Edward Bunker

 

Bunker: «La galera non redime. Alimenta crimini e criminali»

Parla lo scrittore ex detenuto che stasera partecipa al Festival "Letterature"

 

Il Messaggero, 6 giugno 2002

 

Ci sono persone a cui la vita sembra aver dichiarato una guerra personale, a cui sembra aver destinato solo il peggio. Prima un’infanzia abbandonata tra collegi e riformatori, poi un’adolescenza da strada, imbottita di risse, furti e smercio di droga. E infine, una cella di otto metri quadrati dove smaltire una fedina penale lunga così. Edward Bunker ha passato una bella fetta della propria esistenza dietro le sbarre: 18 anni, per l’esattezza. Ma nemmeno oggi mostra rimpianti per un passato diverso, né si sente in credito con la sorte: «Anzi - dice -, la mia vita l’ho vissuta veramente, in modo pieno, ricco. Ci sono delle cose che ho fatto di cui mi vergogno, ma quando mi guardo allo specchio, posso essere fiero di come sono. Quel mio carattere che mi ha spinto alla ribellione, è lo stesso che mi ha permesso di sopravvivere e di impormi».
In 18 anni di galera Bunker ha conosciuto i penitenziari più duri d’America, da San Quintino a Folsom. Ma prima ancora della scarcerazione, sono stati i libri a riportarlo nel mondo delle persone libere: Hemingway, Faulkner, Dostojevskij, Sartre. Poi, i libri, ha cominciato a scriverli.
Più che dei romanzi, dei pugni nello stomaco: Come una bestia feroce, Cane mangia cane, Animal Factor ritraggono tutti il "pianeta nero" del carcere, un mondo senza luce di speranza che macina spirito e carne di protagonisti dannati e privi di redenzione. Dai tempi della prigione sono passati quattro lustri. Oggi, a 68 anni, Edward Bunker è una star della lettere, corteggiata da Hollywood e rincorsa dagli editori di mezzo mondo. E a quest’età lo scrittore americano ha pensato bene di tracciare un bilancio delle ferite inferte e subite, mettendosi allo scoperto in un libro di memorie appena pubblicato da Einaudi, Educazione di una canaglia (520 pagine, 14 euro). Come nei precedenti romanzi, anche qui viene fotografato lo spietato universo carcerario, popolato di serial-killer, secondini sadici, giustizieri sanguinari. «Perché non mi libero una volta per tutte da questo mondo di "cattivi"? Perché il carcere è la mia seconda pelle. Per scrivere bene bisogna raccontare ciò che si conosce» spiega Bunker, che si trova di passaggio a Roma per partecipare stasera al Festival internazionale "Letterature", alla Basilica di Massenzio.
Tra pestaggi a sangue e tentativi di fuga, le pagine dell’Educazione rappresentano una pesante requisitoria nei confronti del sistema penitenziario, un sistema che sembra fatto apposta per alimentare crimini e criminali. «Fa ridere l’idea che dietro le sbarre i carcerati dovrebbero riabilitarsi - dice lo scrittore -. La galera restituisce persone peggiori di quelle che ha rinchiuso. E poi cosa fanno? Riempiono le celle di poveracci che scontano pene per storie di droga da quattro soldi. Li trasformano in pazzi criminali, e poi li rimettono fuori tra la gente normale. E’ come se allevassero delinquenti in serra».
Rispetto a 15 o 20 anni fa, rispetto ai tempi di Bunker, la criminalità negli Stati Uniti è in netto aumento, in particolare quella giovanile, spesso feroce e gratuita. «Probabilmente ci sono più delitti a Los Angeles che in tutta Italia - aggiunge lo scrittore -. Ma si tratta di una criminalità sempre più razziale: in California un adulto nero su quattro è in galera o è comunque un pregiudicato». Ma lei, Bunker, quando era dietro le sbarre, ha mai pensato di non riuscire a farcela, di non riuscire a superare la violenza e la follia del carcere? «Ho un carattere forte. Sapevo che me la sarei cavata. E poi, la scrittura mi ha aiutato». E suo figlio, che oggi ha 8 anni, conosce la storia di Edward Bunker? «Non ancora. Ma la scoprirà presto. Ormai sa leggere». L’Educazione di una canaglia è dedicata a lui.

