulgarlo e costruirlo insieme con noi.

Questa redazione è fortemente convinta che Il Sestante possa diventare la voce di tutti e trasmettere stati d’animo, riflessioni, emozioni in ogni articolo e in ogni pagina.

In questo istituto ci sono persone con un patrimonio e una ricchezza di vita interiore meravigliosi, che per svogliatezza, pigrizia o depressione non hanno mai voluto esternare.

Con Il Sestante è arrivata l’occasione di "tornare a vivere", svegliandosi dal torpore che inevitabilmente la detenzione procura.

Aspettiamo i vostri scritti, insieme possiamo dare tanto!

 

La Redazione

 

 

Scuola: insieme per costruire

 

Uso il termine "Preside", anziché quello più freddo ora in uso di Dirigente Scolastico, perché è questo l’appellativo col quale mi sento chiamare, direi con affetto e con rispetto, tutte le volte in cui riesco a incontrare i miei alunni della Casa Circondariale. Non accade spesso, purtroppo, perché sono tenuta a dividermi fra molti impegni, ma mi faccio ugualmente carico di essere presente nelle occasioni che personalmente ritengo importanti o che mi vengono indicate come tali. Non voglio essere considerata un nome o un simbolo, ma una persona alla quale poter stringere la mano e con la quale parlare.

Ritorno col pensiero al momento in cui è nata l’idea della costituzione di un corso di studi presso le carceri: vivendo nella scuola e per la scuola, credo nel valore della formazione e mi è subito parso importante contribuire in tal modo a dare un valore aggiunto ad un periodo trascorso in stato di restrizione della libertà. Come accade quasi sempre, i miei professori mi hanno seguito e ho trovato immediatamente chi si è fatto carico di portare avanti l’iniziativa. Li ringrazio, perché senza di loro non avrei potuto realizzare un’esperienza davvero importante per tutti: per chi usufruisce di questo servizio, ma anche per chi lo fornisce. Mi sono infatti resa conto che gli insegnanti, tutti indistintamente, anche quelli che hanno iniziato questa attività con diffidenza, si sono ritenuti arricchiti da essa sul piano dei rapporti umani e spesso hanno espresso il desiderio di essere riassegnati, se possibile, alle classi in carcere.

Da parte degli alunni, poi, ho avuto riconoscimenti verbali e scritti che spesso mi hanno commossa.

Vado inoltre col pensiero a tutto quello che abbiamo realizzato insieme: io per la parte gestionale e di organizzazione, aiutata dal vicepreside nelle mie battaglie per l’organico e supportata dal personale di segreteria, in particolare dalla signora Gloria; gli insegnanti con la loro professionalità e disponibilità; gli alunni con la loro motivazione e il loro impegno. Non abbiamo fatto poco: oltre alla normale attività di insegnamento – apprendimento, abbiamo realizzato iniziative che ci hanno dato grande soddisfazione, come il teatro, le partite, le festicciole per il Natale, questo giornalino. Con la Direzione i rapporti si sono fatti sempre più cordiali e costruttivi: non sono mancati i problemi, ma sono stati tutti affrontati con la volontà di risolverli; questo sicuramente varrà anche per il futuro.

Come persona che crede nell’utilità sociale della professione che esercita e che la ama moltissimo, rivolgo un caloroso "Grazie a tutti" per le soddisfazioni che mi avete dato.

 

Maria Grazia Dallera

 

 

L’importanza del dialogo

 

Il fascino di una nuova esperienza di giornale porta con sé i dubbi e nel contempo la consapevolezza di iniziare un percorso che permetterà di esprimere opinioni, sapendo accettare anche il contraddittorio. Non dobbiamo farlo diventare un contenitore di lamentele, ma uno strumento capace di dare uno spazio libero alle nostre riflessioni e farci sentire parte integrante di un progetto: il contatto con la società. Nessuno ha la presunzione di saper trasmettere con efficacia e capacità giornalistica il proprio pensiero; ciò che conta è raccogliere più opinioni, anche discordanti, ma utili a creare una chiave di lettura per tutti.

Più ampio sarà il ventaglio degli argomenti trattati, maggiore diventerà l’interesse; tutti dobbiamo sentirci partecipi e coinvolti in eguale misura e se riusciremo, -questo è il fine- a costruire uno strumento di tutti e per tutti, avremo realizzato l’obiettivo del nostro sforzo. Non servono regole perentorie, né dare consigli sugli argomenti da trattare. Ognuno scelga liberamente le sue modalità senza sentirsi condizionato, non dimenticando che un messaggio può essere trasmesso in modi diversi ma, per catalizzare l’interesse, deve essere animato da proposte costruttive, evitando di porre l’accento solo su aspetti negativi.

L’obiettivo è creare un ponte di collegamento fra il carcere e il territorio, dare voce alle nostre speranze e permetterci di comunicare senza pregiudizi. Per molti anni ho posto l’accento (in tutte le occasioni in cui mi è stato concesso di esprimermi) sull’importanza di incentivare il dialogo, rilevando che solo uno scambio schietto d’opinioni aiuta a crescere. Il Sestante, questo è il nome che abbiamo scelto per il "giornalino", deve diventare un mezzo di comunicazione libero, aperto al contraddittorio, capace di trasmettere emozioni.

 

Italo Franco Greco

 

 

Perché "Il Sestante"?

 

È superfluo dire che la scelta del nome di una nuova testata è un momento particolare.

Il nome deve esprimere non solo il pensiero di chi fa nascere un giornale, ma anche un impegno futuro che deve durare nel tempo. Evitando, quindi, tutti i riferimenti che potessero ricordare il posto e la condizione in cui viviamo, abbiamo optato per un nome che fosse non solo di significato tangibile, ma che potesse rimanere nella memoria.

Sestante:(dal dizionario Garzanti), "Strumento per misurare angoli, in particolare l’altezza apparente degli astri sopra l’orizzonte". Questo strumento era usato dai navigatori fino agli inizi del secolo scorso ed era utile per trovare il punto esatto in cui si trovava la nave. Era "l’occhio" dell’imbarcazione, che tante volte si trovava a percorrere l’oceano senza avere punti visivi di riferimento.

Il sestante permetteva quindi di individuare l’esatta rotta da percorrere, fermo restando che non vi fossero nuvole ad offuscare la volta celeste.

Il nostro giornale vuole un po’ essere lo strumento di navigazione di quest’enorme veliero che si chiama "carcere" e che trasporta i sogni, i desideri, la tristezza e la voglia di riscatto d’ogni singolo membro dell’equipaggio. Sicuramente è anche vero che molte volte si accumulano nuvole sopra l’orizzonte, ma la tempesta non dura in eterno e, quando soffia, il vento della partecipazione spazza via le nuvole. In quel momento ogni singolo marinaio può, tramite il sestante, ritrovare la rotta da percorrere per meglio raggiungere il porto della libera società.

