Sosta Forzata

 

Sosta Forzata, giornale della Casa Circondariale di Piacenza

(numero pubblicato nel mese di aprile 2005)

 

Suicidi in carcere: in memoria di…

Turismo penitenziario: dal nord al sud dell’Europa…

Corrispondenza da dentro a fuori

Stranieri incarcerati: prove di trasmissione

Scritture autobiografiche

Ritratti appena abbozzati

Ricerca sulle "condizioni civili dei detenuti stranieri nelle carceri italiane"

Padri interrotti. La paternità incarcerata…

 

"La mia pittura è immagini visibili che non celano niente; evocano il mistero e, effettivamente, quando uno vede una delle mie immagini, si fa questo problema semplice: - Che cosa significa? -. Non significa nulla perché il mistero non significa niente, esso è unknowable"

 

René Magritte

Suicidi in carcere: in memoria di…

 

Nelle carceri italiane la media dei suicidi è altissima. Nel solo mese di gennaio sono dieci le persone che si sono tolte la vita. Per vergogna? O forse per solitudine? Io opterei per quest’ultima: sì, la famigerata solitudine, la devastante solitudine. Perché di solitudine si può morire.

Cosa resta di queste persone?

A me personalmente rimane l’amarezza ma soprattutto un senso di impotenza per non aver potuto fare nulla per loro.Spesso mi domando che requisiti ci vogliono per fare il carcerato? Siamo tutti in grado di superare la detenzione?

Non lo so ma credo, comunque, che, pur essendo detenuti, abbiamo lo stesso valore di tutti gli altri esseri umani e che ogni persona abbia diritto di vivere. Ho scritto questi brevi pensieri per affermare proprio questo diritto alla vita… non permettiamo che di galera si possa morire.

 

Nico

 

In memoria di…

 

Due persone si sono tolte la vita nel carcere di Piacenza nel mese di gennaio, a venti giorni di distanza l’una dall’altra. Nella stessa sezione.

"Sto diventando matto, sento la morte intorno a me… prima quel ragazzo marocchino, poi Roby. Ma cosa sta succedendo?"

Occhi sgomenti e una domanda che non trova risposta, sarà inghiottita dal mistero. Morti crudeli, inutili, disperate come tutte le morti in galera. Ricordiamo uno straordinario cappellano: - Qualcuno, comunque li ha sulla coscienza tutti questi suicidi, prima o poi dovrà dare spiegazioni, se non altro a se stesso…-

Noi sentiamo solo il dovere di ricordare con brevi parole le due persone che, qui a pochi passi da noi, hanno cercato e trovato la soluzione finale ai loro tormenti. Rifugiandosi proprio nell’ultimo mistero.

 

Un pensiero per Roberto Del Nero

 

Una forte storia alle spalle; si dice che abbia ammazzato la sua donna che era incinta di un figlio suo e che addirittura si sia sbarazzato di lei bruciandola e abbandonandone il corpo in una strada. Roberto in carcere era una persona educata, salutava tutti, scherzava con me senza lasciar trapelare nessun sintomo suicida. Ma soffriva di una sofferenza che solo chi entra per la prima volta in carcere, e a 50 anni per giunta, soffre; ma non lo dava a capire, neanche quando ha deciso di farla finita.

Forse perché sentiva forte il rimorso o forse perché era veramente innocente e a noi piace pensarlo così. Purtroppo non siamo noi a giudicare e forse a lui è sembrato più logico farsi giudicare da Dio. E allora quel giorno ci siamo salutati dandoci la mano – cosa che solitamente non faceva – poi ha parlato al telefono con sua figlia e alla sera dopo la conta ha cominciato prima legandosi mani e piedi per impedirsi di reagire e poi si è impiccato.

Roby è l’ultima persona che si è suicidata nel carcere di Piacenza e potrei dire molte altre cose ma ormai mi sembrano inutili. Quello che mi sento di aggiungere senza entrare nella polemica è soprattutto che la vita di una persona andrebbe salvaguardata sempre. Questo perché Qualcuno ha voluto quella vita per noi e tutti abbiamo il dovere di aiutare le persone ad arrivare alla morte naturale. Benjamin detto Chief vicino di cella di Roberto, lo ha sentito morire da vicino.

 

Mohamed El Mansouri

 

Un ragazzo del Marocco, giovane con problemi di droga. È arrivato qui da un carcere con le celle aperte tutto il giorno dove gli davano farmaci per la tossicodipendenza. Qui non stava bene, gridava continuamente. Poi ha saputo dal suo avvocato che con l’imputazione di tentato omicidio rischiava una lunga condanna. Stava sempre peggio. Lo hanno mandato in isolamento, nella cella più lontana perché faceva molto rumore. In Italia aveva solo una sorella che non si occupava di lui. Quando passavo mi chiedeva aiuto ma non potevo fare niente. Poi ho saputo che si era ucciso.

