L’opinione delle carceri

 

De profundis, voci da dietro le sbarre

 

L’Opinione on line, 10 agosto 2004

 

Giustizia minorile: l’università del crimine

I suicidi e l’indifferenza degli altri

Le carceri della vergogna

De profundis, voci da dietro le sbarre

Agosto, prigione mia ti riconosco

Una convenzione europea per i diritti dei detenuti

 

A Rebibbia a Roma tutti si lamentano per l’affollamento "dell’albergo a cinque stelle", a Verona nel carcere di Montorio un tunisino due giorni fa ha dato fuori di matto e ha cominciato a tagliarsi, aggredendo poi sette agenti di polizia penitenziaria che erano intervenuti per fermarlo. L’agosto carcerario comincia male, anzi malissimo. Gli atti di autolesionismo sono parenti stretti dei suicidi, ma per avere il quadro completo della macabra statistica di questi ultimi bisognerà aspettare il prossimo mese.

Giustizia minorile: l’università del crimine, di Vincenzo Andraous

 

Sono stato invitato a un convegno in università, il tema da dibattere "Criminalità minorile", consapevole di non avere nulla da insegnare a nessuno, tanto meno di possedere risposte per le problematiche dibattute, soltanto il carico della mia esperienza, intesa come somma dei miei tanti errori. Da adolescente difficile, a giovane trasgressivo, e quando non si possiede capacità di subordinare qualche passione a qualche regola, ciò trascina spesso nella devianza, nell’entrata in un istituto per minori, dove spesso ci si professionalizza negli atteggiamenti criminogeni.

Palese il punto di contatto tra passato e presente, se sono assenti i modelli di riferimento certi, perché autorevoli, e dunque accreditati di autorità acquisita sul campo, non rimane che l’incontro consapevole con i vicoli ciechi, e l’impatto inconsapevole con la violenza della strada e il suo corollario di falsi miti. La differenza in questo presente sta nel disagio che non colpisce più solo i giovani delle classi meno abbienti, ma anche quelli che provengono da famiglie agiate, dove spesso benestante sta per una condizione di benessere finanziario raggiunto, e non per un raggiungimento di valori introiettati e portati avanti.

I guerrieri in erba della mia generazione stavano insieme, in gruppo, formavano una banda di minorenni, perché avevano come nemico da combattere il mondo degli adulti, dei cosiddetti grandi, che vedevamo intruppati e in fila per tre (come plotoni di esecuzione) nelle loro belle e comode certezze. Oggi invece ci si mette insieme, in gruppo, in baby gang, per competere e scontrarsi con il gruppo dei pari, per una griffe, per un telefonino, per una banconota da 50 Euro, rispetto alla propria da 10 Euro.

Così il destino disegna la propria trama, l’inciampo è lì dietro l’angolo, e gridare: "ehi regista, sono stanco, fammi uscire dalla storia", non è possibile, come non è facile risalire dal baratro in cui si è caduti. Io non so se occorre rivedere o addirittura ribaltare il metodo o l’indagine educativa, credo però che nei riguardi dei giovanissimi, occorra ritornare a dire e a dare dei no, rispetto ai tanti sì elargiti a piene mani, occorre sul serio farsi carico della difficoltà e della fatica dei no, perché costringe l’adulto a fornire spiegazioni comprensibili, lo obbliga a una comunicazione sensibile, perché empatica e non certamente perché sbilanciata sull’accudente. Mi viene in mente una pedagogia della speranza e una pedagogia del servire, nel tentativo di "forgiare giovani nuovi, senza più bisogno di nascondersi in comodi rifugi o facili scorciatoie" che è peculiare della Comunità Casa del Giovane, e che Don Franco Tassone porta avanti con forza e coraggio.