Il secondo motivo dalla scelta di questo nome è che "sestante" contiene al suo interno la parola "sesta", che è la sezione che ospita la redazione.

Per questi due motivi abbiamo scelto questo nome e ci auspichiamo davvero che possa piacere a tutti e che riesca a realizzare le proprie finalità.

Buona navigazione!

 

Francesco Dipasquale

 

Cinque domande al Direttore dell’Istituto

 

Dott. Nicolò Mangraviti, 56 anni, originario di Brindisi. Ha ricoperto incarichi nelle carceri di: Brescia, Monza, Busto Arsizio, Cosenza, Padova, Rovigo e Imperia. Dal settembre 2002, Direttore di questa Casa Circondariale.

 

In altre strutture carcerarie, esiste un’esperienza lavorativa portata dall’esterno. È ipotizzabile un simile progetto per questo Istituto?

Far sì che all’interno di questo Istituto vi siano attività lavorative portate dall’esterno costituisce uno degli obbiettivi di questa Direzione. A differenza di una volta, adesso gli spazi esistono. È in corso tutta un’azione di sensibilizzazione rivolta al territorio affinché si possono reperire occasioni di lavoro. Siamo tuttavia ancora nell’ambito delle intenzioni. Noi speriamo che, anche tramite il giornalino, si riesca a far giungere la nostra voce presso l’imprenditoria di Vigevano e di altre città e trovare interesse a riguardo.

 

Dr. Mangraviti, come si pone nei confronti dell’art. 21 e della semilibertà? È ipotizzabile realizzarlo all’interno di questo Istituto?

L’istituto al momento non dispone di una struttura autonoma per l’art.21 e la semilibertà. In effetti, ciò penalizza la popolazione detenuta di Vigevano. È notorio che i semiliberi vengono assegnati presso la Casa Circondariale di Pavia. A Vigevano è ipotizzabile solo una limitata ammissione di detenuti in art.21. Nell’eventualità comunque del verificarsi di casi in cui siano presenti tutte le condizioni, si procederà alla loro valutazione con la dovuta attenzione e considerazione.

 

In questo Istituto, come mai non c’è una presenza più fattiva dei volontari?

Il volontariato costituisce una grande risorsa per l’Istituto ed è doveroso valorizzarlo al massimo. Occorre per tanto sforzarsi anzitutto affinchè gli attuali volontari che già si impegnano al massimo possano svolgere la loro attività proficuamente concedendo loro gli spazi operativi necessari. Anche in questo campo il giornalino potrà svolgere un opera di sensibilizzazione per fare avvicinare altri volontari alla realtà penitenziaria. A tutti i volontari va il mio più sentito ringraziamento.

 

Attività ricreative: eccezion fatta per il gioco del calcio, cosa ne pensa di poter creare uno spazio interno o esterno alle sezioni per attività fisiche?

D’estate è utilizzabile il campo di calcio e d’inverno la palestra. Credo che al momento sia opportuno dedicare il giusto impegno a far sì che entrambe le strutture siano ben tenute e utilizzate per iniziative che abbiano una forte valenza trattamentale.

 

Qual è il funzionamento delle grate all’esterno delle finestre? Non crede che sia meglio abolirle, permettendo al detenuto di evitare gravi problemi d’ordine oculistico?

Le grate sono state collocate al momento della costruzione dell’edificio. Vi era quindi un progetto ministeriale che le prevedeva. La loro funzione è di evitare che dalle camere detentive siano buttate cose di vario genere all’esterno. Si pone quindi un problema di igiene non facilmente risolvibile come l’esperienza di altre strutture dimostra. Finora anche il puntare sul principio dell’autodisciplina non ha dato i risultati sperati. Pertanto, al momento la loro eliminazione non rientra fra i lavori in programma.

 

A cura della Redazione

 

 

Dalla testimonianza di una malata di tumore. Il senso della vita

 

È difficile spiegare cosa si prova quando si guarda il proprio futuro con la luce spenta, si ha quasi la sensazione di vuoto, come precipitare all’improvviso, in caduta libera con occhi bendati."

Questa frase, estrapolata da un articolo scritto da una donna con il tumore e in fase terminale, mi ha colpito profondamente, lasciandomi un solco indelebile. La lettura donava una straordinaria energia, non la solita riflessione sul senso della vita, ricca di frasi ad effetto, ma l’esempio tangibile di chi ha saputo delineare i confini del dolore, lungo un percorso difficile ma sorprendentemente utile per una crescita interiore.

Sono molte le analogie fra i malati gravi o terminali e i detenuti, non per il loro vissuto, perché per nessun malato la patologia è conseguenza di comportamenti censurabili, cosa che invece è vera per coloro che commettono errori per i quali subiscono la privazione della libertà.

Ma, la depressione, l’apatia, la perdita d’entusiasmo, il desiderio di porre fine alla sofferenza anche con un atto estremo, lo smarrimento del senso della vita, sono caratteristiche che ritroviamo con la stessa intensità in tutti coloro che vivono un momento difficile. L’articolo proseguiva con una frase che conservo gelosamente e spero diventi per ogni lettore una testimonianza vera, forte e capace di risvegliare dal torpore:

"Mi costa molto doverlo ammettere, ma devo dire grazie proprio alla "sofferenza" per aver scrollato la vita con tanta violenza da far cadere tutto ciò che non conta, perché adesso posso vedere con chiarezza quello per cui vale la pena di investire: gli affetti, le persone. Tutto il resto illude, inganna, perché è vuoto; la vita di un uomo è l’intreccio d’altre vite che danno corpo alla sua e la nutrono, come radici".

Provo ancora oggi i brividi sulla pelle quando rileggo queste parole. Sono straordinariamente belle, profonde. Anch’io ho scrollato la mia vita con forza e ho cercato di cogliere la sostanziale differenza tra il vivere prestando attenzione solo ai beni accumulati e alle agiatezze conquistate e il vivere con i valori che danno significato e autenticità alla vita. In noi c’è una scala di valori che non possiamo né catalogare né disporre secondo un ordine ben preciso, ognuno ha una personalissima valutazione. Nessuno può negare però che la famiglia e gli affetti delle persone care rappresentano punti fermi. Chi vive in detenzione intuisce immediatamente il senso delle mie parole: i nostri genitori, fratelli, mogli, figli…che gran forza ci donano costantemente.