 

Mohamed

 

Cosa possiamo dire?

 

Resta la sferzante ironia di Alessandro Margara che chiude il suo intervento al recente seminario bolognese sui diritti con una breve frase sospesa: - Poi nelle carceri ci sarebbe anche quel problemino dei suicidi…-. Un lunghissimo applauso di stima all’anziano magistrato. Ma poi? Nella pratica quotidiana le emozioni sono del tutto inutili se non producono azioni concrete e coerenti.

 

Carla Chiappini

 

 

Turismo penitenziario. Dal nord al sud dell’Europa un modo diverso di intendere la carcerazione

 

"Donne e buoi dei paesi tuoi" raccomanda la popolare saggezza. Ma il carcere no, per il carcere conviene fare qualche eccezione. Potrebbe essere meglio l’Europa del nord, la Danimarca per esempio. Così come ha personalmente constatato il nostro "inviato speciale"…

 

Affettività: nessuna privazione

 

La mia esperienza in un carcere danese mi ha fatto toccare con mano le grandi differenze nel modo di affrontare e risolvere questo problema così importante e delicato che coinvolge ogni detenuto angosciato dal vedersi reprimere per tutto il tempo della detenzione la sfera affettiva e sessuale.

Ecco cosa è successo a me in un carcere danese

Dopo essere stato arrestato a Copenaghen, trascorro un mese al reparto isolamento decretato per motivi di giustizia, terminato questo periodo vengo portato alle sezioni detenuti comuni, entro in una grande sezione, si tratta di un vecchio carcere ma tenuto perfettamente efficiente, alzo gli occhi

e vedo tutti e quattro i piani di cui è composta la sezione. Non essendoci piani chiusi, ogni piano ha il suo ballatoio e tutti ci possiamo vedere; noto che il mio ingresso ha destato curiosità e trovo parecchie persone affacciate a vedere il nuovo arrivo. Rimango allibito e a bocca aperta!

Perché affacciati ai ballatoi vedo donne e uomini insieme che mi guardano incuriositi; capisco subito che queste donne sono detenute per come sono vestite. Portano tute sportive sgargianti e alcune delle vestaglie, ridono e commentano tra di loro. Un agente mi accompagna al II° piano e mi indica la mia cella singola che si trova di fronte alla cella di una ragazza; le celle sono aperte, rimango sul ballatoio per rendermi conto se tutto ciò è vero. Un paio di detenuti con una ragazza mi vengono incontro per conoscermi e mi parlano in danese, io purtroppo non parlo nessuna lingua straniera, loro provano a parlarmi in inglese, ma riesco a mala pena a dir loro che non li capisco e che sono italiano, allora uno di loro chiama un ragazzo albanese che parla un poco di italiano stentato e così mi informa di come il sistema penitenziario danese preveda queste sezioni miste di detenute e detenuti, e che il tutto si svolge con una convivenza fatta di rispetto ed educazione reciproca. Sono veramente stupito!

 

L’aria è un prato verde

 

Sto ancora parlando con l’albanese quando sento aprire i cancelli del passeggio e vedo che tutti escono. Anch’io li seguo e rimango nuovamente sorpreso: c’è un bellissimo prato verde, ci sono delle panchine in legno colorate e un grande gazebo in legno con i tavoli, ogni detenuto porta un grosso termos contenente del tè o del caffè, tutti si siedono a gruppetti, il ragazzo albanese si avvicina ad un gruppetto di ragazze e fa le presentazioni. Sono tutti curiosi di sapere qualcosa di me ma, non conoscendo alcuna lingua straniera, non riesco a spiegare nulla mentre loro, invece, hanno la padronanza di almeno un paio di lingue, e questo mi dà una grande frustrazione e quindi desisto dalla conversazione; mentre il ragazzo albanese continua ad evidenziarmi la grande civiltà di questo popolo nei confronti dei detenuti. Effettivamente vedo intorno a me un clima di grande serenità e rilassatezza, nonostante siamo tutti detenuti e in attesa di giudizio…Sono veramente stupefatto di questo trattamento penitenziario tant’è che ho quasi dimenticato di essere in carcere già da un mese. Purtroppo per esigenze giudiziarie devo essere trasferito in un altro istituto, e quindi dopo 20 giorni devo lasciare questi ragazzi e ragazze che avevo conosciuto e con cui si era instaurato un rapporto di simpatia.