I suicidi e l’indifferenza degli altri, di Antonella Pino D’Astore

 

"Quelli che definiamo suicidi annunciati sono i gesti ultimi ed estremi di quei reclusi che versano in condizioni tali da far paventare, ragionevolmente, il rischio d’atti d’autolesionismo, se non il suicidio", spiega Andrea Boraschi, direttore di "A Buon Diritto. Associazione per le libertà", impegnata dal 2001 nel monitoraggio delle condizioni dei detenuti italiani.

"Nel 2003 i suicidi annunciati e quelli senza biografia che non hanno trovato spazio alcuno negli organi di stampa, sono stati ben 27 su un totale di 65 casi. I dati parlano chiaro: i soggetti a maggior rischio sono i nuovi giunti, i detenuti di carceri affollate, coloro che hanno già tentato il suicidio, lo hanno minacciato o versano in gravi condizioni di depressione.

Tuttavia, nella gran parte delle carceri italiane, non si riesce a garantire controllo e sostegno adeguati, neppure nei casi più gravi: persino chi ha già tentato di darsi la morte trova modo, infine, di portare a compimento il suo intento. Ci si uccide per impiccagione o per asfissia usando sacchetti di plastica; ci si uccide inalando il gas dei fornelletti da campeggio con cui i detenuti possono cucinare in cella.

Ma se tutto ciò avviene per mano di un tossicodipendente, per l’amministrazione penitenziaria si è trattato di un "incidente".

E intanto, i dati relativi agli atti d’autolesionismo e ai tentati suicidi in ambiente carcerario tendono a sfuggire ad una classificazione rigorosa. Per il Dap, non sono da annoverare tra i suicidi in carcere i decessi avvenuti in autoambulanza o in ospedale, anche quando immediatamente successivi e consequenziali al tentativo di togliersi la vita attuato in cella.

"Altro dato rilevante alla base della propensione al suicidio è la coincidenza tra la giovane età e l’estraneità alla vita carceraria o, comunque, la minore consuetudine con essa" sottolinea Andrea Boraschi. "I detenuti più giovani entrano in carcere e non hanno dimestichezza alcuna con gli stili di vita, le regole e le gerarchie dominanti negli istituti, sono sprovvisti di un codice di comportamento che li ponga al riparo dalle insidie, dalle incognite e dai traumi della vita reclusa.

Sono i detenuti in attesa di giudizio che, più di altri, si tolgono la vita: cittadini che godono pienamente della presunzione d’innocenza. I presidi per i nuovi giunti sono deboli ed inefficaci e provano che l’amministrazione penitenziaria non sembra in grado di gestire adeguatamente il trauma psicologico dovuto all’ingresso in un mondo chiuso e, per molti, sconosciuto. Infine chi è detenuto in carceri affollate, patisce condizioni igieniche spesso pessime, carenza di personale medico, di psicologi, d’educatori. In Italia, 21.058 detenuti vivono in 63 istituti le cui condizioni d’affollamento sono intollerabili (dati del ministero di Grazia e Giustizia). Chiosa Boraschi: "Si è in presenza di strutture fatiscenti, servizi insufficienti, rapporti assai problematici con l’amministrazione". Per uccidersi basta molto meno.

Le carceri della vergogna, di Ettore Randazzo (Presidente delle Camere penali)

 

Quando la sindrome ormai stanziale della difesa dalla criminalità mafiosa e terroristica (negli ultimi tempi ravvivata oltre misura dagli eventi catastrofici dell’11-9-01 e dell’11-3-04) cesserà di impestare le iniziative del nostro legislatore, a sua volta vittima della tirannia del consenso, e torneremo in possesso di un minimo di buon senso che ci riporti in direzione della civiltà non solo giuridica, allora ci vergogneremo del nostro sistema carcerario. Di quello ordinario, perché ordinariamente in spregio del rispetto della persona, prima ancora che della carta costituzionale: a non dire altro, sovraffollamento, abbrutimento senza speranza, clamorosa violazione della funzione rieducativa della pena.

Di quello "speciale" perché insozzato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Si tratta di una normativa che, come l’Unione delle camere penali italiane ebbe modo di rappresentare alla commissione Giustizia della Camera, calpesta i principi sulla funzione della pena fissati dall’articolo 27 della Costituzione, si pone in contrasto con i trattati internazionali.