Credo di non sbagliare nell’affermare che abbiamo, tutti, rivalutato questi rapporti, mettendo in giusta luce quell’Amore che consideravamo scontato, quasi dovuto, e abbiamo capito quanto sia bello essere amati e quanto sia straordinario donare amore. La vita è un intreccio con altre vite; saper scegliere i rapporti con altre persone ci permetterà di godere la nostra esistenza terrena e viverla con l’intensità che merita.

Riconoscere gli errori (per chi li ha fatti), rende liberi dal peso che grava sulla coscienza e aiuta a portare luce nel buio della sofferenza, per vivere la quotidianità non con la morte nel cuore ma come un momento di rinascita. Questa donna, in fase terminale, mi ha donato la voglia di vivere.

Grazie! Grazie! Il suo spirito sappia risvegliare coloro che dormono!

 

Italo Franco Greco

 

 

"Attrazione fatale"

 

L’ho conosciuta ad una festa… La stanza era piena di gente; donne stupende. Ad un tratto, il mio amico me l’ha presentata. È stato un colpo di fulmine; lei bianca "come la neve", forte ed intrigante. Tutti la volevano, e lei stava con tutti, ma a me non importava, perché stava anche con me. Siamo stati insieme tutta la notte, che scorreva velocemente. Guardavo l’orologio. Dovevo tornare a casa, ma non potevo lasciarla. Vedevo tutto nuovo intorno a me…

Da quella sera, non facevo altro che pensare a lei. Quando la cercavo, la trovavo; se non la trovavo, mi disperavo, e nella ricerca di lei, cominciavo a fumare e a bere nervosamente.

La mia vita è cambiata giorno dopo giorno. Niente contava più: la mia famiglia, i miei amici, il mio lavoro. Era una malattia, un’ossessione. L’ultima volta che l’ho vista è stato il momento in cui ho perso la mia libertà. Ora, non sento più la sua mancanza, ma solo la voglia di ricominciare.

Addio pallida illusione… addio cocaina.

 

By Jana

 

 

Notizie dall’estero

 

Arkansas, paga col mattone

 

Voleva una birra ma non aveva i soldi. Decide allora di lanciare un mattone contro la vetrina di un negozio di liquori per prendere la birra e fuggire. Solleva il mattone, lo tira sulla vetrina, questo rimbalza e lo colpisce alla fronte facendolo cadere privo di sensi. Il tutto viene ripreso dalle telecamere a circuito chiuso del negozio.

 

Michigan, la cipolla non funziona

 

Cinque del mattino, un uomo entra in un Burger King di Ypsilant e minacciando il commesso con un revolver gli chiede l’incasso. Il commesso, spiega di non poter aprire la cassa se non viene effettuata un’ordinazione e allora il rapinatore chiede un piatto di cipolle fritte. Il commesso obbietta che le cipolle fritte non sono disponibili per la prima colazione. L’uomo frustrato se ne va a digiuno.

 

Louisiana, rapina alla rovescia

 

Un uomo entra in un market, mette venti dollari sul banco e chiede al commesso di cambiarglieli. Non appena la cassa viene aperta estrae una pistola e si fa consegnare tutto il denaro. Fugge via e lascia sul banco il biglietto da venti. Il bottino ammontava a circa 15 dollari. Domanda: se qualcuno ti minaccia con un’arma e ti da del denaro, commette reato?

 

Zimbabwe, malati di mente in fuga

 

Dopo essersi fermato a bere in un bar, l’autista di un autobus si è accorto che i 20 malati mentali che avrebbe dovuto trasportare al manicomio di Bulawayo erano scappati. Non volendo ammettere la sua negligenza, l’autista si è recato ad una vicina fermata di autobus e ha offerto una corsa gratuita ai passeggeri in attesa. Ha poi condotto il bus dentro al manicomio, dove ha "consegnato"gli ignari passeggeri, dichiarando al personale del manicomio che si trattava di pazienti molto irritabili e portati a raccontare storie fantasiose. L’inganno è stato scoperto solo dopo tre giorni.

 

Svizzera, verdure-taglia

 

Lo chef di un Hotel di Gstad ha perso un dito in un taglia verdure e ha inviato una richiesta di risarcimento alla propria compagnia assicuratrice. L’assicurazione sospettando una negligenza, ha mandato un suo ispettore per verificare le circostanze. Costui ha provato il taglia carote e ci ha rimesso a sua volta un dito. La richiesta di risarcimento è stata approvata doppia.

 

California, rapina? No, suicidio...

 

Quando il suo revolver calibro 38 ha mancato di far fuoco sulla vittima designata, durante una rapina a Long Beach, l’aspirante rapinatore James Elliot ha girato l’arma per osservare la canna provando nuovamente a premere il grilletto. La pistola ha sparato.

 

Sono ospite dell’amministrazione di Vigevano

 

"Cari amici, come sapete, per un disguido amministrativo (ovviamente), mi trovo ospite dell’amministrazione di Vigevano. Gli alloggi, in camera singola a uso doppio, sono ampi e luminosi, dotati di splendida vista panoramica a scacchi.

Il menù è ricco e variegato, prevede pasti caldi e freddi dipendentemente dal clima . La dieta prevista è rigorosamente a "zona"(nel senso che dipende da dove arriva).

La struttura inoltre è dotata di grandi spazi aperti (16m per 12m) dove poter passeggiare con i personaggi più o meno illustri (sto aspettando Callisto e Bonici ). Per non parlare dei cellulari, tutti blu !!! Insomma un’ esperienza che mi mancava, sperando che non duri più di tanto!!

 

I Fatti: I fatti che si riferiscono al marzo 2002 (divieto di sosta non pagato) vi saranno dettagliati nel mio prossimo best seller !..."

Questo è quanto ho scritto ai miei più cari amici alcuni mesi dopo il mio arresto!!

Mi è sembrato l’unico modo per rompere l’imbarazzo, che inevitabilmente si crea in queste circostanze, per stemperare la situazione e nello stesso tempo dare la possibilità a chi lo volesse di riprendere i contatti con me.

Del resto il senso dello humour, l’auto-ironia, credo siano estremamente utili in momenti delicati, per attenuare la tensione che paralizza soprattutto chi ci è vicino!

Questo è il punto: la tragedia che ognuno di noi vive più o meno intensamente rischia di essere amplificata in chi ci è più vicino, quando l’imbarazzo degli amici di sempre sfiora l’ipocrisia.

