Daria Bignardi a San Vittore

 

Good fellas, di Daria Bignardi

 

Sisto, Marcello e Tino li ho conosciuti a San Vittore. In tanti anni che ci frequentiamo (mie visite non ricambiate), non gli avevo mai chiesto perché sono in carcere. Ora l’ho fatto, ma la risposta è la loro vita.

 

Santino Stefanini, condannato a 42 anni

 

"Ho passato in carcere 29 anni della mia vita. Le mie condanne sono molteplici, iniziano dai primi furti da minorenne per passare alle rapine e infine all’omicidio e sto espiando 42 anni di carcere. A seguito della buona condotta mi sono stati con cessi circa quattro anni di liberazione anticipata e due anni dell’indulto del 1990. Attualmente, la fine della pena è prevista per il 2011. Questa interminabile detenzione è iniziata all’età di 22 anni, esattamente dal 10 gennaio 1975, con una condanna a 5 anni per una rapina, commessa in una banca a Milano insieme a un ragazzo di 19 anni, che in seguito si è impiccato nella Casa di reclusione di Rebibbia.

Sono cresciuto senza il padre vicino, diviso da mia madre da quando avevo tre anni. Da giovane non avevo grilli per la testa, mia madre ha sempre cercato di accontentare sia me che mio fratello Walter, più piccolo di due anni, per ogni esigenza e abbiamo passato parecchi anni in vari collegi medio - borghesi. Mia madre era proprietaria di un bar - pizzeria nel malfamato quartiere di Affori, frequentato da piccoli delinquenti; proprio con alcuni di loro ho iniziato a rubacchiare le prime radioline delle auto, non tanto per bisogno ma quasi come se fosse un gioco. La terza media l’ho presa al carcere minorile. Ho proseguito gli studi come geometra fino al terzo anno nella Casa di reclusione di Alessandria. Sono nato a Milano il 14 novembre 1952. Dire dove ho vissuto è più complicato, nel senso che ho sempre abitato a Milano ma ho passato la maggior parte della vita in varie carceri, lontano dal luogo di residenza. Ricordi felici…

Posso dire la prima infanzia, quando mi vestivo da cowboy e giocavo spensierato con gli altri bambini. Vorrei indicare la nascita di mio figlio Eros, il 6 luglio 1986, ma anche in quella data fui arrestato un giorno prima, per un mese definitivo, in giudicato a seguito di un coltello che mi era stato trovato in cella durante una perquisizione alcuni anni prima, per cui non fui troppo felice. E sinceramente non me ne vengono in mente troppi, di quei momenti, se non nei piccoli sprazzi di libertà che ho avuto. Sì, fuori sono sempre stato felice.

Anche le cose migliori che ho fatto riguardano solo esperienze penitenziarie: ho organizzato varie attività che potessero essere di conforto ai miei compagni; mi sono sempre prodigato nel carcere per essere utile a loro, ma la cosa più importante è aver dato la vita a mio figlio, che oggi ha 17 anni e non ho mai potuto stargli vicino un’intera giornata. Le cose peggiori: ho tolto la vita ad un altro uomo. La ragione per cui ho intrapreso questa vita, anche se sembrerà un paradosso, è stata una scelta verso la classe che ritenevo la più debole, quella dell’emarginazione. Ho preferito schierarmi con quei ragazzi che facevano difficoltà ad avere un pezzo di carne nel piatto, che non frequentare i figli di papà con la puzza sotto il naso. Ho iniziato a rubacchiare da giovane, sui 14- 15 anni e tante volte non volevo nulla della refurtiva, piccole somme o oggetti insignificanti.

