Giornalismo dal carcere

 

Anagramma

Periodico del carcere a custodia attenuata di Lauro (AV)

(Numero 5, anno 3, luglio 2005)

 

A Nisida per la prima volta mi sono sentito accolto

Via, via, via da queste sponde

Finalmente ho un pasto caldo, un letto, una doccia…

A Nisida per la prima volta mi sono sentito accolto

 

di Solidi Tarek

 

Mi chiamo Solidi Tarek, nato a Casablanca (Marocco) l’8 marzo 1984. Sono venuto in Italia nel 1994 con mio zio. Ma per me era tutto strano. Dopo due anni ho capito cosa è l’Occidente. Non è facile vivere in un altro paese. La lingua, la cultura, le usanze, le leggi, è tutto un altro pia­neta. Una vita da inventare senza tradire fino in fondo le mie radici, la mia formazione, la mia cultura. Il nuovo da acquisire nel paese ospi­tante assume spesso i connotati di una prostituzione culturale, giacché ci sono dei prezzi da pagare e non possono neppure essere pagati una volta per tutte. Ogni giorno che passa s’impara una cosa e si pren­dono le distanze dalle cose imparate nel proprio paese. E neppure è pos­sibile dimenticare del tutto le proprie radici, i comportamenti… Le persone che ho conosciuto, necessa­riamente sulla strada, mi hanno insegnato come fare tanti soldi e subito, cosa che ovviamente mi faceva piacere.

Coi soldi si comprano tante cose e se non mi riusciva di trovare un lavoro che mi consentisse una vita dignitosa, restava la strada e i modi spicci per fare soldi, natu­ralmente saltando il fosso della lega­lità. Mi sono reso conto quasi subito che mi ero cacciato in un problema assai più grande di me, nonostante la mia giovanissima età. Quando si cresce solo sulla strada non c’è spazio per le regole, è la giungla d’a­sfalto, è l’indifferenza, è il rifiuto a sedimentare le regole, è la lotta quo­tidiana per la sopravvivenza. Naturalmente coi soldi potevo comprare quasi tutto e questa cosa mi procurava piacere.

A 14 anni mi hanno arrestato per spaccio e mi hanno portato in carce­re. A Treviso. L’ingresso in carcere è una cosa strana, sembra un altro mondo. Dopo tre mesi sono uscito e, ovviamente, sono tornato alla sola vita che mi consentisse la sopravvivenza. Di nuovo sulla strada. Ora, però, che avevo conosciuto la gale­ra, mi suonavano strani i consigli delle persone che frequentavo. Mi dicevano: vedi, non è difficile la galera. C’era una sorta di invidia nelle loro parole, come se avessi fatto carriera...

A 16 anni ho deciso di andare via da questa strada e provare a vivere semplice in un altro paese europeo. Provai con la Francia ma le cose si complicavano sempre di più: nuova lingua, nuove regole, sempre ai margini, sempre sulla strada, con persone di strada. Ma anche li di nuovo in fuga, volevo andare più lontano. Seguirono la Spagna, il Portogallo, l’Olanda, la Turchia, la Polonia, Russia, Norvegia, Svizzera, Finlandia, Svezia, Austria. Alla fine mi sono fermato in Germania dove naturalmente ho conosciuto persone che vivevano come me. In breve sono entrato nel “giro”; la scuola maestra l’avevo imparata in Italia. Dopo pochi mesi mi hanno arrestato anche in Germania. Per spaccio di stupefacenti. La prigione tedesca è stata peggiore di quella italiana, le persone odiano gli stranieri. Talmente mi guardavano “storto” i prigionieri tedeschi da farmi deside­rare la morte. Mi ripetevo: madre mia, ma perché sono nato in un mondo pieno di disprezzo. Ma come era brutta la galera tedesca! era piena di persone che odiano gli “stranieri”.

