L'Opinione delle carceri

 

De profundis, voci da dietro le sbarre

 

L’Opinione on line, 31 agosto 2004

 

Verità e giustizia per Marcello Lonzi

Dossier sulla morte di Marcellino

Uno sciopero per sopravvivere

De profundis, voci da dietro le sbarre

Cambiano i governi, i problemi restano

Settembre: andiamo, è tempo di cambiare

Verità e giustizia per Marcello Lonzi

 

Anche in questo numero abbiamo voluto occuparci del caso di Marcello Lonzi, il detenuto morto, ma sarebbe meglio dire ucciso in maniera misteriosa, nel carcere delle Sughere a Livorno. Città natale del nostro presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi cui ci siamo permessi di rivolgere un appello sommesso ma pressante nello scorso numero. Perché anche lui chieda la verità su questo evento che qualcuno vorrebbe fare passare da morte naturale. Anche nei campi di concentramento della Germania nazista, tipo Auschwitz, si attestava la morte degli ebrei nelle camere a gas per collasso cardiocircolatorio. Una verità formale e una bugia sostanziale. Così abbiamo deciso di pubblicare invece un dossier sulle ultime ore di Marcello nel carcere delle Sughere, dove molti detenuti sostengono esserci un pessimo clima con gli agenti di custodia. Sapremo mai come è veramente morto Lonzi il 13 luglio del 2003? Oltre che a Berlino esisterà un giudice (o magari un Presidente) anche a Livorno?

 

Dossier sulla morte di Marcellino

 

Marcello Lonzi è stato ucciso l’11 luglio del 2003. L’amministrazione penitenziaria dice che è morto d’infarto. In carcere non c’era mai stato, doveva scontare poco più di quattro mesi in quanto la giustizia lo condannò per tentato furto. Marcellino, conosciuto in tutta Livorno, aveva 29 anni quando morì. Tutti i detenuti della sesta sezione del carcere sono a conoscenza della possibilità che in realtà si sia trattato di un pestaggio da parte delle guardie carcerarie. Peraltro l’autopsia eseguita dal medico legale Bassi Luciani ha stabilito che le cause della morte sono state naturali e dovute ad un infarto.

 

Legittime domande

 

Ecco però le domande che ancora oggi a più di un anno da quella morte si fanno tutti: perché i familiari sono stati avvertiti dodici ore dopo la morte? E perché lo hanno tenuto tanto tempo all’interno del carcere? Perché se è morto d’infarto hanno spostato il corpo nel corridoio? Le foto dell’autopsia smentiscono il medico legale Bassi e in maniera oggettiva mostrano un corpo che ha perso molto sangue ed ha subito diversi colpi riportando ecchimosi sulla schiena, ferite sul volto, sulla testa e in particolare una profonda fino all’osso: gli potrebbero aver sbattuto la testa sull’inferriata. Si vede anche il sangue sul pavimento, nonostante le pulizie del penitenziario per occultare la verità. I medici hanno prelevato alcuni organi vitali e dei tessuti per sottoporli ad esami tossicologici, esami che dovevano essere eseguiti nell’arco di sei mesi perché poi i frammenti non sarebbero più stati buoni, ma che non sono mai stati eseguiti a un anno di distanza questi organi si trovano ancora a medicina legale a Pisa. Allora perché sono stati prelevati?

 

La madre di Marcello

 

L’autopsia è stata eseguita senza avvertire nessuno dei familiari per evitare la nomina di un consulente di parte. La madre di Marcello, Maria Ciuffi, non ha mai creduto alla versione "ufficiale" delle istituzioni stilata su suo figlio; due giorni dopo il decesso ha visto il corpo che perdeva ancora sangue e sporcava la camicia come se ci fosse un’emorragia interna. La denuncia querela della madre scattò subito contro i secondini della sesta sezione che si trovavano in servizio dalla mattina fino all’ora della morte.

Un detenuto ha detto che dopo il pestaggio i soccorsi sono arrivati in ritardo. L’omissione di soccorso è visibile anche dagli orari sui verbali della pubblica assistenza, che sono stati manomessi e corretti più volte. Le foto sembrano confermare l’ipotesi di un pestaggio e danno un’altra versione dei fatti rispetto a quella del dottor Bassi, tanto che, dopo alcuni dubbi di Maria, ripetutamente evidenziati sulla stampa tramite delle dichiarazioni, la procura di Livorno non ha potuto fare a meno di aprire un’indagine contro ignoti, con il reato d’omicidio e mancato soccorso. Indagine conclusa pochi giorni fa dal sostituto procuratore Pennisi che inizialmente ha preso tempo, ha negato i confronti e gli interrogatori ed infine il 2 luglio ha iniziato la procedura d’archiviazione per "suicidio o morte accidentale". A tale archiviazione la signora Ciuffi si è opposta davanti al Gip di Livorno.