Narrare col talento di una iena

 

Il Manifesto, 6 giugno 2002

 

Al posto dell’indice dei nomi che si trova in tante autobiografie contemporanee, alla fine di Educazione di una canaglia di Edward Bunker (Einaudi «Stile libero», pp. 523, euro 14,00) ci starebbe benissimo un bell’indice dei reati commessi. il primo, se non sbaglio, arriva a pagina 25: un furto di tagliandi per benzina ai danni di una stazione di servizio Texaco in San Fernando road Los Angeles, Bunker è poco più che un bambino, ma la sua infanzia reale è ancora più spietata, violenta, ingiusta di quella immaginata da T.J. Leroy in Ingannevole è il cuore più di ogni cosa. Il crescendo dell’orrore è scandito dal cambiare dei nomi delle istituzioni che si prendono in cura il bambino deviante fin dalla più tenera età: istituti privati, case di accoglienza, centri di recupero, azienda agricola, riformatorio... Ogni fuga, ogni nuovo errore determinano un ulteriore giro di vite della macchina sadica.

L’infanzia, l’adolescenza sono una semplice circostanza anagrafica, a volte un problema burocratico, niente di più. A quindici anni, Bunker ha già imparato tutto quello che c’è da imparare del mondo. È un corpo che cresce in catene, un ricettacolo di orgoglio e violenza subita e rancore. La sua identità è un fascicolo che si ingrossa di mese in mese, dentro e fuori le sbarre. È un uomo in guerra, un delinquente, un individuo destinato ad attraversare lo spazio sociale con i sensi e la capacità d’attenzione sempre all’erta, come una belva nel bosco. Predare e venire braccato sono le varianti fondamentali di questa forma di vita nuda ed istintiva.

Educazione di una canaglia, uscito in America nel 2000, è un indimenticabile libro di formazione. Ci racconta diciotto anni di carcere durissimo, nelle peggiori fosse dei serpenti californiane, e un certo numero di imprese criminali compiute o tentate in libertà, quasi sempre a Los Angeles. Ma è anche il resoconto di una vocazione alla letteratura che è lentissima ma implacabile, e finisce, dopo sei romanzi rifiutati, per offrire a Bunker un’alternativa, una concreta biforcazione del sentiero.

Fin da giovane, nei momenti in cui la sua vita era appesa a un filo, la lettura lo ha allontanato dalla follia e dalla disperazione. Libri come Il vagabondo delle stelle di London, letti sul materasso lercio di una cella di isolamento, più che una «via di fuga» sono stati una potente forza centripeta, un generatore di equilibrio, l’ultimo residuo collante di un’identità sfracellata.

La lettura e poi la scrittura sono vie d’accesso a quella solitudine che, insegna Dostoevskij, è fra i beni più preziosi e rari nella condizione del prigioniero. Con applicazione inflessibile, il delinquente si trasforma in scrittore. È l’unica metamorfosI davvero possibile, spiega più volte Bunker, autore di delitti che cova in sé, lungo un percorso interminabile, un autore di romanzi.

Qui forse sta il punto cruciale, il più ricco di significato, di questo lungo racconto autobiografico. Perché la letteratura non «redime», in questa prospettiva, né ruota minimamente sul tema del «pentimento». Il passaggio dal crimine alla scrittura rappresenta un nuovo patto con il mondo solo attraverso quella strettissima cruna dell’ago che è la salvaguardia dell’integrità del carattere. Assioma che innerva di sé tutta intera questa Educazione di una canaglia («felon» nell’originale) e che viene esplicitamente ribadito al momento di tirare le somme, concludendo: «I tratti del mio carattere che mi hanno fatto combattere il mondo sono gli stessi che mi hanno permesso di farmi valere».