Ecco perché ho preferito essere io a rompere ogni indugio! Non volevo commiserazioni né per mia moglie né per i miei figli! E così è stato. La dignità e il coraggio hanno prevalso sul pettegolezzo! Certo non è facile, soprattutto i primi mesi, reagire allo shock dell’arresto. Ci sono varie fasi che corrispondono a stati d’animo diversi: disperazione, apatia, consapevolezza, rassegnazione, speranza si ripresentano a cicli spesso scanditi dalle vicende processuali, per cui non è facile trovare un equilibrio in tempi brevi.

Ma bisogna provarci, non c’è alternativa!! L’equilibrio è, di fatto, l’unica forma di intelligenza capace di produrre fatti positivi ….

Ma come fare? L’unico metodo, che pare universalmente riconosciuto è non isolarsi a lungo ma ricercare nel microcosmo del carcere degli interessi: la scuola, il teatro, una partita di calcetto, una partita a carte... guai isolarsi, si finisce inevitabilmente nella depressione!

Personalmente, ho trovato nella scuola e soprattutto nel corpo insegnante l’aiuto più concreto. Grazie alla sensibilità degli insegnanti "disponibili" a capire i "disturbi di attenzione" dei primi mesi, sono riuscito a ricominciare, a non mollare!

Ma non c’e una regola fissa. L’importante è ristabilire gradualmente l’equilibrio, obiettivo principale per ricominciare a vivere e dare a chi ci sta vicino l’idea che il futuro esiste anche qui, bisogna saper sperare ed aspettare!!!

 

Davide Bertuetti

 

Dedicato a mia madre

 

Mia madre, quella piccola donna con le braccia robuste, segnata dall’età ma con lo sguardo fiero, con mille preoccupazioni per la testa ma sempre col sorriso sulle labbra. Sempre silenziosa ma decisa, le sue giornate cominciano all’alba e finiscono al calar del sole. Tutto il suo universo è in quella piccola casa di periferia tra i suoi cari. Non c’è oggetto in casa che non rifletta la sua presenza, la sua passione. Tra la cucina e il tinello, cucinando e facendo le pulizie quotidiane, passa le giornate tra le mura domestiche, dove sempre c’è qualcosa che non va o che non è al posto giusto. Stanca della vita, povera madre mia! Gli occhi infossati, le vene nelle mani, i capelli bianchi, il passo più lento ma sempre sicuro, spende la sua vita e le sue energie per noi. Sembra che ancora oggi ci fornisca quella linfa vitale che permette a tutti noi di andare avanti. Quante volte avrà pensato che non ce la faceva più, quante volte deve aver pianto di nascosto: non lo saprò mai perché mai ha trasmesso le sue paure a noi. Nei suoi momenti più difficili, quando eravamo ancora piccoli, ricordo che girava per casa anche di notte e le sue carezze, quando dormivamo, erano più frequenti. Succedeva qualche volta, specialmente quando mio padre non aveva lavoro, che si chiudesse in solitudine nella nostra stanza, facendo finta di aver qualcosa da fare, oppure uscisse in giardino e si occupasse dei fiori. Però non durava troppo. Chiamava me e mia sorella, che ci sedevamo in veranda o nelle scalette che portavano in giardino, e cominciava a raccontarci favole. I suoi "brutti momenti" erano i preferiti da noi perché sicuramente ci sarebbe stato qualche dolce o qualche regalo in più…

Ormai il tempo delle favole è un ricordo dolce e commovente. Sono passati tanti anni da allora e forse perché uno crescendo ragiona di più, forse perché sono lontano e mi manca, una domanda mi spaventa sempre di più: valeva la pena di far tutto quel che ha fatto per me? Sono il figlio che lei voleva che diventassi? In ogni caso grazie, mamma!

 

Zhurka Nikolla

 

 

Vite rinchiuse

 

Emozioni sbarrate da ferro arrugginito dal tempo. Rabbia, tristezza, ali in movimento in spazi ristretti. Voci soffocate dall’indifferenza, di chi non sa, non sente, non ascolta, musica stonata che suona come corde di una chitarra ormai passata, cuori solitari che battono, ma che fingono di non amare più, finti sorrisi tra loro forzati, come una serratura che chiude anime in pena… vite rinchiuse.

 

By Ale

 

Non lasciate

Non lasciate che le sbarre rinchiudano il vostro spirito.

Non lasciate che le pietre del muro di cinta opprimano i vostri cuori.

Non lasciate che i fari, spettrali, nella notte prendano il posto delle stelle.

Oltre le sbarre,

montagne innevate

cieli azzurri

prati scintillanti di rugiada,

immagini di altri orizzonti

immagini di altri colori e profumi e sapori

dei vostri paesi lontani.

Nessuno ve le può strappare dal cuore.

La vita non finisce qui.

 

Prof. E. Gorini

 

 

Poggio Reale

 

Una breve finestra nel cielo tranquillo

calma il cuore; qualcuno c’è morto contento.

Fuori, sono le piante e le nubi, la terra

e anche il cielo.

Ne giunge quassù il mormorio:

i clamori di tutta la vita.

La vuota finestra

Non rivela che, sotto le piante, ci sono colline

e che un fiume serpeggia lontano, scoperto.

L’acqua è limpida come il respiro del vento,

ma nessuno ci bada.

Compare una nube soda e bianca, che indugia, nel quadrato del cielo.

Scorge case stupite e colline, ogni cosa

che traspare nell’aria, vede uccelli smarriti

scivolare nell’aria. Viandanti tranquilli

vanno lungo quel fiume e nessuno s’accorge

della piccola nube.

Ora è vuoto l’azzurro

nella breve finestra: vi piomba lo strido

di un uccello, che spezza il brusio. Quella nube

forse tocca le piante o discende nel fiume.

L’uomo steso nel prato potrebbe sentirla

nel respiro dell’erba. Ma non muove lo

sguardo, l’erba sola si muove. Dev’essere morto.

 

Da: "Lavorare stanca" di Cesare Pavese

 

L’amore in carcere!

 

In luoghi grigi e cupi come questi, l’unica cosa che ti dà la forza di resistere è l’affetto per i tuoi cari, l’amore per il tuo o la tua compagna. La lontananza rafforza molto questo sentimento. E ogniqualvolta pensi al compagno, scatta fuori il poeta che è nascosto in te. Anche perché (a nostro parere!) sulla carta, dici molto di più che con le parole.

Come nel caso di una ragazza, detenuta da 4 anni, che vuol esprimere il suo amore per il compagno detenuto da 13 anni. Ha deciso di far pervenire alla redazione il suo pensiero. Luana C., 25 anni, era ancora una bimba quando dal suo lui fu separata. Nonostante tutto, il pensiero e l’amore sono sempre forti: eccoli di seguito…

 

(la redazione)

 

"Francesco"

il tuo nome risuona nelle mie orecchie, fra mille rumori, rispecchiandosi nel mio cuore che sta aspettando un giorno particolare, di cui non si conosce né il mese, né l’anno, ma sono sicura di poterlo riconoscere perfettamente quel giorno, perché finalmente, saremo l’una accanto all’altro, per non dividerci mai più.