Gli avvocati penalisti, presentando direttamente al Parlamento una propria proposta di legge, avevano indicato una strada per tutelare la sicurezza nel carcere che fosse allo stesso tempo rispettosa dei principi costituzionali. Quella proposta, pur fatta propria da alcuni autorevoli parlamentari, è stata del tutto ignorata dal legislatore, così come i moniti della Consulta e quelli del Comitato europeo contro la Tortura e i Trattamenti Disumani.

Il risultato di questa situazione è una disciplina che, nel suo inusitato rigore, si ribella deliberatamente alla finalità di rieducazione della pena. Nella mia qualità di presidente delle Camere penali, avevo rappresentato, il 20-12-2002, tutto ciò anche al Capo dello Stato, in una apposita nota, naturalmente rimasta senza esito. Concludevo la mia lettera, rappresentando: "considerato che in un sistema democratico quel che più conta è la legalità dei mezzi rispetto alla legittimità dei fini, a nome degli avvocati penalisti italiani auspico che Ella, interprete del ruolo di garante dei valori primari su cui si fonda la Repubblica, intervenga rinviando al Parlamento un provvedimento che non è degno delle nobili tradizioni giuridiche del Paese."

Come è noto, la legge che ha stabilizzato il 41 bis, introdotto un decennio prima con propositi temporanei ed emergenziali, è stata regolarmente promulgata. Ho poi apprezzato la serietà con cui la magistratura di sorveglianza ha limitato l’applicazione di questa barbarie, anche se un parlamentare delle forze di opposizione s’è affrettato, colmo di indignazione, a sollecitare interventi ispettivi nei confronti di quella che - pur provenendo dalla magistratura - gli è parsa una grave anomalia.

Di che cosa ci meravigliamo? Non riusciamo nemmeno a introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura, contro il quale si sono schierati - da destra e da sinistra - due parlamentari piuttosto noti (un ex ufficiale dei carabinieri e un ex pubblico ministero), preoccupati che le indagini venissero compromesse e gli investigatori penalizzati. Intanto, la commissione Nordio ha persino confermato l’ergastolo tra le pene detentive: l’articolo 27 può aspettare ancora…

De profundis, voci da dietro le sbarre, di Dimitri Buffa

 

1) Vogliamo la riforma penitenziaria

 

Siamo dei detenuti di Rebibbia. Stiamo facendo una raccolta di firme per ottenere la riforma dell’ordinamento penitenziario nel senso di garantire finalmente vera rieducazione con salute, lavoro, sostegno psicologico. Parliamo di diritti, ovviamente, che devono essere pari a quelli degli altri cittadini, fatti salvi gli interessi di tutela della collettività. Chiediamo che il detenuto diventi un cittadino- detenuto. Mancano le firme raccolte al presidente della Camera on. Pierferdinando Casini. Chiediamo un indulto generalizzato, compensativo di queste carenze. Perché i bambini e gli handicappati in carceri con barriere architettoniche siano mandati fuori, con soluzione alternativa adeguata. Non vogliamo più che si muoia in carcere senza le cure necessarie nella lentezza delle pastoie burocratiche e di una colpevole insipienza.

 

Roma, Rebibbia. Andrea Insabato; Torrenti Mario; Biondi Massimo; Fuser Raul; Chima Dominic; Ortiz Jorge; Gianni Giuseppe; Del Conte Andrea

 

2) Depressione da carcerato

 

Non so nemmeno io il perché, ma scrivo. Forse perché vorrei credere di non essere solo a combattere quotidianamente con me stesso e questa m….. che mi circonda. Sono da 13 anni Hiv positivo e da 3 anni ammalato di Aids, non sono uno stinco di santo, ma conciato così adesso non potrei fare danni e se avessi potuto non avrei fatto neanche quest’ultimo danno che mi ha riportato in carcere. Infatti sto scontando 4 anni per una rapina (un furto) fatta poco dopo che ero uscito dal carcere dove avevo scontato una pena di 12 anni. Non ho famiglia, non faccio colloqui né telefonate, non ho una "fissa dimora", cioè non ho una casa né nessuno che mi vuole e che quando sono uscito la prima volta mi ha detto: "Ah! Ciao, ben tornato, come stai? Mi sei mancato". Nessuno.