Poi arrivò il primo arresto, due paia di pantaloni appesi fuori da un negozio, più che altro una bravata, ma mi portarono al carcere minorile in qualità di allievo, giusto per fare le conoscenze che sarebbero servite in seguito; il secondo reato fu una tentata rapina in una gioielleria; il terzo una tentata rapina in un ufficio postale. Ormai ero uno "studente universitario", e infine il salto di qualità nella Casa circondariale di San Vittore, che mi fece diventare un professore, con conoscenze più approfondite e amicizie fraterne: se avessero arrestato qualcuno di noi, chi rimaneva fuori si doveva impegnare per l’aiuto economico e, in modo particolare, per liberarlo.

Avevo solo 24 anni e quell’amicizia fraterna, nonostante alcuni di noi siano morti, altri rovinati dal carcere con condanne trentennali o all’ergastolo, è rimasta. Siamo solo cambiati con la testa, non più calda ma disperata per gli anni di vita che abbiamo perso.

Dire se l’Italia sia cambiata... mah, una volta ce l’avevo con i magistrati e le forze dell’ordine perché si diceva fossero tutti fascisti, ora ce l’ho con i magistrati e le forze dell’ordine perché si dice siano tutti di sinistra. No, non è molto cambiata, chi ha il potere lo usa sempre in malo modo fregandosene di partire dalle radici del problema, nessuno si chiede perché dei ragazzi consumino la loro esistenza crescendo d’espedienti. Non posso dire che ai miei tempi fossimo dei romantici, o forse lo eravamo con delle regole dure ma che ritenevamo sane... In fin dei conti, oggi, quando s’incontrano quei vecchi poliziotti con i quali ci scontravamo ci si dà la mano con un velo di tristezza e un rispetto strano, e così con i direttori delle carceri o i secondini che ci hanno visto crescere dentro queste mura.

Sì, mi sono sposato in carcere un paio di volte, la prima il 4 agosto 1975 e la seconda il 18 ottobre 2001, con la mia attuale compagna anche lei detenuta, nata in Cina, Wangg Xiao Lian; mio figlio l’ho avuto con la compagna che mi è stata vicina tra l’85 e l’87. Pensavo che il vero amore fosse stata unicamente la mia prima moglie, non credevo che avrei potuto nuovamente innamorarmi, soprattutto all’età attuale. Sono convinto che quello che vivo oggi sia davvero l’amore con la "A" maiuscola.

Il sesso, nella vita di un uomo, è importantissimo, è un’esigenza che mantiene vivo l’amore. Poi vi sono altri elementi, il dialogo, la tenerezza, la vicinanza. Ma l’amore è sempre una questione di pelle, come lei ti tocca, ti parla, ti accende i desideri. Non sono religioso, anche se ritengo che la religione sia servita a dare delle regole. La politica è parte di ognuno di noi, anche se oggi mi sembra più uno strumento opportunistico utilizzato dai governi per portare acqua al proprio mulino. La famiglia è la cosa più importante della vita, la costruzione di un nucleo dà il senso reale all’esistenza, significa stare bene ed è bellissimo crederci.

Penso che l’istituzione carceraria stia facendo parecchi passi indietro. L’entrata in vigore della legge Gozzini aveva portato i detenuti ad una maturazione sulla quale l’istituzione stessa era incredula. Non so se ciò abbia dato fastidio, o se non era nei programmi del governo. Fatto sta che anche questa legge ha iniziato ad essere male applicata e in alcuni contesti stravolta.

Quello che fa più soffrire della detenzione è l’impotenza, l’impossibilità di farsi sentire, di agire, il vedere cose ingiuste e sbagliate senza nessuna possibilità di poterle risolvere. Quello che fa più soffrire è la paura di morire in galera.