 

Chiedo un incontro con la mia compagna

 

Arrivo nel nuovo istituto, e subito noto che qui non ci sono donne, ma solo uomini; però trovo un ragazzo italiano di Parma, detenuto per traffico di alcool che parla bene l’inglese, e mi è molto di aiuto perché mi fa da interprete; parla con gli agenti e mi fa andare a lavorare insieme a lui, così posso dialogare almeno con qualcuno. È lui a darmi ulteriori ragguagli sul sistema e mi dice tutto quello che posso fare. Lo informo che presto verrà a farmi visita la mia compagna, e che ho un grande desiderio di rivederla; lui i colloqui li fa già, e mi dice di essere capitato nel posto giusto, perché i carceri danesi danno la possibilità di privacy e di intimità con i propri cari, mogli, fidanzate e parenti. Gli chiedo di aiutarmi e lui mi riempie il modulo che serve per prenotare il giorno del colloquio dove indico la data della visita, e così vengo autorizzato a quattro ore di incontro con la mia compagna che amo tantissimo.

 

Finalmente arriva quel giorno

 

Vivo quei giorni che mi separano dal colloquio con grande ansia e finalmente arriva il giorno, mi accompagnano in una sezione adibita solo ai colloqui dove al posto del solito grande stanzone in cui di solito tutti i detenuti sono insieme a fare i colloqui trovo tante piccole stanzette e ognuna ha un divano grande e una poltroncina con tavolino, perché ci si può portare da mangiare, dei termos con il caffè e tea , inoltre c’è pure un lavandino con acqua calda e fredda . L’agente mi indica la stanzetta e subito dopo se ne va , e non lo rivedrò più per tutto il tempo del colloquio, apro la porta che mi ha indicato e li vi trovo la mia compagna, ovviamente l’abbraccio è di grande intensità, avevo atteso questo momento, Lei mi mancava, passato lo stupore iniziale, mi guardo in giro , non vedo più nessuno in giro. E allora chiudo la porta e noto che sulla stessa vi è un chiavistello con cui ci si può chiudere all’interno, rimaniamo da soli, la gioia di entrambi è immensa,non ci pare vero di avere questa intimità che tanto desideriamo, e sappiamo che davanti a noi abbiamo quattro ore per rimanere insieme. Iniziamo a raccontarci le nostre cose , e poi commentiamo il fatto che ci hanno lasciato soli in questa stanzetta e che nessuno ci disturbi o venga a vedere quello che facciamo, notiamo poi che su di un tavolino vi è un contenitore con dentro parecchie confezioni di preservativi. Ci mettiamo a ridere, anche perché noi due non ne abbiamo mai fatto uso, e subito i nostri sguardi d’amore servono a sciogliere la tensione e l’imbarazzo iniziale, non mi pare vero di poterla accarezzare abbracciare, darle dei baci senza essere visto o scrutato da centinaia di occhi diffidenti, ci mettiamo a nostro agio e possiamo esprimere il nostro amore, le ore volano, non ci sembra vero di essere in carcere, se non fosse che la finestra è dotata di grate, ma che però ci sono delle tendine colorate che danno la privacy, e la stanzetta non è per nulla squallida, è dipinta, accessoriata, dotata anche di impianto per ascoltare musica, per rendere più agevole la permanenza per tutte le quattro ore, e poi nessuno ci disturba, solo ogni tanto sentiamo venire voci dal corridoio di bambini che giocano e la cosa ci fa tenerezza e sorridere anche perché non capiamo cosa si dicono, ci sono altre persone che fanno i colloqui nelle altre stanzette, e il tutto avviene con la massima discrezione ed ognuno gestisce il tempo e i propri affetti come più ritiene utile: chi li trascorre con i propri figli, chi con la propria moglie o compagna, o amica, lasciandoci la massima libertà di movimento all’interno di questa sezione, e nessuna trasgredisce le regole dell’educazione e del rispetto, nonostante le stanzette si trovano una accanto all’altra. Nessun agente viene a controllare, siamo liberi di gestire il tempo a nostra disposizione.

 

Essere trattati con civiltà e rispetto ci aiuta a essere migliori

 

Essere trattati in questo modo con civiltà, con rispetto, e senza nessun pregiudizio o arroganza, ci aiuta ad essere migliori e i risultati saranno a beneficio di tutti. I danesi da anni hanno capito che la privazione della libertà a una persona che ha sbagliato nella società è una punizione più che sufficiente e ritengono che ogni detenuto abbia diritto a mantenere un rapporto affettivo umano, e per chi vuole, anche la non privazione della propria sessualità. Che abbia la possibilità di esternarla, con rispetto e adeguata privacy. Per questo hanno pensato a strutture adeguate, con il risultato che le persone non perdono i contatti con i propri cari. Per rendere una detenzione più umana e meno repressiva da cui il detenuto può trarre un utile insegnamento.

 

Lavoro, attività, educazione e rispetto per un carcere che rieduca

 

In Danimarca ho toccato con mano come si riesca a coniugare il dovere di far espiare la pena a un condannato rispettandone la dignità con l’umanità di trattamento e la grande educazione.

Vengo da una esperienza carceraria italiana di lunga durata, per cui mi sono confrontato con le due diversità di trattamento e, siccome prima ero sempre stato abituato a dover lottare quotidianamente con l’arroganza, la diseducazione e la mancanza del rispetto dei diritti sanciti dalla legge penitenziaria, il carcere danese mi ha letteralmente spiazzato.