Quando ti senti trecento persone che ti guardano male, allo­ra non puoi non chiederti che cosa sei nato a fare! Tuttavia cercavo di far buon viso a cattiva sorte, cercavo di resistere e di comprendere, in una solitudine senza scampo. Riscuotevo solo odio, lo leggevo persino negli sguardi che trasudavano disprezzo e odio, mi sembrava di tro­varmi dove finisce tutto, dove la vita non ha nessun senso, mantenerla o perderla non era cosa importante. Pensavo spesso al mio paese, la mia città d’origine, gli amici, i coetanei, i giochi, ma si trattava di una condi­zione talmente povera di ogni cosa da non prendere in considerazione !idea del ritorno! La prigionia in Germania è durata un anno, forse il più brutto della mia vita. Appena uscito ho deciso che dovevo tornare in Italia. Correva l’anno 2003. Al confine, mentre stavo rientrando in Italia mi hanno fermato per spaccio di sostanze e mi hanno portato all’IPM (carcere minorile n.d.r.) di Bari dove… mi sembrava di essere tornato in Germania. Anche a Bari l’odio ed il disprezzo per lo straniero erano il pranzo e la cena delle mie giornate. In breve ho litigato. Non riuscivo a contenere il disprezzo e la solitudine.

Ero solo con me stesso. Chiesi ed ottenni il trasferimento in Sardegna, ma pure li era la solita solfa. I sardi proprio non mi digeri­vano. Per loro “straniero” voleva dire “cattivo”. Furono loro, gli altri dete­nuti, dopo un litigio con botte, a chiedere il mio trasferimento. La mia esperienza in Sardegna durò un mese. Fui trasferito a Nisida, dove per la prima volta mi sono sentito accolto dai ragazzi. Li mi sentivo escluso per altri motivi. Infatti, gli altri ragazzi ricevevano le visite dei parenti, i pacchi, la posta, avevano un legame col mondo. Io invece ero solo, niente colloqui, niente pacchi, niente posta. L’unica cosa positiva che vedevo a Nisida era il valore dei ragazzi che stranamente avevano un’attenzione particolare verso gli stranieri”. Questo fatto mi spin­geva ad una riconciliazione col mondo… e col mio destino. Da Nisida a Lauro il passo è stato breve, dovuto soprattutto alla mia età ormai maggiorenne. Anche qui a Lauro l’accoglienza è stata buona, mi sento considerato e questo mi sta spingendo a ripensare la mia vita fuori da qui, quando sarà…

Le cose sono andate diversamente e mi sono trovato peggio che in Marocco. Ho girato tutta l’Europa ma la mia condizione di escluso non si è modificata. Solo qui a Lauro, e per la prima volta, mi sento trattato da per-sona umana, riscuoto anche delle attenzioni e qualche appezzamento. Persino il medico sì è preso cura dei miei denti, cosa di cui altrove non ne volevano sapere. I detenuti non mi odiano ed il personale non mi disprez­za. Questo mi fa ben sperare per il mio ritorno alla legalità. Forse la mia può non essere un’esistenza bruciata. Forse, forse ce la farò, le energie non mi mancano e neppure la volontà. Forse questo non basta, forse.

 

Via, via, via da queste sponde

 

di Antonio Luongo

 

Mi chiamo Antonio, ho 30 anni e sono detenuto nella casa circonda­riale di Lauro, un Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze (ICATT). All’amico/a che legge questo giornale, da noi redatto con l’aiuto di alcuni operatori in integrazione col laboratorio d’informatica, chiedo di prestare la massima attenzione nella lettura. Intanto quando penso al tempo rime ho sprecato per dedi­carmi pienamente all’uso e all’abu­so di sostanze stupefacenti mi viene rabbia. Iniziai a fare uso di sostanze quando ero abbastanza adulto. Avevo circa 21 anni, quindi avevo superato l’età adolescenziale e con essa la fase critica, di massi­mo rischio. Dovevo ragionarci per non cadere nella trappola delle dro­ghe pesanti. Iniziai con le droghe più leggere ma quasi subito lo sci­volone fu inesorabile… Nessun automatismo a scalare, avrei potu­to anche continuare con lo spinel­lo… se non ci fosse stato l’equivoco dei vari derivati sintetici dell’oppio da me ignorati, o classificati affini al “fuma”. Con il tempo la cosa si faceva nella mia vita sempre più spazio fino a quando non ne diventò padrona assoluta con l’approdo deli­berato all’eroina e cocaina.