Questo sarà il giorno più bello della mia vita, anzi della nostra vita. Tu sei la persona più dolce e speciale che io abbia mai incontrato.

Non ti dimenticherò mai… e mai ti lascerò solo in questi luoghi freddi.

Ti amo veramente…Tanto.

 

Luana C. 79

 

Il passato nel presente

 

Sono stato folgorato sulla via di…Garlasco!

In un pomeriggio come tanti di quelli che ho vissuto in Lomellina, prendo la macchina e decido di spostarmi a Garlasco, la nostra piccola Las Vegas.

Appena uscito dal centro vigevanese, attraverso la frazione Sforzesca, quando, sulla mia sinistra, ecco la visione, noto una vecchia marcita che è lì da sempre.

Fermo l’auto, la osservo, la contemplo, improvvisamente ed in modo spontaneo mi soffermo su alcune considerazioni e riflessioni che, per quanto io sia transitato in quel luogo numerose volte in passato, non ero mai riuscito a fare emergere.

La marcita, o erbario permanente, è una coltivazione tipica della nostra zona, ormai in disuso; è un’opera di elevata ingegneria idraulica, che permette agli agricoltori di avere costantemente a disposizione, anche nella stagione invernale, il foraggio per il bestiame. Con un complicato sistema di canali irrigatori e di condotte per la scolmatura, grazie al costante movimento ed immersione del terreno nell’acqua, si impedisce nel periodo freddo, il formarsi del gelo sulla superficie del campo, con il conseguente rallentamento della crescita dell’erba, necessaria al sostentamento degli animali da latte. Ammirando la marcita mi è tornato in mente quanto appreso dai libri di Storia, e mi sono ricordato che in quei periodi lontani non esistevano i computer, le moderne macchine scavatrici, non conoscevano i sistemi di rilevamento satellitare, le livelle laser, non erano stati ancora inventati ridondanti termini del politichese, quali impatto ambientale, intervento mirato, prg, non si erano ancora costituiti i vari gruppi di studio, gruppi ambientalisti e gruppi ecologici.

Non erano ancora stati scoperti tutti i territori terrestri, la geografia era una scienza in pieno sviluppo, ma, nonostante tutto, l’opera è perfetta, funzionale e anche a distanza di secoli, risulta impagabilmente inserita nel contesto del territorio di appartenenza. A quei tempi, un manufatto veniva ideato e costruito con le sole risorse disponibili all’uomo, l’intelletto e la forza fisica, ma l’opera ancora oggi prevale sul tempo, in contrapposizione al degrado di tanti edifici moderni, che, a soli trent’anni dalla loro ultimazione, pur usufruendo degli attuali materiali e tecnologie, danno già ampi segni di decadimento. Rifletto e penso: forse allora disponevano di materiali che oggi non esistono più, quali la saggezza, la lungimiranza, la massima attenzione per le esperienze precedenti, il rispetto e la valorizzazione delle conoscenze. Si costruiva con il preciso intento di migliorarsi, di cimentarsi con un evento destinato ai posteri, che doveva testimoniare la laboriosità e i progressi consolidati. Era un insegnamento per le future generazioni, un segno di continuità e di appartenenza.

Oggi il codice del perfetto costruttore è molto diverso, si deve stupire, uscire dagli schemi, l’azzardo è sinonimo di bello, l’osare è confuso per una espressione di genialità, si abusa per giustificarsi di termini come "futuribile", "essenziale", ma soprattutto si costruisce solo ed esclusivamente pensando al lucro. Questo parametro è il più considerato, non si progetta più con i valori antichi, con l’orgoglio per l’opera che si crea, tutto viene immolato all’altare del dio profitto; per il più effimero dei valori, il denaro, manca la determinazione di voler tramandare le nostre esperienze, pare non si voglia essere ricordati o citati ad esempio.

Con questi valori non stupiremo le generazioni future, non resterà traccia del nostro passaggio, rimarranno i rifiuti ammucchiati come ricordo del nostro vivere superficiale, resteranno, forse, le stonature architettoniche che abbiamo realizzato, perdendo l’armonia del territorio e la sfida con il tempo. Questa è l’importante lezione di storia, scienze e geografia che ho ricevuto sulla via di…Garlasco, non la voglio più scordare.

 

Marco Ghisotti

 

"Chi se ne frega del tempo che fa"

 

Caro Colonnello Giuliacci, sono un detenuto del carcere Piccolini di Vigevano. Io, personalmente, ma anche altri detenuti, La seguiamo ogni sera con interesse. La Sua professionalità ci trasmette sicurezza, anche se qualche volta prevede "pioggia, nebbia e grandine", e per questo la ringraziamo. Ma c’è un’altra cosa che mi ha fatto prendere carta e penna, per scriverLe. Ormai, si è parlato tanto di canili e carceri, e lo hanno fatto in tanti. Chi per campagne elettorali, chi per far televisione, chi per sembrare migliore e chi per sembrare, chissà cosa. Ma penso di essere il primo a collegare carcere e tempo. In tutta Italia siamo quasi sessantamila, se non di più, che ventiquattro ore al giorno siamo costretti a vivere in condizioni che Lei ormai conosce. Per riempire la giornata, si guarda tanta tv e tra vari programmi interattivi, film e tg, ci sono anche le previsioni meteorologiche…

"Domani, sarà una bella giornata; di notte le temperature scenderanno, e così, fino a dopodomani, quando i venti caldi provenienti dall’Africa porteranno la primavera in anticipo". Fin qui, tutto ok! Uno si regola uscendo di casa, programmando la giornata. Noi, sessantamila, sig. Giuliacci che siamo costretti a programmare il nostro tempo con l’orologio della NASA, che abbiamo gli stessi occhi, gli stessi sguardi, persi, quando piove o c’è il sole, in dicembre o in agosto, noi che, in quelle due ore d’aria, siamo così occupati a programmare il nostro futuro, che non importa se il freddo ci entra nei polmoni o ci secchiamo al sole. Noi, sig. Giuliacci, che usiamo il calendario (tante volte più di uno per cella), solo per accontentare gli occhi, per non dimenticare. Noi, che dividiamo la giornata secondo il tragitto che fa il carrello del cibo, e il mese secondo il numero di colloqui o di telefonate. Ci saranno cose strane nel mondo, sig. Giuliacci! Ma a noi, ne è capitata una da guiness dei primati. Essere costretti a guardare sempre in alto, ma infischiandosene del tempo. Paradosso che più paradosso non si può. Ma il punto è che sempre La guardiamo e siamo in tanti che se ne fregano delle previsioni del tempo. Ma ugualmente, La seguiamo tutte le sere. Le auguriamo di continuare così. Buon lavoro e distinti saluti…

 

Bartolo Bruzzaniti

 

Istanze fai da te

 

Questa rubrica vuole essere un contributo a tutti coloro che vogliono presentare una istanza senza l’ausilio del proprio legale. In questo numero si vuole porre l’attenzione sulla problematica relativa al permesso premio ex art. 30 ter O.P.