Così appena fuori ho cercato una casa, un lavoro, ma l’unico risultato era che mi svegliavo di notte (nel 2003!) con i crampi dalla fame: chi mai potrebbe volere uno che è stato in galera? Ricominciare con i furti e piccole rapine è stato un attimo. Non voglio fare la vittima, né voglio essere patetico, so gli sbagli che ho fatto e vorrei non ripeterli più. Ma quando uscirò di qui – se uscirò, visto che con la scusa che non ci sono i fondi per i farmaci non riesco ad avere le medicine che mi servono e i soldi per comprarle non ce li ho! – mi ritroverò con lo stesso scenario: tante belle parole, ma fatti zero! Si parla tanto di housing sociale, case per i detenuti, case famiglia per gli ammalati di Aids di cooperative che assumono i detenuti, ma poi, fuori dal cancello, non c’è niente. Ricomincerò a pensare che l’unico posto dove posso stare è proprio la galera, non riesco ad avere un altro punto di vista: vorrei tanto imboccare una nuova strada, ma non la conosco. La vecchia strada invece la conosco a memoria e come sempre se io mi sveglio alle sette per me la sfiga si sveglia alle sei!

 

Pasquale Regina, Casa Circondariale di Monza

 

3) A Mantova ci fanno morire di fame

 

Ciao a tutti, siamo Alfonso e Nicola vorremmo rubarvi qualche minuto per farvi conoscere le varie disfunzioni, chiamiamole così, che ci sono in questo carcere di Mantova. Per primo la questione alimentare, il vitto è insufficiente tutti i giorni, ma specialmente la domenica, giorno in cui il carrello passa una sola volta al giorno e al posto della cena ci danno due uova crude. Poi non c’è nessuna attività, così passiamo 24 ore sbattuti sulle brande, chiusi nelle celle: ci sono troppe persone che vivono la carcerazione in maniera apatica anche perché non hanno alternative.

Adesso vorrei passare anche a un argomento personale, visto che io e tanti altri non abbiamo né colloqui, né famiglia, né lavoro che ci permetta di guadagnare qualche soldo: se qualcuno avesse degli indumenti da mandarci la mia misura di pantaloni è 44 e sono alto 1,65 e Nicola che è alto 1,93 ha la 52. Infine la cosa è facoltativa, non c’è nessun obbligo, anche per un aiuto economico.

 

Alfonso Mamone, Casa Circondariale di Mantova

Agosto, prigione mia ti riconosco

 

Tenete duro. Anche il mese di agosto ha 31 giorni. Come gran parte di tutti gli altri. L’appello per voi sfortunati che soggiornate nelle patrie galere è a non farvi del male. Non per protestare contro un sistema penitenziario da terzo mondo. Non per dare soddisfazione a chi ha fatto del sadismo e dell’angheria l’unica ragione di una vita noiosa, tra bugie e intrallazzi politici. Non per chi utilizza il carcere come discarica sociale, non per chi lo usa per fare carriera sulle vostre spalle. Se vi può consolare, in Italia è sempre andata così: fin dalle inchieste sulle carceri che andavano in tv con la regia del compianto Cifariello.

All’epoca fece scalpore nella Rai monocanale la storia di un povero Cristo che aveva l’ergastolo accusato di avere ucciso un fratello di cui non si era mai trovato il corpo. Per forza che non si trovava: era emigrato in America.