In breve, le sostanze “pesanti” ebbero un gran potere su di me. Me prime prese non capivo cune affrontarla, o gestirla, ero trascinato più dal piacere che dalle voglia di interrom­pere quella assurda sofferenza lega­ta all’uso e all’abuso della sostanza che comunque dovevo riuscire a procurarmi ogni giorno. Iniziai ad incrociare tutti i risvolti legati all’uso e alla necessità sempre urgente di procurarmi le sostanze, una strada buia, apparentemente senza alcuna uscita. Tutto si è consumato in ben sette anni tra arresti e vane disin­tossicazioni senza mai una vittoria. La svolta arriva nel 2002, a inizio anno, dopo tante sofferenze, vedendo tutti in famiglia concentrati su di me al fine di un mio com­pleto recupero, che a loro volta non ci erano mai riusciti, fino a quando un mio fratello più grande non prende una decisione: quella di intervenire con uno di quei “mazzietoni” (leggi “botte, n.d.r.) come io non avevo mia visto nemmeno nei film e che mai avevo subito in vita mia.

Quel mattino segnò per me la svelta a lungo cercata. Vidi mia madre dai ami occhi si leggeva chiaramente una sofferenza atroce, sia per le botte che mi stavo prenden­do ma pure invocandomi a lasciare quei percorsi difficili che avevo imboccato senza soluzione di conti­nuità. Continuava ad implorarmi di finirla con quella storia della droga che lacerava anche gli affetti fami­liari più autentici. Ad un tratto mia mamma cadde a arra, come vinta dai tanti dispiaceri.Quest’ultimo, però (un fratello che picchia l’altro fratello), la colpì dritta al cuore! Non volevo crederci, in quel momento invocai Dio, gli chiesi che non facesse finire tutto così.

Amici miei, non lo so, forse il Signore mi ascoltò e la mamma si riprese dopo circa 10 minuti. Il dottore ci disse che la forte collera le aveva provocato un collasso. Immaginate mio fratello che quel mattino era venuto per me, per darmi una “drizzata”, come si dice, alle ossa, perché quella stessa notte avevo combinato un bel guaio! Avevo ridotto la macchina di una persona a tal punto da render-la inservibile per una questione che si era verificata il giorno prima. Per colpa mia e per più motivi, le cosid­dette tarantelle” che i percorsi delle droghe recano fin dentro le relazio­ni affettive e familiari, si stava con­sumando una tragedia, un assurda tragedia: il rischio virino di perdere la mamma al secondo collasso (il primo si era verificato tempo prima ed aveva le stesse cause). Mi senti­vo responsabile di tutte le tarantel­le, ovviamente, a causa delle quali era intervenuto pesantemente mio fratello e coinvolgendo in queste asprezze anche mia madre che impotente assisteva all’esito ultimo di una serie infinita di autentiche, oggi dico, pazzie che la droga mi faceva fare. Purtroppo, il ruolo dei familiari in queste storie è sempre tragico giacché il legame affettivo s’intreccia in modo inesorabile coi guai combinati da chi è preso nella morsa della necessità di procurarsi a tutti i costi la o le sostanze.

Tutto perché io ero caduto in una trappola così feroce da non lasciare più alcun frammento di libertà. Grazie a Dio, dal quel giorno ne passarono albi cinque per capire quanto bene mi volevano i miei familiari. È stata lì il punto di svolta, cercai di trovare tutto il coraggio e la forza possibile, facendo ricorso a tutte, ma proprio tutte, le risorse che potevo avere per invertire la rotta, ben sapendo che questa lotta avrebbe richiesto costanza e coe­renza, quindi un mare di sofferenza.

Dopo circa due mesi, mio fratello riuscì a trovarmi un lavoro; la gente non ne voleva sapere niente di me, non credeva nella mia volontà per i tanti guai che avevo fatto, era anche un po’ logico che mio fratel­lo non mi mollasse un minuto, mi chiamava in continuazione, si infor­mava, mi accompagnava passo passo. È stato grazie a lui, grazie a mio fratello e anche un po’ alla mia determinazione, la volontà lurida di porre fine a quel tipo di vita, o meglio di non-vita, che ho trovato un’opportunità, uno spiraglio per intraprendere un altro cammino. Naturalmente è stata la credibilità di mio fratello che mi ha consentito di trovare un lavoro per guadagnarmi la vita lavorando. La notizia che potevo recarmi a lavorare il gior­no dopo mio fratello l’ha ricevuta in mia presenza, ma io non avevo capito bene la telefonata, fu lui, subito dopo attaccato il telefono a dirmi che avrei potuto recarmi a lavoro il giorno dopo. Ero felice, anche se non sapevo cosa dovevo fare.