Ricordando a tutti che esistono dei modelli prestampati presso l’Istituto. Vogliamo, comunque, riproporre uno schema di richiesta rispondendo a quanti di noi , trovandosi nella circostanza di dover presentare un’istanza, si sono chiesti o hanno chiesto: come si fa ? da che parte devo iniziare?

Ai condannati che hanno tenuto regolare condotta, l’esperienza dei permessi premio è parte integrante del trattamento e deve essere seguita dagli educatori e assistenti sociali penitenziari in collaborazione con gli operatori sociali del territorio.

La concessione dei permessi è ammessa:

Nei confronti dei condannati all’arresto o alla reclusione non superiore a tre anni anche se congiunta all’arresto;

Nei confronti dei condannati alla reclusione superiore a tre anni dopo l’espiazione di almeno un quarto della pena ;

Nei confronti dei condannati alla reclusione per taluno dei delitti indicati nel comma 1 dell’articolo 4 bis ( 416 bis, 630, c.p. e art. 74 legge stupefacenti) dopo l’espiazione di almeno metà della pena e, comunque, di non oltre dieci anni di pena residua;

Nei confronti dei condannati all’ergastolo, dopo l’espiazione di almeno dieci anni.

A chi indirizzare la domanda? Al Magistrato di Sorveglianza, il quale decide dopo aver sentito il Direttore dell’Istituto. Ricordiamo che la durata dei permessi non può superare complessivamente 45 giorni in ciascun anno di espiazione e ogni permesso può avere una durata massima di 15 giorni.

Cosa fare in caso di rigetto della domanda? Si può fare ricorso al Tribunale di Sorveglianza (per Vigevano, Milano) entro 24 ore dalla comunicazione. Fin qui quanto prevede la legge.

Naturalmente nell’adottare il provvedimento diversi sono i fattori che concorrono alla concessione.

Tra gli altri : la condotta del condannato, la sua pericolosità sociale, i motivi addotti, i risultati della osservazione scientifica della personalità e il trattamento rieducativo praticato.

 

Cronaca di un viaggio della speranza "noi ce l’abbiamo fatta"

 

Erano le undici di sera e la processione dei disperati continuava a fuggire strisciando in mezzo a quella palude maleodorante e piena di zanzare. C’èra di tutto in quel raduno di sofferenze.

Madri con i bambini sul grembo giovani in cerca di fortuna, ricercati, contadini senza terra da coltivare, operai specializzati stanchi dalla cassa integrazione. Erano stanchi, sfiniti, ma lo stesso continuavano ad avanzare. Il sudore copriva la faccia, bruciava gli occhi, qualcuno cadeva, si faceva male ma, senza fiatare, si rialzava stringendo i denti e continuava. Tutti ricordavano l’avvertimento più importante: "Se riuscite ad arrivare alla spiaggia ce l’avete fatta". Ed ecco finalmente il mare, o meglio l’ultima barriera destinata ad accogliere o a far soccombere le speranze di quella povera gente. Quanti sogni, quante illusioni, quante sofferenze si nascondevano nelle sue profondità. Ma non c’è tempo per pensare. Dopo aver pagato, uno ad uno ci fanno sistemare in un piccolo barcone di circa dodici metri. I più "raccomandati" prendono posto a prua, vicino ai motori, dove l’effetto delle onde si avverte di meno. Si accendono i motori e lentamente, accompagnata da un sospiro di sollievo, la barca prende il mare. Improvvisamente, i sorrisi spariscono, a mano a mano che la costa si allontana. Il viaggio non è molto lungo o forse non sembra tale perché molti svengono. Forse è durato tre ore, forse di più. Alla vista delle luci dall’altra sponda, qualcuno grida di gioia, anche se la costa è identica a quella da dove siamo partiti. Sì, sì, è vero, identica ma meglio illuminata .Ce l’abbiamo fatta.

 

Nikolla Zhurka

 

Fumo sì - fumo no

 

Uno dei problemi maggiori, che spesso passa sotto silenzio ma che è sicuramente presente in un luogo dove molte persone condividono spazi comuni, è il problema del fumo.

Recentemente, si è appreso che la normativa vigente ha imposto a molti locali pubblici di attrezzare delle aree riservate ai fumatori, in modo da non esporre i non fumatori al fumo passivo. Ma come viene affrontata questa situazione in carcere? Sicuramente ci sono delle difficoltà strutturali oggettive alla creazione di spazi per fumatori, quindi si finisce per fumare ovunque, senza limitazione di sorta. Si fuma nelle proprie celle (questa è una libera scelta degli occupanti), si fuma ai passeggi (nell’ora che dovrebbe essere di "aria"), si fuma nei luoghi di socializzazione, come le salette ricreative, senza che nessuno si preoccupi se infastidisce quella minoranza non fumatrice o, nella migliore delle ipotesi, preoccupandosi solo di aprire leggermente una finestra (tempo permettendo).

Sicuramente, è utopistico ipotizzare una struttura penitenziaria per non fumatori, ma è auspicabile la sensibilizzazione degli occupanti di ogni struttura esistente, da parte della direzione, organizzando incontri con associazioni e volontari che si occupano di questo problema. Con questo breve articolo, si cerca di portare in primo piano quello che agli occhi di molti potrebbe essere un falso problema, ma che invece è di portata rilevante.

Chi scrive ha vissuto entrambe le esperienze, sia da fumatore che da non fumatore, ed è con cognizione di causa che può affermare che per il novanta per cento il problema è risolvibile con un maggiore senso civico del fumatore.

Non bisogna aspettare ogni volta che sia il personale addetto alla sicurezza ad imporre il divieto di fumo (nelle poche volte che viene fatto osservare) in quei luoghi comuni dove sarebbe vietato, ma deve essere frutto di una iniziativa personale, volta anche ad una buona convivenza in un ambiente promiscuo. Sicuramente quanto scritto passerà inosservato, ma il deterrente al fumo nei luoghi comuni non deve essere il pericolo di una sanzione disciplinare o peggio di una multa (mai applicata per questi motivi) ma il maggior rispetto della propria salute e di quella altrui.