La mia esperienza di detenzione in quella terra è iniziata a giugno 1999 e, all’ingresso del carcere mi sono messo come sempre sulla difensiva, ma subito mi sono reso conto che non era necessario perché anche se non parlavo nessuna lingua straniera non capivo un bel niente, vedevo in loro la voglia e disponibilità di essermi di aiuto; ogni volta che avevo delle difficoltà importanti di comunicazione mi offrivano la collaborazione di un interprete e avevano un atteggiamento gentile e cortese, mi trattavano con una educazione e un rispetto che mi lasciavano esterrefatto. Evidentemente per loro non ero solo il delinquente che aveva sbagliato, ma una persona che dovevano custodire con rispetto e dignità; in tutto quel periodo non ho mai visto né un gesto di arroganza né di maleducazione nei miei confronti, nonostante avessero la visione stereotipata: italiano = mafioso. Da autentico lombardo, questa cosa mi dava molto fastidio, anche se capivo che con il mio gesto avevo anch’io contribuito a mettere in cattiva luce gli italiani.

Il loro regolamento penitenziario è veramente improntato alla massima apertura e disponibilità; la privazione della libertà è, per loro, il massimo della punizione e quindi all’interno del carcere concedono ampi spazi di mobilità; il detenuto non viene privato di nulla, e durante l’arco della giornata, ha tutte le attività sportive e culturali possibili.

 

Il lavoro è un obbligo e non privilegio di pochi

 

E su di una cosa non transigono; vi è l’obbligo del lavoro durante la giornata e tutti i detenuti devono partecipare con orario continuato fino alle 15,00; dopodiché al detenuto viene lasciata la possibilità di ricrearsi con attività sportive e di socialità fino alla sera delle ore 21,30.

Questo modo di intendere la detenzione è molto positivo perché si crea un clima all’interno sereno e tranquillo; il lavoro occupa la giornata e permette al detenuto di essere economicamente autonomo e tutto questo è la miglior cura e rieducazione; vale sicuramente più di cento prediche e discorsi. I danesi su questo sono più evoluti; hanno capito che il miglior reinserimento è l’aiuto concreto al detenuto, molto più delle chiacchiere sul perché hanno sbagliato ecc. ecc.

Aiutarlo all’interno senza continue privazioni o segregazioni, rendendolo attivo con il lavoro e lo studio e poi, quando sta per uscire, aiutarlo nella ricerca di un lavoro. Su questo i danesi sono all’avanguardia.

 

Qui ozio, disperazione e oblio

 

Ovviamente qui da noi tutto ciò non accade a parte qualche istituto privilegiato, vedi penali etc. che riescono a dare un po’ di dignità alle persone, ma per la maggior parte siamo tutti abbandonati a noi stessi. Tuttavia quello che più mi risulta più incomprensibile è che negli anni, nonostante le nuove leggi certamente più evolute, il sistema invece di migliorarsi, si è ulteriormente aggravato e ristretto con uno stagnante un disinteresse che crea solo oblio e che lascia i detenuti alla loro disperazione.

Tutto ciò non è produttivo, ne tanto meno conviene alla società civile, ecco perché tante volte parlando con i danesi del nostro regime penitenziario provavo vergogna a elencarne le differenze.

 

Antonio Mistri

 

Corrispondenza da dentro a fuori

 

Cari imprenditori di Piacenza, il desiderio che mi ha spinto a scrivervi questa lettera, è quello di poter instaurare un dialogo con voi per cercare di farvi conoscere la realtà dell’ambiente penitenziario e di "rompere" quei pregiudizi che ci sono verso le persone detenute. Dietro le porte di un carcere ci sono esseri umani che chiedono aiuto e hanno voglia e necessità di accedere al mondo lavorativo; siamo componenti di questa società, anche se momentaneamente sottoposti a una esecuzione penale, siamo una risorsa, una forza-lavoro di cui tenere conto e desideriamo entrare a pieno titolo nel libero mercato del lavoro. Noi vogliamo "uscire" da questa precarietà in cui siamo costretti a vivere, vogliamo intraprendere un percorso alternativo alla semplice detenzione e privazione della libertà, che ci dia dignità e che ci aiuti anche a riscattarci del nostro passato. Tanti di noi lo chiedono e lo vogliono attuare. Desideriamo che le porte del carcere siano più "aperte" verso la comunità esterna, abbiamo "fame" di integrazione verso la società civile. E uno dei percorsi più importanti, è proprio il reinserimento lavorativo di cui non possiamo né vogliamo fare a meno. Il disinteresse nei nostri confronti o addirittura la nostra ghettizzazione, producono solo effetti devastanti, che si ripercuotono su tutti.