Dopo che ci mettemmo d’ac­cordo con il datore di lavoro capii di cosa si trattava: un lavoro come carpentiere in una ditta grande e abbastanza seria che svolgeva lavo­ri nella grande impresa chiamata T.A.V. treno ad alta velocità, impre­sa a partecipazione Statale, gestita dagli azionisti. Mi sentivo e stavo effettivamente bene. Per quasi due anni ho lavorato senza interruzioni, lavoravo in regola: per me era un momento bellissimo, prendevo soldi, mi divertivo, avevo persino preso in affitto una bellissima villet­ta che condividevo con la mia ragazza e con la quale maturava persino un progetto matrimonia­le: un colpo di fortuna, pagavo pochissimo e c’avevo quasi finito i lavori di adattamento per andarci ad abitare con la mia ragazza. Solo a raccontarlo questo periodo della mia vita mi emoziona ancora, mi sembra di provare le stesse emozioni di allora.

Purtroppo, i tempi della giustizia, che definire troppo lenti è dire poca cosa, non riescono a tener conto dei processi di vita, dei percorsi faticosi per correggere la rotta e finiscono per diventare… bombe ad orologe­ria. Dopo anni ed anni, proprio quando tutto deponeva a favore di una vita dignitosa anche per me, quando tutto filava liscio schiuden­do al terreno della riprogettazione concreta di una vita “normale” in presenza di tutti i requisiti necessa­ri, quando tutto aveva ormai avuto tempi di verifica solidi, quando cominciavo a pensare seriamente di avercela finalmente fatta, eccolo che sbuca fuori, come un mostro che ti salta addosso, il mandato ese­cutivo di arresto! E col carcere, addio al lavoro (dove il licenziamen­to è stato automatico), ai legami familiari faticosamente ricuciti. È scattata la nuova trappola (non diversa da quella della droga!) nella quale mi dimeno ancora. Mi chiedo chi ci guadagna qualcosa da que­st’opera demolitala che mi ricondu­ce a zero, a dover ricominciare un percorso in salita, con quale esito finale non so davvero dirlo!

Naturalmente, sono responsabile della sanzione penale are ho ripor­tato, ma che senso possa avere che spunta fuori dopo tanti anni mi sem­bra un ingiustizia e quasi una beffa. Continuo a confidare nell’affetto dei miei familiari che continuano a credere in me, nonostante tutte le delusioni che ho dato loro; ce la metterò tutta di nuovo per risalire la china nella quale il carcere mi ha precipitato, è tempo che io dia di nuovo qualche soddisfazione ai miei familiari ed a me stesso… via, via, via da queste sponde!

 

Finalmente ho un pasto caldo, un letto, una doccia…

 

di Francesco Silvestri

 

Salve a tutti, mi chiamo Franco, ho 43 anni, (la gente me ne dà 60), sono un po’ basso, ho i capelli quasi tutti grigi, mi è rimasto qualche dente, ma in compenso ho un pancione da sesto mese di gravidanza, e la mia pelle è ricoperta di macchie, denunce di un fegato non proprio vergine. Sì, sono un alcolizzato, ma io so bere. Sorseggio. Da mattina a sera. E poi non do fastidio a nessuno. Solo a me stesso. Ma questo non conta molto. Sono un alcolizzato come mio padre. Si dice che le colpe dei padri ricadano sui figli. Ma questo non mi riguar­da. Mio padre è morto alla mia nascita. Di cirrosi epatica.

Da sette anni vivo per strada. Sono quel che si dice un barbone. Già il termine in sé crea problemi di vicinanza. Ma torniamo a noi… Voglio raccon­tarvi la storia della mia vita. Anche se non è molto facile per chi è abituato a vivere nel presente, a scandire il tempo con orologi diversi da quelli portati dalla cosiddetta gente normale. Lo stomaco mi dice che è ora di mangiare, le membra stanche che è ora di dormire, le vene dei polsi che è ora di bere. E si, ho il vizio dell’alcool e lo status del barbone.