 

Santino Stefanini

Marcello Ghiringhelli, condannato all’ergastolo

 

Sono nato da qualche parte sulle montagne del Piemonte nell’estate del 1941, ma sono stato notificato all’anagrafe di Torino il 23.6.1942, per cui ho guadagnato un anno di vita, almeno sulla carta. Mio padre era un operaio della Fiat, dove aveva lavorato per 45 anni, nonostante provenisse da una casata molto antica. Ma lui, dopo aver visto il generale Bava Beccaris prendere a cannonate i proletari di Milano e aver fatto la guerra dei Balcani e poi la grande guerra, nel 1921 si era iscritto al Pci. Negli anni ‘30 era stato massacrato di botte dai fascisti. Però non aveva preso la tessera del fascio. Erano anni in cui la Fiat aveva bisogno di operai come lui e così non lo avevano licenziato, anche se spesso lo lasciavano a casa. E così era mia madre che doveva pensare a nutrire la famiglia, lavando scale e biancheria.

Abitavamo in una casa di ringhiera alla periferia di Torino, a Nichelino, ed eravamo rimasti in quattro, i miei genitori, mia sorella e io, perché gli altri miei due fratelli e mia sorella erano già sposati e abitavano a Milano. Ho dei ricordi molto chiari della ferocia della guerra: per esempio, quando i repubblichini, insieme alle SS, avevano appeso alla finestra della nostra unica stanza da letto un giovanissimo partigiano con un gancio da macellaio in gola, che è morto dopo un’agonia infinita durata un paio di giorni. E iol’ho sognato per anni.

E poi il viale del castello di Nichelino, dove i partigiani impiccavano i fascisti delle Brigate nere, con la folla furiosa che gli sputava addosso e li bastonava prima e dopo morti. Alla fine della guerra, casa nostra era frequentata da compagni ex partigiani, amici dei miei, che avevano contribuito anche loro alla resistenza, nonostante l’età, facendo le staffette. Ascoltavo affascinato i ricordi della guerra di guerriglia di quegli uomini e donne, così come i loro rimpianti, per come stava andando il paese a causa del tradimento del Pci.

Valutazioni e commenti che allora non capivo. Sono cresciuto andando a scuola e lavorando. Avevo un carattere vivace e così, quando nel 1948 ci fu l’attentato a Togliatti, io ero uno di quei ragazzini che riempivano dei sacchetti di sabbia per fare le barricate e trasportavano delle cose. I miei studi si sono arrestati alla quinta elementare, anche se avrei voluto, nei miei sogni, diventare prima pilota di aerei e poi corridore in moto: un cacciatore di teste della M.V. Agusta voleva che andassi alla scuola di pilotaggio di Bologna, ma mia madre non ne volle sapere.

Intanto, crescevo con un’innata curiosità che soddisfacevo con i libri e nel contempo lavoravo, prima da panettiere e poi in fabbrica, dove continuavo a sentire discorsi e concetti politici sul consumismo, conditi dagli scioperi e dagli scontri con la polizia. Avevo sete di vedere com’era fatto il mondo, volevo viaggiare ed ero insoddisfatto, ma senza conoscere la causa di questa mia rabbia repressa contro il mondo intero. Sono riuscito a convincere mio padre a farmi fare il visto per l’espatrio e sono andato a lavorare in Francia dai miei zii di Marsiglia, ma la mia perenne insoddisfazione e rabbia non mi ha fatto resistere molto e così, tra alti e bassi, alla fine sono partito per l’Algeria, da cui però sono scappato poco dopo.

Sono ritornato in Europa, ancora più incazzato di prima. Adesso, sono in carcere dal primo dicembre dell’82 , condannato alla massima pena per la militanza nelle Brigate Rosse. Gli amori della mia vita, quelli con la A maiuscola, sono stati soltanto due: Teresa e Rosy. Sono stato sposato con una bravissima ragazza, Flavia, cui voglio bene come una sorella, ma che non sento da 23 anni. Poi, fuori dal matrimonio, ho avuto due figli, una bambina che abita all’estero e un bambino qui in Italia: ma ho tagliato i ponti affinché non venissero coinvolti nelle mie personali scelte di vita. In questi anni di cattività, ho cercato di non perdere di vista la realtà. Da quello che sento, direi che per certi versi la qualità della vita ha avuto una sostanziale flessione, soprattutto sul piano della solidarietà e della cultura; anche se, per quanto riguarda la prima, sto vedendo dei segnali positivi, mentre per la seconda, a parte qualche frangia sociale che non si arrende alla cultura dominante imposta dall’impero statunitense, direi che sono tutti allineati. C’è anche troppa ingiustizia e di conseguenza non ci potrà mai essere pace in questo nostro mondo, così bello e così feroce.