Per questo chiediamo un dialogo con il mondo imprenditoriale esterno perché si aprano per noi delle reali possibilità lavorative. In questo contesto carcerario ci sono tante persone, che dopo aver fatto cattivo uso del loro passato, ora hanno imparato ad usare "l’arma" della ragione, e chiedono percorsi alternativi e di fiducia nei loro confronti.

Ma solo con il vostro reale interesse al problema e con l’aiuto effettivo si raggiungerà lo scopo di reinserire questo mondo penitenziario che si tende a emarginare e a vedere come un peso. È una scommessa che è utile a tutti, oltre che estremamente necessaria a noi.

 

Antonio Mistri

 

Cara Redazione di Sosta Forzata, scriviamo per segnalare che i detenuti delle sezioni B, C, D, E hanno raccolto le firme per inserire, integrare e cambiare le attrezzature della palestra; alcune obsolete, altre totalmente mancanti.

Facciamo presente che, solamente per le due panche dobbiamo fare i turni e così pure per i pesi.

La frequentazione della palestra è di due ore la settimana per sezione ed è molto importante per scaricare la tensione e avere la possibilità di fare una buona ginnastica.

Non si chiede lo sviluppo della muscolatura né, tanto meno, di preparasi per fare gli "streep men recluded" ma solamente di disarticolare le giunture rattrappite dall’immobilità per lo spazio ristretto e il materasso sintetico. Sappiamo della fatica finanziaria dell’Istituto e, quindi, vorremmo sensibilizzare eventuali "sponsor benefici", confidando nella sensibilità dei piacentini.

 

La Redazione

 

Stranieri incarcerati: prove di trasmissione

 

"…La sensazione di lutto, in particolare di lutto materno, che l’emigrato vive quando subisce un distacco acuto dal proprio ambiente, dal gruppo di persone di riferimento. Quando perde ogni sicurezza…" Vittorino Andreoli, in "I miei matti"

 

Prove di trasmissione. Non era previsto questo titolo, pensavamo di completare la pagina con un’intervista, un racconto, una storia di vita. Ma non è stato possibile. In realtà questo spazio dedicato agli "stranieri incarcerati" è un fallimento giornalistico, un obiettivo mancato. Per una serie di motivi. E il problema della lingua è solo il più remoto, un ostacolo nemmeno troppo difficile da superare.

Come si può facilmente constatare, i ragazzi della scuola di alfabetizzazione con la supervisione della maestra Pinuccia Montanari se la sono cavata piuttosto bene con l’italiano e i loro brevi pensieri hanno il valore dell’autenticità.

Molto più difficile è stato il lavoro della redazione che si era proposta un’esercitazione sull’intervista, impegnandosi a condurre, attraverso domande ragionevoli, la persona prescelta a una rivisitazione della sua storia. Non ha funzionato. Quattro tentativi in parte falliti. Per prudenza, per dolore, per impazienza, per le troppe cose che non è conveniente dire, per i troppi sentimenti che si vanno a sollecitare, per le infinite, pesanti differenze culturali che non trovano il tempo e la collocazione giusta per essere affrontate.

Quindi siamo costretti a restituire ai nostri lettori solo alcune "prove di trasmissione". Qualche pensiero, una traccia sottile, sicuramente utile per una migliore comprensione del problema ma insufficiente e incompleta. Rapide inquadrature, cenni di ritratti. E poco più.

 

Scritture autobiografiche

 

Sono partito dalla Tunisia a 20 anni nel 1984. In Italia la vita era più facile di adesso perché c’erano meno stranieri e gli italiani erano più ben disposti verso di noi. Non ho mai lavorato perché non volevo farlo. La vita che ho scelto mi ha portato molte volte in carcere; per tre volte sono stato arrestato senza che avessi fatto qualche reato, però avevo precedenti penali. Il dolore maggiore che provo è che da vent’anni non vedo la mia famiglia e mi manca moltissimo.

 

Samir

 

Il Marocco è un paese libero, abbiamo tutto, anche la possibilità di avere una vita normale ma ci vogliono un po’ di soldi per cominciare. Io sono uno dei tanti ragazzi che ha scelto l’Italia come un paese dove si può trovare un lavoro ben pagato, purtroppo non ho trovato questo lavoro così ho scelto l’altra strada che mi ha finito in carcere. Dentro di me sento la mancanza del mio paese, mi manca l’aria così bella, così dolce, mi manca l’amore della mia famiglia e soprattutto la mamma.

Mi mancano le feste familiari perché noi musulmani ci teniamo tanto alla famiglia e siamo pronti a dare la nostra vita per disegnare un sorriso sulle labbra del più piccolo di noi.

 

Lettera firmata

 

Sono venuto in Italia perché cercavo soldi per vivere meglio e un lavoro per avere un futuro migliore. Quando sono arrivato ho cercato di lavorare regolarmente ma è stato impossibile perché senza documenti non puoi lavorare da nessuna parte. Ho iniziato a spacciare perché mi servivano i soldi per mangiare, per vestirmi e per mandarli alla mia famiglia. Spero che Dio mi aiuti a prendere una nuova strada e a trovare una donna da sposare. Quello che voglio è sposarmi, fare dei bambini e tornare al mio Paese con una bella famiglia e una bella macchina.