Di fumo si muore, sia esso aspirato direttamente o in modo passivo.

Ogni persona ha diritto di fare ciò che vuole con i propri polmoni, ma questo diritto viene a mancare quando entrano in gioco quelli degli altri.

 

Francesco Di Pasquale

 

Lettera aperta ai docenti. Professori come samaritani

 

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella strada; e lo vide, ma passò oltre. Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide ma passò oltre dal lato opposto. Ma un samaritano, lo vide e ne ebbe pietà; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, versandovi sopra olio e vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse ad una locanda e si prese cura di lui. (Luca 10:30-34)

 

Questa parabola è universalmente conosciuta come la parabola del buon samaritano. La storia di un uomo che si prodigò per il suo prossimo. Prodigarsi significa rispondere ad una richiesta d’aiuto delle persone che ci sono vicine, che conosciamo o che semplicemente incontriamo per la strada, senza fare finta di non vederle o passare per altra via, come fecero il sacerdote ed il Levita, perché questa è una colpa, non riuscire a rispondere ad un bisogno.

Si potrebbe chiamare dottore, un dottore che non risponde ai bisogni del malato? Si potrebbe chiamare contadino, un contadino che non risponde ai bisogni della terra? No, non si può, e non si può nemmeno chiamare madre, una madre che non risponde ai bisogni del figlio.

I nostri samaritani sono i professori, unici, pieni di passione per la loro professione.

Persone che hanno risposto, in modo meraviglioso, alle nostre esigenze e al nostro bisogno.

Un bisogno di studiare, una sete di conoscenza. Quella stessa che in età giovanile non avevamo o forse era troppo soffocata dalle distrazioni.

 

I nostri docenti hanno superato le difficoltà della mancanza di una classe quarta che non è stata concessa dai responsabili dell’Istruzione. Hanno dato la disponibilità personale per un intero anno scolastico, in modo del tutto volontario, gratuito, serio, non facendoci quasi sentire la differenza con le classi ufficiali. Si sono alternati, sostituiti, compensati e a volte anche rincorsi, ma abbiamo sempre avuto la loro presenza costante in classe.

Hanno risposto al nostro bisogno di studio, donandoci non solo professionalità, affetto e comprensione, ma soprattutto del tempo, sottratto al riposo e alla loro famiglia.

Questo è sicuramente un grande dono, che necessita di un grande cuore.

Nella nostra situazione detentiva, abbiamo incontrato tanti, forse troppi "sacerdoti e Leviti"e ancora ne incontreremo, ma basta quello che riceviamo dai pochi samaritani per farci ancora apprezzare la vita. Non sappiamo se può esserci un modo per poterli ringraziare: lo facciamo timidamente alla fine d’ogni lezione e vogliamo farlo con questo scritto, ma crediamo che il modo migliore per dire grazie sia quello di continuare a studiare e diplomarci.

Un giorno, nelle nostre case, gli occhi si poseranno su quel titolo di studio e non vedremo solo un diploma, ma anche i volti dei nostri insegnanti, ricorderemo le loro voci e la loro passione per l’insegnamento.

I buoni samaritani esistono ancora e alcuni di loro si chiamano: Maria Grazia, Maria Luisa, Andreina, Luisa, Elena, Loredana, Marina, Giuliana e ancora Luisa. A tutte voi diciamo grazie di cuore: se siamo persone migliori il merito è anche vostro.

 

La vostra classe 4 A.S.M.

 

Io e la scuola. "Frequentarla è uscire tutti i giorni"

 

Sono in carcere da 18 mesi, nella sezione di Alta Sicurezza, e dico, con certezza, che l’unica cosa sana, pulita, è la scuola ed il poterla frequentare. All’inizio, era fine settembre, ero timorosa, forse anche un po’ preoccupata; poi, giorno dopo giorno, qualcosa nasceva, cresceva in me: la voglia di rimettermi in corsa, di tornare sui libri.

Significa rimuovere accumuli di polvere perché sono passati più di vent’anni da quando ho finito la scuola, eppure mi piace mettermi alla prova, una sfida continua, così come la vita.

Le professoresse rappresentano boccate d’aria fresca ogniqualvolta varcano quella soglia, è un incentivo ad esserci, ad ascoltare, a parlare, a confrontarci.

È tutto sano, e a me personalmente fa molto bene al cuore ed alla mente, mi tiene viva ed attiva. Alle verifiche o alle interrogazioni, è incredibile, riprovo la stessa ansia di vent’anni fa, sono una "quarantenne teen - ager", ma, in fondo, è la parte divertente.

Sì, a volte la lezione è noiosa, ma credo sia la giusta contropartita, in tutte le cose c’è il bello ed il brutto.

Prendere bei voti è una soddisfazione che si ripete ogni volta ed è una carica di fiducia che aiuta anche a crescere.

Tra le compagne, a volte, si crea competizione, ma penso sia costruttiva, per me lo è. I nostri rapporti sono generalmente buoni e ci rispettiamo, sì, nonostante gli alti e bassi che viviamo tutti i giorni. Qui è facile essere volubili. Nonostante l’ambiente, per me, la scuola, frequentarla, è uscire tutti i giorni.

 

Lorenza D. G.

 

Lo spettacolo di Carnevale: Poesia, musica e divertimento

 

Il lunedì di carnevale presso il nostro Istituto è andato in scena lo spettacolo teatrale "Il giorno di Carnevale mi sono fatto la morosa", organizzato dalla Scuola Media "Bramante", in collaborazione con gli studenti dell’Università del Tempo libero di Cilavegna e con la 1° e 2° Sezione Femminile della Casa Circondariale.

Io non sono una giornalista, vado a scuola per imparare ad essere migliore, sono una persona qualunque che, con poche rudimentali basi, si accinge a raccontarvi com’è andata.

Lo spettacolo si tiene in teatro. Qualche ragazza si è data da fare per rendere il locale più allegro: maschere appese, coriandoli che scendono dall’alto, coreografie spiritose. Nella prima parte dello spettacolo sono protagonisti alcuni anziani della casa di riposo di Cilavegna. Presentano poesie, filastrocche, canti della tradizione lomellina il tutto rigorosamente in dialetto in cui viene rappresentata la vita quotidiana della gente semplice di paese (amori, tradimenti, debiti, nascite, morti). Un plauso va a tutti loro, per l’impegno che hanno messo nel donarci un po’ di spensieratezza. Grazie nonni! Adesso tocca a noi. La musica invade il palco; si incomincia con una salsa e si prosegue con la tarantella, e poi via a Rio. Se si chiudono gli occhi, con il ritmo della musica, si visitano tutti i paesi del mondo, paesi pieni d’allegria.