Ma vi credete che quando la cosa venne fuori fu facile farlo uscire di galera? La Cassazione davanti a una sentenza definitiva non voleva sentire ragioni e in attesa della revisione del processo nessuno voleva dargli la libertà provvisoria. Alla fine lo graziò Leone. Che era un giurista. E ci mise una pezza così.

Intervista con l’ex europarlamentare Maurizio Turco, che parla del 41 bis e dell’insensibilità dei politici italiani. "Una convenzione europea per i diritti dei detenuti"

 

Il 9 marzo del 2004 il Parlamento Europeo approvava il rapporto sui diritti dei detenuti nel vecchio continente presentato da Maurizio Turco, ex presidente degli europarlamentari radicali. Lo abbiamo intervistato per L’opinione delle carceri.

 

Perché i media non intervistano un esperto come lei sulla situazione nelle carceri italiane ed europee?

Perché la voce dei radicali è fuori dal coro e il conformismo trova ugualmente schierate maggioranza ed opposizione. Il carcere non rientra nei loro obiettivi se non sotto elezioni. Prendiamo ad esempio il 41 bis. Nessuno degli schieramenti politici una volta arrivato al governo si è mai preoccupato di capire che cosa sia veramente il carcere duro. Letture superficiali del fenomeno mafioso non hanno portato ad alcun risultato soddisfacente nella lotta alla mafia. Ci sono nel nostro paese persone sottoposte al 41 bis da decenni senza che questo abbia portato alcun risultato utile dal punto di vista delle indagini - semmai ha messo l’Italia tra i paesi con più condanne dell’Unione Europea per i ritardi nei processi e la violazione dei diritti. La commissione antimafia farebbe meglio a documentarsi prima di accontentarsi della lettura che propone il direttore delle carceri sull’efficacia del 41 bis o dello sconcertato Lumia, perché ai mafiosi è consentito di andare a messa!

 

Che cosa è accaduto dopo l’approvazione del rapporto sui diritti dei detenuti?

C’è stato un aumento dell’attenzione politica europea e di fronte a dati concreti non si è risposto con sterili polemiche. Parliamo della vita di migliaia di persone. Se è vero che il grado di civiltà di un paese si vede proprio dallo stato della giustizia e dalle condizioni di detenzione in cui versano i cittadini meno fortunati, allora l’Europa ha il dovere di dare indicazioni precise. All’Italia per prima.

Nonostante Castelli abbia ereditato una situazione difficile è anche vero che la necessità di un’attenzione liberale e di rispetto delle leggi fino ad oggi è mancata. Al Consiglio d’Europa invece c’è ascolto. Almeno si tenta di dare delle risposte. Dietro 50.000 detenuti nel nostro paese ci sono anche 50.000 famiglie. E non dimentichiamoci che oggi molte persone si trovano in carcere perché non saprebbero dove metterle. Mi riferisco ai malati di mente, ai tossicodipendenti, ai disgraziati che sbarcano sulle nostre coste in fuga da guerre e fame. Questa è una giustizia che non funziona, preoccupata di garantire alcuni non tutti.

 

Su cosa state lavorando in questo momento?

Ottenere una convenzione europea sui diritti dei detenuti perché siano garantite condizioni di vita decenti a tutti. I problemi del sovraffollamento, la sorveglianza inadeguata, la mancanza di servizi, di assistenti, operatori sono la punta dell’iceberg. Il carcere così com’è non risponde al dettato Costituzionale, anzi lo elude e lo viola.

Recentemente le figure dei garanti, quindi strutture di garanzia esterne alla macchina penitenziaria, stanno aprendo una pagina ricca di aspettative anche se è innegabile il sentimento di frustrazione diffuso sia nel personale penitenziario che nei detenuti, come se fosse davvero impossibile cambiare qualcosa. Il 14 agosto insieme al segretario dei radicali italiani presentiamo la nostra risposta al rapporto del ministero della Giustizia. Dati semestrali che sono meno approfonditi di quanto ci si aspetti.

 

Francesca Mambro

 

Pagina a cura di Dimitri Buffa

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