Secondo me, non ho virtù ma solo difetti. E, in ogni caso, non sono io a poter dire chi sono, ma gli altri, quelli che mi conoscono. Credo francamente nella bontà dell’essere umano e sono convinto che prima o poi questa avrà il sopravvento sugli interessi particolari. Sono sopravvissuto perché mi è rimasta la stessa curiosità di quand’ero ragazzo. Avrei voluto vedere crescere i miei bimbi, giocare con loro e dotarli degli strumenti di comprensione della vita. E poi accompagnare mia figlia all’altare e godere dei miei nipoti, che forse non sapranno neppure di avere un nonno.

Ci sono cose che non avrei mai voluto essere obbligato a fare, ma che ho dovuto fare, in nome dell’amore per la gente, ma che mi hanno procurato e mi procurano tuttora un dolore immenso. Oggi attendo che la mia vecchia amica con la falce passi a prendermi. Le mie giornate sono tutte uguali e tutte differenti, nel senso che la realtà delle mura che mi circonda è incontrovertibile, ma la mia mente è sempre stata libera di viaggiare. E così, scrivo dei romanzi o racconti che dir si voglia: ne ho già scritti una buona dozzina, anche se sono cosciente che non li leggerà mai nessuno, forse, ameno che non si faccia avanti un editore.

In ogni caso, tutti quelli che li hanno letti, dentro e fuori dal carcere, mi hanno detto che ho regalato delle emozioni, il che per me è già il massimo della soddisfazione. Partecipo anche alla redazione del nostro giornale on-line (www.ildue.it). E poi ho il mio lavoro per l’amministrazione, che mi permette di vivere, anche se con 300 euro non si fanno molte cose.

I miei esercizi di yoga mi mantengono sano nel corpo e nella mente. Che cosa vorrei che succedesse di me? Vorrei essere considerato un essere umano con i suoi pregi e difetti, nulla di più. Il mio sogno sarebbe quello di vivere in una casetta a ridosso del bosco, vicino ad un fiume, in un posto dove il più vicino insediamento umano fosse ad almeno 100 chilometri di distanza. Ma con tanti libri e dischi di musica classica e un PC per poter continuare a scrivere. E di essere dimenticato dai mass media, ma non dalla gente onesta e di buona volontà.

 

Marcello Ghiringhelli

Sisto Rossi, condannato a 17 anni e 6 mesi

 

Sono in carcere da 9 anni e 4 mesi. Mi hanno arrestato nel 1994, avevo 38 anni: per spaccio di droga ho preso 11 anni, ma dopo poco ho dovuto fare un altro processo per una serie di bustine grazie a dei pentiti, così ho rimediato altri 6 anni e 6 mesi per un totale di 17 anni e 6 mesi.

Mi ha cresciuto mia madre che, insieme a mio fratello è la mia famiglia. Mia madre è rimasta vedova dopo neanche due anni che si era sposata; quando è morto mio padre per un incidente, mio fratello aveva un anno e io dovevo ancora nascere. Mia madre ha sofferto per tutta la vita, rimanendo sempre fedele al ricordo del suo amore, e quando sono nato mi hanno voluto dare il nome di mio padre, un uomo veramente speciale.