Il primo libro pubblicato da Bunker, Come una bestia feroce, del 1973, secondo James Ellroy è il «più bel libro mai scritto sul tema della rapina a mano armata". Scegliendo la via della crime story, Bunker può ovviamente adottare un invidiabile punto di visione interna alla materia, rafforzato dall’uso, credibilissimo, della prima persona. Nel 1977, con Animal Factory, Bunker si dedica alla "sua" prigione, San Quentin, mentre nel successivo Little Boy Blue (1981) si parla delle disavventure di un ragazzino di undici anni, che è in sostanza lo stesso che ritroveremo nell’autobiografia.

Ma anche in Cane mangia cane, la bellissima pulp fiction del 1997, le tessere del mosaico sono tutte autentiche, e dove manca l’esperienza diretta suppliscono le migliaia di storie ascoltate in carcere. Esile è lo schermo distanziante della fiction, dunque, ed esile il confine che la divide dalla confessione in prima persona.

Come in I miei luoghi oscuri di Ellroy, semmai, altro splendido affresco dell’underworld di Los Angeles e incalzante racconto della vocazione alla letteratura di un reietto, diventa via via chiaro che si scrive, a un determinato grado di autenticità, solo ciò di cui si può, effettivamente, scrivere -perché lo si è scontato sulla propria pelle e nella trama dei propri giorni. Così è anche per quel genere di scrittura "da duri" (hard boiled o pulp o poliziesca che la si voglia definire) che in apparenza sembrerebbe un pura opzione retorica, una scelta "di genere" con marcate finalità commerciali.

Ellroy e Bunker, invece, per motivi opposti e complementari, hanno abitato la scena del delitto molto prima di concepire la sua possibile traduzione in argomento di scrittura. Sono entrambi immersi, insomma, conficcati nella loro materia: Ellroy perché vittima di un delitto insoluto (l’omicidio della madre, ritrovata nel 1954 sul ciglio di una strada di El Monte), Bunker perché la vita di un ladro e rapinatore, se non è esattamente un romanzo, del romanzo possiede più di una prerogativa: la feroce dialettica del progetto e dell’imprevisto, la ferrea necessità di rimanere fedele a un "ruolo" o a un "personaggio", una perpetua sfida ai limiti del verosimile.

Rispetto al potere strutturante del romanzo, nell’Educazione di una canaglia si può maggiormente apprezzare un’esperienza che si rivela nel naturale disordine della memoria. E si respira un’aria di Novecento, in queste pagine: di Colonia Penale, di utopia negativa, di Kolyma.

È la precisione dei dettagli a fornire una strategia vincente nella rappresentazione della tremenda uniformità della vita in carcere. Abitudini, modi di dire, odori: come quello di carne di manzo e cipolle e caffè forte che sale dalle celle di due condannati a morte di San Quentin, che "non avrebbero avuto il tempo di digerirli e di cacarli prima di essere loro stessi carne fredda". E ancora, l’odore dei corpi sudati, pigiati nelle gabbie durante i trasferimenti o le interminabili pratiche di incarcerazione, l’odore della carne umana straziata dai coltelli artigianali dei detenuti.

Il posto più improbabile al mondo per incontrare questo Salamov californiano, probabilmente, è la terrazza-ristorante di un albergo elegante nel cuore di Roma. È facile, d’altra parte, riconoscere Bunker, per chiunque lo ha visto recitare Mr Blue nelle Iene di Quentin Tarantino.

Sulla soglia dei settant’anni, è un uomo cordiale e disponibile. Ha degli incredibili occhi azzurri, vivacissimi, e fuma sigarette senza filtro.

 

Mr Bunker, a parte una breve appendice, Educazione di una canaglia termina il suo racconto al momento della pubblicazione, dopo tanti rifiuti, del primo romanzo, "Come una bestia feroce". Siamo nel 1973, e gli anni della prigione stanno per finire. Leggendo queste memorie, ci si rende conto dell’importanza che può rivestire, in un destino personale, una vocazione cosi prepotente alla scrittura…

 

Sì, certo, ma di fatto è l’unica cosa che la società mi ha permesso di fare! E in prigione, il tempo non mancava di certo. In una società cattolica, come la vostra, esiste sempre la dimensione del pentimento, del perdono, della redenzione. In una cultura fondamentalmente calvinista come quella da cui vengo, le cose sono molto diverse. Non avevo, realmente, altre possibilità: o scrivere, o continuare ad essere un criminale. L’unica cosa che non avrei immaginato, è di doverci mettere diciassette anni e sei libri (i primi cinque rimasti inediti) per arrivare al successo. Ma io sono una persona molto determinata, non mollo la presa. Voglio sempre migliorarmi.