 

Atric

 

Ho lasciato il mio paese, anche se là non mi mancavano i soldi. Avevo il desiderio di girare il mondo e soprattutto di conoscere la libertà perché, al mio paese, c’è la dittatura. Quando sono arrivato in Europa ho conosciuto la libertà e la democrazia; qui vivo meglio però mi manca la mia famiglia e il mio Paese. Tornerò in Libia solo quando finirà la dittatura.

 

Lettera firmata

 

"Di vita ce n’è solo una. E si mangiano sogni e speranze. Ma non è mai tardi. Per sognare e sperare..". Con queste brevi parole si chiude la testimonianza di Catalin dalla Romania che ha schematicamente risposto alle brevi domande che avevamo preparato come schema per una riflessione. Abbiamo, così, appreso che ha lasciato il suo paese in cerca di lavoro e fortuna, che trova bella l’Italia ma, quando sei straniero…; che gli mancano gli amici, che della detenzione soffre l’essere troppo chiuso, che la sua famiglia non sa che è in carcere perché "loro non ci sono", che vorrebbe tornare nel suo paese ma è "senza niente" e gli sarebbe piaciuto fare l’idraulico.

 

Catalin

 

(testi raccolti dall’insegnante Pinuccia Montanari della scuola "Italo Calvino")

 

Ritratti appena abbozzati

 

Jaime spagnolo, anzi catalano per la precisione. È educato, composto, palesemente intelligente. Trentasette anni, sposato, divorziato, legato a una donna ecuadoregna che gli ha dato un bimbo, pur avendone già cinque suoi. Una donna che "non andava nemmeno a fare la spesa da sola" e ora si trova a Barcellona, con tre ragazzini in casa perché i più grandi sono autonomi.

Lui è preoccupato e, giocando con il questionario di Proust, dice che la qualità che apprezza maggiormente in una donna è l’autosufficienza. Lei è il contrario ma lui le vuole bene ed è soprattutto molto preoccupato. In Spagna aveva un lavoro, 1.500 euro al mese e poi ha conosciuto della gente che gli ha fatto un’offerta. Tanti soldi per spostare della cocaina a Milano. La prima volta ha detto no. Poi è nato il bimbo piccino, la sua compagna ha avuto un cesareo e i soldi avrebbero fatto molto comodo. È arrivato a Milano in aereo; il tempo di andare in albergo, l’arresto. La notte al posto di polizia, San Vittore e poi Piacenza. Niente denaro e tanto carcere. Dalla Spagna la ragazzina più grande che, dice lui, - non è nemmeno mia figlia – gli scrive e lo conforta. Anche la sua famiglia non lo ha abbandonato. Ma il pensiero è sempre là. Questa carcerazione è la prima per me ma sarà anche l’ultima. Per sempre, ne sono certo. A mio figlio, quando sarà grande, penso che dirò la verità -.

Gli piace leggere e scrivere e, quando era libero, faceva lunghe passeggiate. Non aveva nessuna intenzione di emigrare da noi. Ama il suo paese che – è più accogliente con gli stranieri e meno caro per viverci – L’Italia era solo una meta occasionale scelta da altri. Straniero in carcere. Non immigrato, non extra-comunitario.

 

Benjamin detto Chief da Lagos – Nigeria

 

Figlio di una grande famiglia, poco più che trentenne, si definisce "preciso e senza paura", ama "badare ai bambini". Questo è il suo primo ricordo. - Vengo da una famiglia molto grande con fratelli e sorelle molto più grandi di me e con cugini e cognati che vivono con noi. Con loro ho cominciato a chiamare mia madre zia. Mi ricordo un giorno che lei mi ha chiamato per farmi capire che era mia madre e che dovevo smetterla di chiamarla zia. Da quel giorno ho conosciuto mia madre e i miei fratelli. Insomma ho conosciuto la mia famiglia -.

In Nigeria lavorava per una ditta italiana e stava bene. Era un ragazzo rispettato, un "chief" per l’appunto. Quando ha messo incinta la sua ragazza, lui non aveva ancora 17 anni, lei ne aveva 25. Hanno avuto paura della mamma di lui, una donna molto forte e severa. Lei è partita per l’Europa; la meta prescelta era la Spagna, poi si è trovata bene in Italia e si è fermata. Lui l’ha raggiunta in aereo. Solo dopo 7 anni è tornato in Nigeria con la sua compagna e la bimba. In Italia ha continuato a lavorare regolarmente con la ditta che già conosceva. Poi sono nati gli altri due bimbi. L’affitto della casa era molto alto; ben presto ha scoperto di pagare molto di più dei suoi vicini italiani. Stessa casa, stesso proprietario, diverso trattamento. La scelta di guadagnare di più, seppur in modo illecito, è molto allettante. In famiglia si respira nuovo benessere, la moglie è contenta di avere una maggiore tranquillità economica. Poi il carcere e la vita si interrompe.