Sono cresciuto in campagna, nel podere del mio nonno materno, con mia mamma e mio fratello, sono andato a scuola fino alla seconda media. Ho vissuto la mia infanzia in campagna tra animali domestici e selvatici, boschi e fiumi, con piante gigantesche di ciliegio, in mezzo a ogni ben di dio. Ogni cosa era una passione, una scoperta. Quando avevo 15 anni siamo dovuti andare a vivere a Viterbo, perché mio fratello faceva due anni in uno e si stava specializzando come meccanico per fare la carriera militare in aeronautica; oggi è maresciallo, istruttore di volo di elicotteri e meccanico specializzato anche in Chinook (quelli a due pale). È stato con le forze di pace in ogni posto negli ultimi vent’anni. Una carriera perfetta e veloce. È molto intelligente e così è stato sempre vicino a nostra madre Pierina che, se avesse dovuto contare su di me, non lo so come avrebbe fatto. Andare a vivere in città ha fatto di me prima un vagabondo, poi un ladro: c’era ancora nell’aria il ‘68 e tanta ribellione, i miei amici furono subito le puttane e i figli di puttana, gli anziani e i ladri e ho scoperto la droga; anfetamine, cocaina, eroina, peyote, mescalina, prilocilina, maryuana, hascisc, oppio e Lsd.

Io in più volevo l’esperienza mistica del consumo, volevo conoscere me stesso, il mio corpo e ampliare le prospettive della mente (la mia amica e grande psichiatra Mariolina Monosi mi ha fatto comprendere, oggi, che cercavo mio padre ribellandomi alla morte). A forza di fare danni ero diventato il bersaglio della polizia e una notte del 1977 scappai per andare a vivere a Milano, avevo con me un figlio e uno in arrivo.

Oggi sono ritornato qui a Viterbo, da carcerato, proveniente da San Vittore e, dopo tanti anni, io, mio fratello e nostra madre siamo sempre una cosa sola, come se il tempo non fosse passato. La mia vita è stata vissuta sempre pienamente, nel bene e nel male. Tra le cose migliori, potrei dire di aver fatto cinque figli meravigliosi, belli, sensibili e intelligenti; io ci ho messo il desiderio di volerli, la passione e tanto amore ma poi, alla fine, devo ringraziare solo il Signore di questi doni, e mia moglie. E poi ho salvato la vita ad un ragazzo tunisino, minorenne, che si era appena impiccato a San Vittore: credo di essere stato uno strumento del cielo, perché mi sono trovato di fronte a quella cella in un orario in cui non c’è nessuno e neanch’io avevo motivo di esserci ed ero rimasto aperto e circolavo così, senza motivo.

Sono orgoglioso di me stesso, per la freddezza, la velocità e la forza che ho avuto di scioglierlo, caricarmelo sulle spalle come un sacco penzoloni e, tenendolo per le braccia, arrivare al pronto soccorso come un fulmine, dando ordini urlati alle guardie perché mi aprissero i cancelli; il dottore mi disse che nella posizione singolare in cui l’avevo portato, gli si era rimessa l’aria nei polmoni. Se penso che a 17 anni sarebbe potuto tornare da sua madre, a Tunisi, in una cassa da morto e con i dubbi che crea una morte in carcere che non ti molla più; ebbene, sono felice e spero che questo ragazzo abbia da fare qualcosa di bello nella vita per se stesso e per gli altri. Ora, una delle peggiori: è stato quando ho approfittato di una ragazzetta di vent’anni, appena sposata con un tossicodipendente di Varese, che l’aveva mandata a comprare la droga.

Senza soldi. Era bellissima, fragile e indifesa: mentre su di lei facevo sesso, è scoppiata a piangere e coprendosi il viso con le mani continuava a dire: "Guarda cosa mi fa fare, quello stronzo di mio marito!".