Sono nato nel ‘61 a Napoli, anno di morte di mio padre. Sono andato a scuola fino a dodici anni. Poi la morte di mia madre. Poi il collegio. Del collegio ho un ricordo indelebile: l’epatite B, cronica. Ricoverato a ventitre anni all’ospedale di Palma Campana. Per mesi. Non ricordo se già all’epoca bevevo. Mi sono sposato subito dopo con una donna di un paese qui vicino (la mia Rosa), in una chiesa di Brusciano, alla perife­ria di Napoli. Ricordo di essermi seduto sulle scale ad aspettare la mia sposa. Ho trovato subito lavoro come camionista. Trasportavo imbal­laggi. Facevo bene il mio lavoro. Ero soprannominato “lo sceriffo” per via della mia capacità di passare le funi da un capo all’altro del camion senza arrampicarmi su di una scala. Facevo il pieno e via. Di vino, s’intende, gentilmente offertomi dal datore di lavoro, quando esigeva che arrivassi in tempi da record in un qualsiasi posto per una consegna urgente. Così ho perso il lavoro. Fermato due volte in stato di ubriachezza. Il datore di lavoro mi ha licenziato. Sempre lo stesso. Ma non ricordo se sia stato prima o dopo essermene andato di casa. Ma a questo ci arriverò fra poco.

Ho due figli: il maschio si chiama come mio padre, ha ventun’anni (o diciannove?), la femmina ne ha venti (o forse quindici?). Vivevamo in uno stabile con i miei suoceri. Mio suoce­ro, anche lui un alcolizzato, c’invita­va spesso a mangiare da lui. Più spesso a bere… Fino a quando sette anni fa, dopo l’ennesimo bicchiere di troppo, ho avuto un brusco litigio con lui. Me ne sono andato di casa, mia moglie non ha voluto lasciare i genitori. Me ne sono andato di casa portando con me i giochi che facevo con mia figlia e le sue insistenze di bambina. Mia figlia.

Ho dormito per un po’ nella mia auto. Nel frattempo sono stato rico­verato all’ospedale Cotugno per pro­blemi epatici. Terminata la degenza, mi hanno trasferito in un’altra stan­za. Otto mesi a Poggioreale. Abbandono del tetto coniugale o forse perché ho minacciato mio suocero con un coltello, non ricordo bene; sapete ho anche una demen­za dovuta all’abuso d’alcool. Quando sono uscito la mia auto era bruciata.

Inutile dire che sono divorziato. Sono stato per un anno e mezzo pendolare presso le mie sorelle, ma per quel piccolo problema che vi ho già detto, i mariti hanno preferito che io andassi altrove, così pure le mie sorelle. Ho dormito per quasi due anni, o uno, o tre, non ricordo alla stazione di Napoli dove mi hanno rubato la patente, o l’ho persa, o me l’avevano già revocata le forze dell’ordine. Non ricordo. Così dopo un po’ sono ritornato al paese dove, oltre ad ubriacarmi, passo il tempo ad elemosinare soldi e lo sguardo, il saluto o il sorriso di mia moglie e dei miei figli. Ogni tanto mia figlia mi saluta da lontano, raramente mi si avvicina, cerco di darle dei consigli di cui lei non sa cosa farsene. Mio figlio invece non mi saluta (come dargli torto?).

Ho già detto che per strada mi prendono in giro, mi chiamano spor­co, alcolizzato. Io rispondo: ciao, grazie! Ma non capisco cosa gli ho fatto e perché ce l’abbiano tanto con me, a Napoli non mi capitava, ma qui c’é la mia famiglia e a Napoli non posso tornare. Allora porto con me un coltello e un bastone, insieme ad una carrozzina, del vino, un fegato marcio, tre cani (uno da guardia, uno da cuscino, l’altro da coperta), ricordi distorti e chilometri di sfiga. Poi, poco tempo fa (mesi? giorni? non ricordo) ho conosciuto delle persone che mi hanno accolto in una casa che chiamano C.P.A. (Centro di Prima Accoglienza. n.d.r.). Sono entrato con la voglia di cambiare, di migliorare. Anche perché la paura fa 90 e ultimamente la mia pancia è di otto mesi, allora ho deciso di smet­tere di bere. Non bevo più da tre mesi o forse saranno tre settimane, non ricordo. Ho buttato la carrozzi­na, finalmente ho un pasto caldo, un letto, una doccia e persone che mi accudiscono. Tra gli altri, in partico­lare, due donne meravigliose; una a curare il mio vizio, l’altra a migliorare il mio status. Ho anche un medico di fiducia e un domicilio. Mi servivano per fare gli esami. I risultati? Meglio parlare d’altro!