Benjamin è preciso sul serio e non vuole essere definito straniero. – Voi chiamate stranieri solo quelli del Primo Mondo, gli europei ma anche gli americani. Io vengo dal Terzo Mondo, quindi mi devi chiamare extra-comunitario. Il suo sogno è quello di vivere in un paese senza razzismo. È molto fiero e dignitoso, parla un inglese perfetto e prova molta rabbia.

Per chi, per esempio, lo vede così scuro e gli chiede – ce l’hai la roba? – o per chi ferma sua moglie per strada, pensando di avere a che fare con una donna disponibile. Prova molta rabbia ed è difficile dargli torto. È straniero, o meglio extra-comunitario. Non ha lasciato il suo paese per fame. Non è arrivato in canotto ma con regolare volo di linea.

 

Satilmis dalla Turchia

 

Marinaio, sposato con un bambino. Trentasei anni anagrafici ma ne dimostra almeno dieci di meno. Cordiale e particolarmente simpatico. L’hanno arrestato sulla nave nel porto di Ravenna. È arrivato in carcere con ciabattine di gomma e pantaloncini corti. Così, almeno, ricordano i compagni di galera. E poi spaventato, disperato, in lacrime.

Dovevo scegliere tra Italia e Spagna. Dovevo fare una consegna. Ho scelto l’Italia e ora sono qua – Non conosceva una sola parola in italiano ma prima ha imparato l’albanese perché gli albanesi sono stati i primi ad aiutarlo durante la detenzione. Spera di essere espulso. Ha una grande nostalgia di suo figlio che ha lasciato molto piccolo. Lo sente per telefono appena può. Non ha mai avuto un colloquio, mai un permesso premio.

Dopo circa tre anni di carcere parla l’italiano e un po’ sa anche scrivere nella nostra lingua. Ora sta lavorando come "spesino". Tra i suoi ricordi infantili c’è la visita alla famiglia della mamma in un inverno molto freddo, il paese coperto di neve, bianca la strada: - … mai visto una cosa bellissima così – , i giorni felici passati coi nonni e il "piccolo zio". - Mai vista tanta neve con verde e azzurro di mare – il paese dove è cresciuta la mamma è attaccato al mare. È contento "metà – metà" per l’ingresso della Turchia in Europa perché pensa alle tante differenze culturali. In patria ha studiato fino alla scuola superiore. È sveglio e attento. È straniero, ormai non più extra-comunitario. È arrivato su una nave e non aveva nessuna intenzione di fermarsi più di qualche ora.

 

Saibou dalla Nigeria

 

Riservato e prudente. Sposato con tre figli, è venuto solo in Italia dopo il fallimento della sua attività commerciale. La moglie ha un piccolo negozio ma lui, appassionato di moda, voleva venire in Europa dove vive la sorella. Forse a tentare la fortuna. Parla bene l’italiano ma parla comunque poco. In compenso ascolta con molta attenzione e, quando interviene, è sempre a proposito. Ci ha sorpreso un giorno quando, durante una discussione piuttosto accesa sui diversi costumi culturali, con voce quasi commossa si è detto veramente dispiaciuto per gli uomini italiani. – Davvero sento una grande pena per loro che, quando si separano devono lasciare la casa e i figli alle mogli. Ma da noi questo non succede! Da noi i figli appartengono al padre così come la casa. È una cosa molto triste, poveri uomini italiani…-. È straniero, extra-comunitario. Ha imparato l’italiano in carcere. Non sappiamo bene attraverso quali passaggi sia arrivato da noi. Non sappiamo se pensa di fermarsi. È certo solo che non vede i suoi figli da diversi anni e che non pensa di spostare la sua famiglia perché la nostra mentalità non gli piace.

Ritratti appena abbozzati, come dicevamo. Speriamo che in qualche modo siano utili almeno a evidenziare le differenze e le singolarità di ogni storia; in un contesto come quello del carcere che tende ad appiattire tutto nella rigidità delle statistiche. Tanti detenuti stranieri suddivisi per provenienza, fascia d’età e reato commesso. Una massa anonima che non rende giustizia alle tante esistenze che abitano i penitenziari del nostro paese. Tuttavia, in un’ottica più sociologica, pare prezioso anche il contributo di una ricerca specifica sugli stranieri reclusi di cui pubblichiamo un’anticipazione sintetica.