 

Mi ha colpito molto, leggendo questa autobiografia, la somiglianza che c’è tra l’Edward Bunker reale e la tipica figura di "eroe" dei suoi romanzi, a partire da Max Dembo, il rapinatore ed ex galeotto di "Come una bestia feroce". In entrambi i casi, si tratta di persone di provenienza piccolo borghese, e non proletaria. Persone che rimangono diverse dagli altri: più intelligenti e anche più malinconiche, istruite, decisamente superiori, da ogni punto di vista, ai loro stessi compagni di banda.

 

È vero: però, devo dire che sia l’uomo reale che i personaggi narrativi non sfruttano a loro vantaggio questa specie di «superiorità», e meno che mai la sbattono in faccia ai loro compagni lo mi sono sempre messo al livello dei miei complici, e mi sono comportato esattamente come loro. Certo, anche loro lo sapevano, erano consapevoli che avevo qualche carta di più da giocare. Avevo un livello di istruzione senza dubbio superiore alla media dei delinquenti californiani, e soprattutto, ero un grande esperto di diritto! Ero proprio l’avvocato della galera, quello che conosce la legge. Anche riguardo all’estrazione sociale: una volta ho conosciuto un tipo che mi ha raccontato che il suo primo ricordo era sua madre che cercava di annegarlo nella vasca... beh, io ho avuto origini migliori. Le persone che, nei romanzi, si accompagnano ai miei eroi invece sono pura feccia. E come mi rispecchio nell’eroe, così anche loro sono scritti a partire da modelli reali e circostanze ben precise. Perché io ho l’immaginazione scarsa e la memoria molto forte.

Do una forma a cose e fatti che ho visto o di cui ho sentito, ma è raro che inventi qualcosa. La quota di verità di Cane mangia cane, per esempio, è del novanta per cento. È vero il fatto del cadavere nel congelatore, è vera la sparatoria finale sull’autostrada, è vera l’uccisione di Mad Dog. Tutti i personaggi importanti e molti dei secondari di quel libro sono reali, e sono tutti morti.

 

"Educazione di una canaglia" è un vero libro di guerra: da una parte l’individuo "sociopatico", e dall’altra, tutta la società, rappresentata dalle sue istituzioni repressive. E questa guerra viene dichiarata quando l’individuo è ancora un bambino, costretto a subire una tremenda sproporzione tra l’entità della colpa e la pena comminata. Sta qui l’origine delle ostilità?

 

Sì, io ho sentito in giovanissima età questa specie di dichiarazione di guerra reciproca. Non riuscivo nemmeno a capire, all’ingresso di questa serie senza fine di cause ed effetti, cosa realmente mi stava capitando. Sono passato dall’oggi al domani dalla condizione di figlio unico di un padre anziano e di una madre giovane, viziato e coccolato, a quella dell’ospite di una specie di riformatorio, di una casa per adozioni indirette. E lì è iniziato tutto, perché gli altri dieci - dodici ragazzini rubavano, e io, che non sapevo ancora cosa fosse rubare, mi sono adeguato. Ho iniziato a scappare e ad essere riacciuffato. Con la loro repressione sempre crescente, hanno determinato una vera e propria escalation di questa guerra nascente. E io, sempre più ribelle, ho risposto colpo su colpo.