Mi sono sentito un verme. Le ho dato cinque, sei bustine, un po’ di soldi per l’autostrada e per lei. Le ho detto di venire solo da me, se ci fosse stato bisogno, che non avrei preteso più nulla e le avrei dato quello che voleva, purché non andasse più in giro a vendersi e di cercare di tornare da sua madre e dirle tutto. Ma, ancora oggi, non è servito a lavarmi la coscienza per lo schifo che ho fatto. Un’altra cosa brutta è stata vendere la droga distruggendo dei giovani, sconvolgendone le famiglie; e la violenza psicologica che ho fatto a chi, rientrando a casa, la trovava violata da me per rubare i loro gioielli. Io sono stato principalmente un ladro, sono entrato in un’organizzazione solo negli ultimi mesi prima che mi arrestassero.

Comandavo, mi ero creato una banda efficiente di persone d’azione, tutti ex rapinatori e ladri, ragazzi svegli e di fegato oltre che intelligenti. Ho provato il potere e ho capito che è peggio di una droga: mi soddisfaceva più di ogni altra cosa, non contavano più né i soldi né il sesso. Tu comandi e c’è chi esegue. È terribile il potere. Quest’esperienza mi ha fatto capire molte cose in più su quelli che lo vivono e lo applicano, dai mafiosi ai politici. Cara Daria, sono in galera da un po’ di anni, ma leggo studio vedo tv e sento la radio e noi, qui dentro, siamo come esseri affamati che guardano da un oblò, bramando tutto ciò che ci manca, che si è perso, per cui siamo molto attenti e analitici su tutto.

Avevo mia moglie, da cui mi sono lasciato e separato nel 1998: dopo quattro anni che ero dentro e con altri tredici da fare, l’ho fatto io questo passo, un po’ perché non facesse pure lei la galera ma potesse godersi la vita, senza legarla al mio destino: vecchio e morto in galera. Ma tra noi si era rotto quel poco amore che ci legava. I miei ragazzi, che sono l’unico vero mio capitale, sono Emanuele 25, Zamara 24, Alessandro 23, Babuska 21 e Luna Fiorita, di 13 anni. Tra noi c’è quell’amore che non finirà. Solo due di loro hanno provato la prigione, per incidenti di percorso. Se tutto va bene, nessuno dovrebbe venirci mai più. Vivendo la mia (nostra) esperienza e sofferenza, hanno compreso che non è questo mio modo di vivere quello da seguire, e che i soldi sono solo un bene necessario per vivere e non da rincorrere.

Li amo e sono molto orgoglioso di tutti loro, sono molto uniti e responsabili uno dell’altro, molto sensibili e intelligenti. Nel carcere ci vivo, sopportando le regole inutili e quelle "inventate", sono uno spirito libero, uno che nella vita sa adattarsi, trovare le cose belle e importanti e scovare la via d’uscita per ogni situazione. Dopo anni passati a cercare risposte sul perché della vita, le ho trovate in un carcere, ricevendole dal Signore, da Dio: oggi sono un uomo nuovo, tanto da poter dire che quel Sisto che ero, quello che entrò qui dentro nel 1994 è morto nel ‘96 a San Vittore, al 3° raggio nella cella n° 19 del 4° piano, lì, dove ho "vissuto" il mio suicidio e morte per impiccagione.

Era quello che in una delle tante notti insonni stavo per fare, di fronte alla luna piena: la preparazione della corda, la stretta, le grida dei compagni, la corsa delle guardie, le chiavi che aprivano la cella ma troppo tardi. Sisto era morto, ho visto e vissuto con il dolore, la rabbia e l’angoscia, quello che stavo per fare e ho pianto tanto, ma ho iniziato a rivivere questa seconda vita da uomo nuovo: ora ho uno scopo vero che mi fa vivere e amare la vita, le persone con gentilezza e nel rispetto delle regole civili. La prima volta che mi sono innamorato (a parte mia madre) era di una ragazzina, Marinella, di 13-14 anni, che veniva a scuola con me, una morettina scura di pelle con un viso ovale bellissimo, due occhi neri da panico e con ogni cosa già al posto giusto.