Con alcuni operatori ho un buon rapporto. Di altri mi fido un po’ meno. Ma in generale li ammazzerei di baci tutti. Nel centro ho conosciuto altri ospiti: stranieri e locali, grandi e pic­coli, donne e uomini. Con loro cerco di comportarmi da amico-parente­-fratello-marito-figlio-confidente, da padre, specie con il più piccolo. Non bevo più (o quasi), mi sto curando. Mi stanno convincendo a curarmi. Mi hanno portato in un gruppo di Anonimi Alcolisti che viene ospitato dal Ser.T. di Pomigliano D’Arco, solo che prima di andarci ho dovuto com­battere la paura con qualche bicchie­re. Poi mi hanno detto che ci sono dei posti dove accolgono solo alcolisti, ma io dal paese non mi muovo. Qui ho la mia famiglia.

Ogni tanto mia figlia viene a tro­varmi. Difficile parlare con lei quan­do la memoria è così confusa e le emozioni viaggiano a trecento chilo­metri l’ora su un unico filo che deve risalire un pozzo fondo sette anni. Occorre un mediatore. Nel frattempo al Centro è venuto un altro ragazzo. Sorride sempre. È perché non sa piangere. Proprio non ci riesce. Io lo saluto sempre affet­tuosamente. Ad un tratto tutti sono affettuosi con me, anche la gente del paese. Mi vedono pulito, sobrio, migliorato. Tutto quest’affetto mi fa male, non credo di meritarlo, non ci sono abituato. Del resto sono un uomo che non vale nulla. È quello che ripeto più spesso. E in fondo se bevo qualche bicchiere dopo pranzo che male mi può fare? Poi, io so bere. Sorseggio.

In questi giorni è arrivato un nuovo utente, non so chi sia, non ricordo il nome, non so da dove venga, non so il suo problema. Mettiamola così. Non è che io stia ribevendo da mattina a sera, sorseg­gio. E allora si fa tutto più confuso; gli orari di pranzo, di rientro al Centro eccetera. È ritornata la norma­lità; sorseggio, porto con me una nuova carrozzina. Fiammante e con due cani. È la mia auto, la mia casa, il mio mondo. Non riesco a staccarmene. Ad un tratto il presente immediato ridiventa la mia unica condizione di vita. Rifiuto di fare una doccia “ora” perché non riesco ad immaginare i benefici del “dopo”. È ritornata la normalità. La gente non si avvicina più a me se non per schernirmi e mia figlia non viene più al Centro. Come darle torto?

Ultimamente dormo sotto al portone del centro. Mi danno da mangiare anche se rifiuto di lavarmi. L’altro giorno è arrivata un’ambulanza dalla quale è scesa una dottoressa con un camice verde. Ha parlato con gli operatori del Centro; non sono un caso da T.S.O. Cosa vorrà dire? Non sono più tornato al Centro. È già passato qualche giorno. E ora… L’asfalto mi fa da letto, una bottiglia da coperta, i sensi di colpa sono i miei compagni nel quotidiano, insie­me alla mia rabbia e all’odio degli altri. Questo per due settimane. Avete idea di cosa siano due settimane di vita in strada per uno nelle mie condizioni? Sono ritornato al Centro, con i piedi gonfi, le mani insanguinate e il fegato spappolato.

Ho chiesto di essere portato all’Ospedale di Nola. È stato chia­mato il pronto soccorso, che non mi ha soccorso se non dopo minacce di denuncia. Il motivo? Già erano a conoscenza della mia condizione. Tanto basta per farmi morire in stra­da. A Nola alcuni operatori del Centro sono venuti a trovarmi; mi hanno tro­vato debole, indifeso, spaventato. Forse per questo più lucido per capire che è il caso di entrare in una struttura che possa almeno tentare di curare il mio problema e migliorare il mio status. Nel frattempo, da Nola sono stato trasferito a Palma Campania. Reparto lunga degenza. Un medico mi ha curato e si è messo in contatto con gli operatori del Centro, i quali sono riusciti a trovarmi anche qui. Appena li ho visti, in lacrime, ho ribadito la mia convinzione ad entrare in Comunità dove ora mi trovo ed è di nuovo ...un pasto caldo, un letto, una doccia. Pare che anche il fegato soffra un po’ meno.

 

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