Per Pierpaolo D’Andria, direttore del carcere "il decesso è avvenuto alle 19.40, Lonzi era in cella con un altro detenuto che in quel momento dormiva. Ma si è svegliato e l’ha visto per terra. Ha chiesto aiuto ed i soccorsi sono scattati subito. E’ intervenuto il nostro medico che ha iniziato le pratiche di rianimazione".

 

Uno sciopero per sopravvivere

 

È durato trentuno giorni lo sciopero della fame di Lorenzo Barbanera, 45 anni, detenuto nella casa di reclusione di Opera e in attesa di giudizio. Trentuno giorni di privazione del cibo interrotti soltanto da una pausa agostana - sei giorni di sciopero della sete - che ha finito per ridurlo su una sedia a rotelle. Troppo debole reggersi in piedi. Una scelta disperata la sua, compiuta per attirare l’attenzione dei media sulle condizioni di vita di tutti i detenuti che, come lui, sono affetti da gravi patologie ma in carcere non trovano le strutture e il personale sanitario adeguati alla loro condizione.

Barbanera ha deciso di interrompere la sua protesta solo il 25 agosto, dopo che la moglie aveva rivolto un accorato appello al Partito radicale della regione Lombardia e Lorenzo aveva ricevuto la visita del consigliere Lucio Berté, subito impegnatosi a rendere noto a chi di dovere i motivi del suo gesto disperato.

"Barbanera intende sollecitare l’intervento delle autorità amministrative e di governo sul proprio caso - scrive in un comunicato stampa il consigliere radicale, tenendo così fede alla sua parola - in quanto emblematico dell’intollerabile degrado ambientale e sanitario in cui sono costretti tantissimi cittadini detenuti affetti da patologie al limite della compatibilità con il regime di detenzione prescritto per i normali detenuti europei ma certamente incompatibili con le vergognose condizioni di carcerazione reale, molto al di sotto di quelle minime previste, a maggior ragione per i cittadini detenuti gravemente malati".

E niente dà corpo a queste accuse meglio della vicenda di Barbanera, detenuto in una sezione comune, dove le persone sane si mescolano agli ammalati, le celle rimangono chiuse per ventuno ore al giorno e a fornire assistenza è solo la polizia carceraria. In queste condizioni, aggravate dallo sciopero della fame, non solo l’unico a vigilare su Barbanera è stato il compagno di cella, ma in concomitanza dello sciopero i farmaci, anche salvavita, prescrittigli dal medico, gli sono stati sospesi.

Durante una crisi di epistassi poi, il detenuto è stato messo in una cella di isolamento, che ha inondato di sangue, rischiando la morte. "Lorenzo ha aderito alla mia proposta di interrompere subito lo sciopero della fame - ha dichiarato Berté - sul mio impegno di segnalazione del problema agli organi di informazione e in vista del trasferimento, riservandosi però di riprendere lo sciopero in caso di inadempienza dell’amministrazione sulla sua richiesta minima di avere la cella aperta. Avevo già sollevato il problema di Opera alla fine del 2003 - continua il consigliere radicale - con una diffida al sindaco Albertini affinché intervenisse sugli aspetti sanitari e abitativi del carcere. Data l’inerzia del sindaco passerò alla denuncia alla procura della repubblica per omissione".

 

De profundis, voci da dietro le sbarre

 

Anna Bosco, Casa circondariale di Mantova

 

Scrivo per dire che sto molto male, perché sono senza soldi e non posso comprarmi niente. Nemmeno il sapone per lavare le mie cose. E poi sono molto triste perché quando ero in carcere a Monza dovevo andare a un’udienza per mia figlia, ma siccome non c’era la scorta gli agenti non mi hanno accompagnata; così, dopo pochi giorni, mi è arrivato un foglio dove si diceva che mi avevano tolto la patria potestà. Mi avevano tolto la mia bambina.

La mia disperazione era insopportabile tanto che ho rotto il televisore e ho preso i fili della corrente in mano, perché in testa avevo solo la mia bambina e quel senso di impotenza che si conosce solo in carcere. Purtroppo o per fortuna sono arrivati degli agenti uomini che per calmarmi mi hanno picchiata e poi mi hanno messo in isolamento. Ma io volevo morire: non avevo più mia figlia, non avevo più niente. Ho altre due figlie, ma questo non vuol dire.