 

Certo, guardata dall’Europa, la giustizia penale americana lascia sbalorditi per la sua ferocia. Una stima recente parla di una popolazione carceraria americana intorno ai due milioni di persone. Anche alcune norme, come la regola dei "three strikes", per cui al terzo reato, indipendentemente dalla gravità, si prendono dai venticinque anni all’ergastolo, mi sembra una cosa che ripugna alla coscienza. Insomma, l’epoca della "tolleranza zero" sembra aver aperto un insensato "fronte interno" nella società americana…

 

Non so come le cose vengono giudicate qui in Europa, quello che so per certo è che le cose sono molto cambiate, e in peggio, anche rispetto a quando ero io ad essere dentro. È esplosa una violenza inaudita per le strade, e tutto l’approccio al problema della criminalità si è fatto più repressivo. Questo riguarda soprattutto la popolazione nera. Quando ho iniziato a conoscere la galera, figurati, la percentuale dei detenuti bianchi era di gran lunga prevalente, anche rispetto ai messicani. Tutto è cambiato con le rivolte dei ghetti, con i fatti di Watts. Su trenta milioni di californiani, centocinquantamila sono in carcere.

 

In un capitolo finale dell’Educazione di una canaglia viene descritta proprio questa fase di svolta, agli inizi degli anni Settanta. Le grandi prigioni diventano teatro di una guerra di razze perpetua…

 

La guerra certo c’è ancora, e per fronteggiarla le autorità hanno solo l’arma della segregazione, della separazione. Ci sono almeno due prigioni di massima sicurezza in California, concepite perché la gente non si possa nemmeno vedere. Oppure prigioni trasformate per intero in bracci della morte!

 

James Ellroy (assieme a William Styron) è uno degli scrittori che ti ha più sostenuto. Tra l’altro, mi sembra che per molti versi (a parte il grande scenario di Los Angeles) "I miei luoghi oscuri", la tua autobiografia, sia un libro affine all’Educazione di una canaglia". Che ne pensi dei suoi libri?

 

È proprio James che ha fatto la mia fortuna qui in Europa! È stato lui ad insistere perché mi traducessero in Francia, dove mi conoscono più che in America, in pratica lui mi ha letto per caso, in una biblioteca pubblica, quando era ancora un vagabondo, un senzatetto. Io lo ammiro molto, anche se tra me e lui c’è una differenza sostanziale: lui inventa tutto, io non invento niente! A volte mi dà qualche difficoltà il suo linguaggio troppo spezzato, ma lui è uno che riesce sempre a stupire, a migliorare.

 

Un’ultima curiosità. Tra i tanti scrittori che racconti di aver letto in prigione, c’è anche un nome che stupirà i lettori italiani, quello di Alberto Moravia. Che ci hai trovato nei suoi libri?

 

Credo che il primo che ho letto sia stato Il conformista. Mi ha colpito per la sua forza di indagine interiore, per la capacità di calarsi nella psicologia dei personaggi. Per me, era e rimane un grande scrittore, anche se l’ho letto almeno trent’anni fa. Ma se mi chiede quali scrittori mi hanno influenzato, gliene potrei citare dieci questa settimana e altri dieci la prossima.

 

Intervista di Emanuele Trevi per Il Manifesto

Educazione di una canaglia

 

Il Mattino, 6 giugno 2002


«Il pregiudizio, purtroppo, nella società americana è duro a morire. Puoi diventare famoso, puoi essere uno scrittore celebre, ma se sei stato un criminale, in tanti ambienti continueranno a guardarti con paura e sospetto». Edward Bunker è oggi un narratore importante: i suoi libri sono tradotti ovunque e registi come Tarantino e Konchalowskij vi si sono ispirati per i loro films. Ma fino a non molti anni fa, Bunker era un rapinatore, e ha trascorso metà della sua vita (ha sessantotto anni) nelle più dure prigioni degli Usa. Lo incontriamo a Roma, dove questa sera sarà ospite del Festival-Letterature alla Basilica di Massenzio, e dove è venuto per presentare la sua attesissima autobiografia, Educazione di una canaglia (Einaudi, pagg.521, Euro 14.00). In una prosa asciutta, vigorosa, la stessa dei romanzi che lo hanno fatto apprezzare anche da maestri come James Ellroy (da Cane mangia cane a Come una bestia feroce), Bunker narra le vicende della sua esistenza da quando, adolescente, fu rinchiuso nel terribile carcere di Saint Quentin, passando attraverso rapine spesso malriuscite, furti, incontri con personaggi d'ogni sorta (delinquenti, prostitute, grandi criminali nel «braccio della morte»), fino alla salvezza, arrivata con la scoperta di uno straordinario talento di romanziere.