Le ragazze della prima sezione, con l’aiuto del prof. Marco, hanno cucito dei costumi coloratissimi e, grazie alla musica, linguaggio universale, hanno comunicato a tutte noi emozioni forti. Anche con le ragazze della seconda sezione il tema dominante è la musica, in tutte le sue sfaccettature, musica araba, Jazz-freddo e canzoni, il tutto alternato a barzellette, per riempire gli spazi vuoti, e scenette tratte da storielle spiritose. Nel corso della rappresentazione una ragazza ha ricevuto l’encomio: speriamo che questo le permetta di godere di qualche beneficio di legge!

Alla fine ancora musica e un intervento della vice Direttrice, Dott.ssa Antonella Tucci, che ha ringraziato tutti coloro che si sono impegnati per organizzare lo spettacolo e si è rammaricata che non sia stata data maggior risonanza sulla stampa locale. Forse era l’occasione giusta per raccontare alla gente di fuori come ci si può divertire con poco. Grazie a tutte le persone che ci hanno donato allegria e felicità, rendendo rosa una giornata che, altrimenti sarebbe stata votata al grigiore di sempre.

 

Gabriella

 

Incontro di calcio tra studenti dell’istituto "Casale". Il derby della solidarietà

 

Un’iniziativa da non sottovalutare quella che è stata organizzata nella mattinata del 29 aprile. Sul campo di calcio si sono affrontate la squadra degli allievi ragionieri e geometri dell’Istituto "Casale" con la formazione della sesta sezione di alta sicurezza maschile.

Non è stata una semplice partita, ma ha significato molto di più. Personalmente, non ho partecipato alla manifestazione solamente per tirare calci ad un pallone. Il mio desiderio era provare un’esperienza nuova ed affascinante. Ammetto di aver provato un po’ di soggezione trovandomi di fronte a quell’edificio che trasmetteva tanta, davvero tanta solitudine, quasi tristezza. Non immaginavo cosa avrei potuto trovare là dentro, trattandosi di una situazione inedita sia per me che per i miei compagni. Dopo tutti i controlli necessari per farci entrare, ci siamo avviati verso il terreno di gioco, dove si stavano già riscaldando i nostri avversari. A quel punto, mi aspettavo freddezza o addirittura cattiveria da parte loro, tutt’altro invece. Ci hanno accolti calorosamente con una stretta di mano, che considero più di un semplice gesto. Quindi mi sono tranquillizzato e le mie sensazioni si sono tramutate in sicurezza. Nel frattempo è arrivata anche la nostra Preside, a cui, insieme al direttore della Casa Circondariale, va il grande merito di aver reso possibile tutto questo. Ci tengo a sottolineare ancora una volta che questa iniziativa ha un grande valore, per entrambe le squadre. Non dimentichiamoci che anche per i detenuti è stata una giornata diversa dal solito, che sicuramente ha fatto bene a tutti quei ragazzi, che per un motivo o per l´altro si trovano rinchiusi dentro quelle quattro mura. Prima del nostro ingresso in campo, il Comandante della Casa Circondariale ci ha spiegato brevemente quali sono gli obiettivi della detenzione, rappresentati non dal punire ma dal tentativo di recuperare questi uomini, che hanno commesso degli sbagli, per restituirli alla società più maturi e coscienziosi. Giustamente, perché di persone si tratta, di essere umani, verso cui purtroppo molta gente mostra pregiudizi irrevocabili, ma che invece a me facevano quasi tenerezza. Non è facile spiegare con precisione le mie sensazioni; so solo che quando si parla di "esperienze", si usa questo termine per considerare una successiva crescita morale. E questo è avvenuto, almeno da parte mia. Al termine della partita c´è stato uno scambio reciproco di regali, con le relative foto di rito. Il risultato finale della partita è stato 4 -3 per noi ospiti, ma poco importa, perché gli obiettivi di questa mattinata di sport erano altri, e sono stati pienamente raggiunti.

 

G.C., alunno di 5 A Progetto Mercurio - Istituto Casale Vigevano

 

Teatro in carcere: così si abbattono le barriere dell’indifferenza

 

È innegabile che il teatro in carcere ha consentito di abbattere quelle barriere che l’indifferenza spesso innalza fra i detenuti e le istituzioni. L’aver permesso, e per questo siamo grati alla Direzione, di allestire e portare in scena degli spettacoli, dando loro risonanza sul territorio, ci ha fatto capire che i pregiudizi nei confronti dei detenuti si possono superare quando c’è la volontà di promuovere quelle iniziative che meritano di essere incentivate.

Nel gennaio del 2003, quando ci fu proposto di allestire lo spettacolo "Aggiungi un posto a tavola", fummo presi da molte perplessità. Avevamo il timore di non sopportare la tensione psicologica che la recitazione provoca nei principianti. I dubbi nascevano da difficoltà oggettive, poiché nessuno di noi aveva avuto in passato un’esperienza simile e soprattutto l’analisi del testo richiedeva una professionalità che pensavamo di non possedere.

Ma la voglia di dimostrare che non esistono barriere invalicabili e di trasmettere alle nostre famiglie, agli insegnanti, ai nostri compagni di sezione e alla Direzione l’idea che potevamo raggiungere un obiettivo concreto, ci ha dato una sorprendente forza interiore.

L’equilibrio dell’uomo e la sua forza sono la sintesi di un percorso che si fa dentro se stessi. Quest’esperienza ci ha permesso di guardarci dentro e far emergere quell’aspetto della nostra personalità che difficilmente riesce ad essere visibile. Ci siamo sentiti, e non era mai accaduto, non detenuti, ma finalmente persone.

Chi ha partecipato ad "Aggiungi un posto a tavola" ha cercato tenacemente quest’equilibrio. Personalmente, mi sono posto alcune domande e ho concluso che per noi il teatro è un concreto strumento di comunicazione con l’esterno e che finalmente si è aperta una finestra sulla società civile. Abbiamo l’opportunità di attivare canali di dialogo spesso soffocati.

Da febbraio 2004 a Davide, Fabio, Monica, il regista e gli attori che hanno allestito lo spettacolo di giugno (con repliche a luglio e dicembre), si è affiancato un nuovo collaboratore, Filippo.

Grazie a lui è iniziato un laboratorio teatrale per migliorare le tecniche espressive.

 

Italo Franco Greco

 

 

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