Sono stanca di soffrire, io ho già avuto una brutta vita: da piccola mio padre mi picchiava sempre, me ne sono andata di casa, mi sono sposata, ma non è che le cose siano cambiate un granché. Anche mio marito mi picchiava io avevo sempre un nodo in gola soprattutto quando picchiava le bambine. Poi siccome non lavorava – e soldi non ce n’erano – mio marito mi ha mandato a rubare in una villa, mi ci ha mandato a calci e così sono finita in galera.

Sono in carcere per un cumulo di condanne per piccoli furti. Ho già rischiato che le mie figlie venissero date in adozione, questa piccola, la più piccola me l’ hanno portata via. Che cosa posso fare? Quando uscirò non avrò una casa, né un lavoro. Ma certo se li avessi avuti prima non sarei finita qui, a vedere i miei bambini e anche quelli di altre compagne trattati come bambole, spostati da un istituto all’altro e poi affidati a qualche famiglia. Lontani per sempre.Adesso non penso più a morire, vorrei vivere solo per lottare e ritrovare le mie figlie. Ma è dura, qui, da soli senza nemmeno i soldi per un francobollo e senza un lavoro per poterli guadagnare.

 

Aurora Bonato, Casa Circondariale di Bergamo

 

Le occasioni per noi detenuti per parlare – almeno per iscritto – sono davvero poche: perciò questa volta scrivo io: a parte i farmaci che non ci sono, i medici che non si vedono, gli stipendi per i lavori dell’amministrazione (90, 120 Euro al mese e non tutti i mesi) che non consento di vivere, ma nemmeno di sopravvivere, il carcere qui potrebbe anche essere sopportabile e vivibile. Io credo che sia proprio il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che non funzionano.

Parlando di malasanità, per esempio, più che di me vorrei parlare di mio marito: Walter Croci, 65 anni, sano e sportivo tanto che faceva l’alpinista d’alta quota. Dal carcere di Opera, dove era detenuto, mi scriveva che non c’erano medici né medicine e, se volevi comprartele, non ti accettavano le domandine. Aveva preso una brutta bronchite ma non veniva curato. Un giorno ricevo una lettera dei suoi compagni che mi dicevano che avevano fatto una denuncia al carcere, al ministero, al Dap, perché mio marito si era sentito male nel pomeriggio ma nessuno veniva a vederlo: è morto dopo poche ore, di cosa non si sa. I suoi compagni mi hanno detto che continuava a ripetere: "mi stanno avvelenando", ma che cosa voleva dire non lo sapremo mai. Anche perché – come già detto – nonostante i suoi compagni abbiano inviato denunce sia alle istituzioni che ai giornali, nessun organo di stampa – che io sappia – ha mai riportato niente su questa faccenda. Una faccenda molto dolorosa per me, perché Walter era mio marito ed è morto mentre ero chiusa qui dentro, ma anche triste per tutti quelli (e chissà quanti sono!) che si trovano nelle stesse condizioni. Soli e malati.

 

Tarzia Mascheretti, Casa Circondariale di Bergamo

 

Sono una detenuta del carcere di Bergamo da più di un anno; ho deciso di scrivere non tanto per me – visto che sto aspettando di uscire in affidamento (misura alternativa), quanto per le persone che rimangono qui. Mi chiedo come sia possibile che in un anno ho visto l’educatrice una sola volta di sfuggita e non per un colloquio vero e proprio: la figura dell’educatore non dovrebbe essere importante per riuscire a compiere quel percorso rieducativo di cui tanto si parla?

Visto e considerato che abbiamo una giustizia che tutto sembra tranne che giustizia, qui ci sono addirittura persone che dagli arresti domiciliari sono passati direttamente in carcere per non aver sentito il campanello di casa: ma se veramente fosse così i carabinieri o la polizia non dovrebbero aspettare sotto casa invece che inviare una revoca degli arresti domiciliari che poi vuol dire anche una revoca di tutti benefici previsti dalla legge? Ci sono casi spaventosi. Trovo assurdo che certe persone restino in carcere, ma ancora più assurdo sentire al Maurizio Costanzo show il ministro Castelli dire "teniamo in carcere proprio quelli che è necessario". Ma questo è ridicolo!