Nella sua autobiografia, Mr. Bunker, sembra esserci una tesi di fondo: la letteratura può salvare gli uomini.


Per me è stato così, ma riconosco che si tratta di un'eccezione. Io, però, mi sono salvato grazie ai libri. In carcere, fin da giovane, leggevo tutti i libri che potevo trovare nella biblioteca della prigione. Hemingway, Dostoewskij, ma anche qualche scrittore italiano come Moravia e Tomasi di Lampedusa. Poi, un giorno, ho visto un detenuto che riusciva a pubblicare un romanzo che aveva scritto. E mi sono detto: posso farlo anche io. Allora ho capito che sono nato per raccontare storie. Nulla di inventato, per carità: io non ho fantasia. Scrivo solo quello che ho visto.

Ed è arrivato il successo. Con il successo, i grandi guadagni. Una bella storia, la sua…


Sì, ma non creda che tutti mi onorino e mi stimano. In certi ambienti conservatori del mio Paese sono ancora il pericoloso ex-detenuto che può arrivare con la pistola da un momento all'altro. Vede: l'America è una società calvinista, che ha ben poco il senso cattolico della redenzione e del perdono. Se hai sbagliato, i tuoi sbagli ti accompagneranno per il resto della vita, qualunque cosa di buono tu faccia.


In tanti anni di carcere, quale idea si è fatta della giustizia americana?


Pessima. La nostra società è dominata dal denaro. E purtroppo anche la giustizia lo è. Se hai i soldi, e puoi pagarti i bravi avvocati, sicuramente non avrai problemi, e se compi reati uscirai presto dal carcere. Ma se sei povero, rubi un paio di blue-jeans e magari resti in carcere per venti anni. Chi non può pagare, è colpevole comunque, e ha pochissime possibilità di difendersi. Questo è semplicemente vergognoso.

Cosa pensa della pena di morte?


Anche in questo caso, chi ha soldi può sfuggire alla sedia elettrica, chi è povero no. Spesso, poi, vengono condannate persone la cui colpevolezza non è certa. C'è molta leggerezza, in diversi Stati, nell'applicare la pena di morte.


Come è cambiata la criminalità negli Usa dagli anni '60, quando subì i primi arresti, ad oggi?


Adesso, tutta la criminalità ruota attorno alla droga. Ed è molto più violenta e sanguinaria di un tempo. Io, come tante persone che ho conosciuto, non ho mai ucciso nessuno, nonostante anni di rapine e di furti. Oggi si uccide per niente. Ricordo che a noi delinquenti di allora molti delitti facevano orrore. Quando Kennedy fu assassinato, a Dallas, noi detenuti rimanemmo muti, angosciati, sbigottiti. A qualcuno vennero le lacrime, anche perché capivamo che la polizia e i tribunali sarebbero diventati più duri, più intransigenti. Ora, credo che non ci si stupisca più di nulla. La morte, per chi è nella malavita, è divenuta un fatto scontato.


Come è cambiata l'America dopo l'11 settembre?


C'è più paura, in giro. Si era del tutto impreparati di fronte al terrorismo. Ed ora la polizia è più dura, più accanita anche se è vero che la grande lotta ad un nemico così potente e imprevedibile ha fatto diminuire all'inizio, ma solo per qualche mese gli sforzi contro la piccola criminalità.

Parliamo di letteratura. Quali fra gli scrittori americani di oggi stima maggiormente?


Non so giudicare la letteratura di oggi. Penso che non abbiamo ancora la distanza necessaria per valutarla. Ci sono tanti scrittori che stimo, qualcuno è mio amico, ma io rimango fermo a Dostoewskij, a Hemingway, a Cervantes, a Tolstoj, a Fitzgerald, a Jack London. Sì, sono fedele a loro: perché sono i miei maestri, perché li ho letti in prigione e mi hanno aiutato a vivere. Forse, senza quei romanzi avrei ancora una pistola in mano, o sarei morto in una cella.
 

 

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