Non le ho mai detto che l’amavo, stavo le giornate a spiare vicino a casa sua che uscisse per poterla incontrare, salutare, perché facevo progetti e programmi, ma poi mi prendeva la vergogna, la paura che mi dicesse: "ma che vuoi?".

Invece: l’ultima volta che poi è stata pure la prima e unica volta che ho amato veramente e scoperto che esiste l’amore, quello vero, cosa cui non credevo per niente e che neanche cercavo, è successo. Nel dicembre ‘98 ho incontrato la mia anima gemella ed è proprio vero che è come riunire una moneta spezzata in due. Ho capito che non sei tu a scegliere, ma è l’amore a sceglierti e che ci vuole molto coraggio per viverlo, perché ti stravolge la vita. Io l’ho scoperto a 41 anni, incontrando la mia pittrice, Milena: ho capito subito che era lei che cercavo, che mi cercava, eravamo completi, insieme; con lei i piccoli e importanti progetti, una casetta in alto sul mare di Genova dove poter vivere del lavoro nostro, e arrivare coi capelli bianchi ancora abbracciati a coccolarci, a dirci: "Sì, amore", ogni volta che mi avrebbe chiamato. Ma non è andata così. Milena, in un momento di angoscia e terrore per una malattia epilettica che la estraniava dal mondo, si è suicidata impiccandosi, via con metà del mio cuore.

La famiglia è il primo luogo in cui si vive protetti e coccolati e si cresce imparando principi e sentimenti, La famiglia è importantissima e se non c’è, è come perdersi nello spazio, nel buio, nel silenzio ed è terribile. La responsabilità della fami glia è tutta nostra, dei genitori, di chi da adulto la compone, siamo noi a dover fare i conti con noi stessi. Le cose sofferte sono tante, ma tra le più terribili è stato perdere Milena. Un’altra è stata quella di trovarmi a tenere tra le braccia due compagni di San Vittore, che sono morti così.

Paolo Bandirale lo stavo sorreggendo per andare alla visita medica, aveva la febbre e la bronchite da due giorni, stava male, era anche a rischio per colpa del virus e non è arrivato sul lettino del dottore, se n’è andato guardandomi negli occhi. Aveva trent’anni, come Massimiliano Cogliati, che sorreggevo sottobraccio, insieme ad un’infermiera, per andare all’ambulanza. Aveva iniziato uno shock anafilattico quasi un’ora prima, tremava in modo impressionante perdendo il controllo degli arti; io e l’infermiera ci siamo guardati negli occhi e senza una parola ci siamo detti che stava morendo, che tutto era inutile, così lo abbiamo adagiato per terra mentre gli accarezzavo il viso e i capelli e gli dicevo di stare tranquillo che non era nulla, se n’è andato.

E così sono diventati i miei fratelli carcere, e ne ho una lista troppo lunga, che ricordo ogni giorno con la mia preghiera.

Ho visto e vissuto nell’inferno reale, cioè a Napoli, a Poggioreale (un carcere da demolire subito), poi a Regina Coeli, Isernia, Forlì, Potenza, San Vittore e Viterbo. La prima entrata, nel ‘73 a Casal di Marmo, carcere per minori di Roma, ero innocente, fu un’esperienza molto rabbiosa (odio le carceri per i ragazzi, oggi, a 47 anni, se ci ripenso mi prende la rabbia, la voglia di spaccare tutto e tutti. No, il carcere per i ragazzi è la cosa più sbagliata da fare)

Poi, nelle altre carceri, sono stato male, o abbastanza male, mai bene, non esiste carcere bello, e non esiste neanche quello vivibile (e non ci sono progetti in corso). Voi lì fuori siete la gente che lavora e fatica per tutta la vita, con mamme che combattono come draghi perché non gli rubino i figli, donne cui nessuno ha insegnato a fare le madri, ragazzi che sognano disperatamente.

 

Sisto Rossi

 

 

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