Qui c’è gente che deve scontare 3 o 4 mesi per reati commessi 10 anni fa, c’è gente malata, c’è gente che ha già finito la pena, ma siccome non arrivano i giorni sta facendo il carcere gratis. E’ necessario? Ti trattano come un animale e poi pretendono che fuori dal cancello ritorni a essere una persona: il timbro, comunque, non te lo tolgono più. E allora, mi dica lei: a che specie apparteniamo?

 

Cambiano i governi, i problemi restano

 

Una surreale polemica ha animato il periodo ferragostano: ma i detenuti, nelle loro celle, stanno bene, oppure stanno troppo stretti? O magari stanno bene fino a quando qualche politico di opposizione li va a trovare e li convince strumentalmente del contrario? I politici hanno detto la loro, ma chi "tecnicamente" amministra le carceri, che bilancio fa della situazione attuale? Abbiamo deciso di non intervistare funzionari in servizio, che per regolamento devono rendere conto di ogni loro atto al Ministero della Giustizia, e quindi alla fin fine si limitano a dire che va tutto "abbastanza bene". Ci siamo rivolti ad un "vecchio" funzionario dell’Amministrazione Penitenziaria, il Dr. Maurizio Barbera. È in pensione da pochi anni, dopo aver toccato i vertici della carriera.

 

Dr. Barbera, cosa pensa dell’attuale situazione delle carceri italiane?

Passano gli anni, cambiano i ministri e i governi, ma alla fin fine i problemi sono sempre gli stessi: i detenuti sono tanti, e mancano rilevanti novità in proposito. I pezzi di colore dei media si limitano a registrare le celle dove la gente dorme accalcata, o alcuni edifici particolarmente antiquati. Al di là di alcuni casi scandalosi, però, il problema oggi come 10 anni fa è un altro: noi forniamo un servizio carente alla comunità, e questo servizio però costa molto al contribuente. Misure di sicurezza spesso eccessive, incongrue, quasi sempre ridondanti, personale scarso in alcuni reparti dove si fatica, ma abbondante in altri uffici dove si sta tranquilli con l’aria condizionata…

Scomponendo i dati ufficiali forniti dal Ministero si nota che un detenuto costa circa 100 euro al giorno, ma che l’80% di questa spesa è dedicata agli stipendi della polizia penitenziaria. Una spesa incomprimibile, che lascia quasi senza risorse gli assistenti sociali, gli psicologi, gli educatori, e gli stessi direttori dei carceri… Certo, è una scelta fatta molti anni fa, e mai più modificata: gran parte delle risorse vanno per vigilare "passivamente" i detenuti, non per farli migliorare come cittadini.

 

La colpa è dei politici?

Indirettamente. Per un meccanismo che non ho mai ben compreso, i ministri ogni volta che si alternano non nominano mai ai vertici dell’amministrazione penitenziaria personale che abbia competenza specifica, ma scelgono dei magistrati, anzi quasi sempre dei pubblici ministeri. Come se il carcere fosse una propaggine del tribunale.

Ma non è così. I magistrati che vengono a gestire i carceri di solito non lo sanno fare, hanno fatto altri studi, hanno altre competenze, e spesso hanno anche altre attitudini caratteriali. Non è mai successo negli ultimi trent’anni che un bravo direttore di carcere venisse promosso ai vertici "reali" dell’amministrazione penitenziaria. Questo secondo me spiega in buona parte la rigidità della burocrazia penitenziaria, e la sua ormai decennale difficoltà a tenersi al passo con i tempi. E questa rigidità, inoltre, demotiva fortissimamente chi aveva scelto questa professione per passione "riformatrice", non solo come impiego statale.

 

Qualcuno dice che i politici sono più attenti ai voti dei 50.000 agenti, che non alla vera risoluzione dei problemi…

È un paradosso della democrazia: gli agenti e relative famiglie sia come voti che come sindacati contano moltissimo di più di poche centinai di direttori, educatori, assistenti sociali e psicologi… quindi passa più facilmente la teoria che il carcere si possa controllare solo aumentando gli agenti, e usando il pugno di ferro. Io non la penso così, ma sono poco rappresentativo…

 

Settembre: andiamo, è tempo di cambiare

 

L’estate sta finendo e con essa il periodo più drammatico nei penitenziari italiani. Nel 2004 oltre 30 suicidi hanno avuto luogo nei mesi caldi dell’anno, sei in più che nel 2003. Si apre adesso una stagione di riforme. Speriamo che il governo si ricordi anche quelle della giustizia, precondizione per avere delle carceri più umane e vivibili.

 

 

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