 

Carla Chiappini

 

Ricerca sulle "condizioni civili dei detenuti stranieri nelle carceri italiane"

 

Circa il 30% dei detenuti stranieri, prima di entrare in carcere, viveva con conoscenti occasionali, mentre il 27% viveva solo e appena il 18% con la propria famiglia. Solo il 37% aveva un lavoro in nero e saltuario, il 26% lavorava regolarmente e il 37% era disoccupato. Sono alcuni dei dati emersi da 600 questionari somministrati in 6 istituti di pena nell’ambito della ricerca "Le condizioni civili dei detenuti stranieri nelle carceri italiane", promossa dalla Facoltà di scienze sociali della Pontificia università S. Tommaso d’Aquino insieme alla Fondazione Migrantes e all’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri.

L’indagine prevedeva che il questionario in italiano – somministrato dai cappellani delle carceri tra i mesi di febbraio e marzo 2004 - fosse tradotto in albanese, arabo, armeno, cinese, croato, francese, georgiano, ibo (Nigeria), inglese, polacco, rumeno, russo, spagnolo, ucraino. I penitenziari coinvolti sono stati: "S. Vittore"- Milano; Prato; "Ucciardone" - Palermo; "Le Vallette" - Torino; "Regina Coeli" - Roma; Isili (Nuoro). I cappellani sono stati coadiuvati da operatori, volontari, mediatori culturali, psicologi; tuttavia alcuni detenuti arabi di San Vittore hanno rifiutato di rispondere alle domande, quindi nei risultati complessivi dello studio (durato 2 anni) c’è "una sottostima di questo gruppo di detenuti", commenta Barbara Sena, vicedirettrice della ricerca, coordinata e diretta dal sociologo Alberto Lo Presti, docente di sociologia presso la Pontificia Università "San Tommaso d’Aquino". L’indagine verrà pubblicata integralmente all’inizio del 2005; i detenuti interpellati sono tutti uomini, compresi tra i 18 e i 64 anni, dietro le sbarre da un mese fino ad oltre 10 anni. La metà di loro è musulmana; le etnie più rappresentate sono quelle albanese, rumena, marocchina, tunisina, algerina.

I detenuti stranieri raggiunti "confermano una situazione di profonda emarginazione linguistica, giuridica, lavorativa, sociale", sottolinea Lo Presti. Infatti, "uno su 3 è vissuto in Italia conoscendo niente o pochissimo la lingua italiana, 2 su 3 non avevano le carte in regola (clandestini e irregolari), uno su 2 non viveva in condizioni stabili con un nucleo familiare o parentale dato". Tuttavia, anche dopo l’ingresso in carcere, "spesso il detenuto straniero vive una sorta di esclusione sostanziale anche in carcere". Inoltre 2 detenuti stranieri su 3 non hanno una condizione penale definitiva (il 40% sono imputati in attesa di giudizio); non sempre riescono a partecipare alle attività formative, ricreative, o a lavorare. "Sono maggiormente quelli che hanno una condanna definitiva ad essere impegnati nelle attività formative e ricreative del carcere", riferisce Lo Presti. Ma non mancano "problemi di autorizzazione" oppure legati "al limitato numero dei posti". (lab) Redattore Sociale 2004

 

Padri interrotti. La paternità incarcerata: dolore, nostalgia, senso di colpa, delusione

 

Silenzio in redazione nel giorno in cui si pensava di parlare di paternità reclusa. Molto dolore, lacrime stoicamente trattenute. C’è chi non vede il proprio figlio da più di un anno, chi addirittura non riceve più notizie. È cresciuto? Come sta? Chissà cosa pensa…

Dietro tutte queste situazioni ci sono legami troncati bruscamente, donne che spariscono, bambini drasticamente allontanati. Paternità interrotte. Segnate da una nostalgia ossessiva e incurabile.

Questa è, ad esempio, la storia di Mario che, in momenti diversi, ci ha consegnato i due scritti che oggi pubblichiamo. Differente ma non troppo, la vicenda di Enrico che non è ancora riuscito a ristabilire un rapporto coi figli ormai adulti e molto severi nel giudicare la sua vita.

Nessun giudizio nei confronti di nessuno: solo una considerazione amara. Ancora una volta dietro queste pesanti e dolenti sconfitte, si può leggere una sconfinata solitudine e l’inadeguatezza di tutti gli attori non-protagonisti ad aiutare e sollevare queste insormontabili difficoltà. Il dolore e la delusione delle mamme ma anche l’amaro abbandono di questi papà.

 

È Natale: il bambino che devo raggiungere mi aspetta

 

Ferro contro ferro: emozioni nel risveglio di Natale… Il mio posto è in alto, un vero letto a castello, di ferro, normale. La sveglia arriva puntuale, all’ improvviso: un lampo e subito incomincia a consumare gli occhi. È una luce giallastra che non oso guardare. Il bagliore dietro il filamento della lampadina trema, diventa struggente come un urlo infinito, un nuovo richiamo, un grido silenzioso, una continua ferita.

Ingigantito e offuscato mille volte da ogni polvere del tempo che si posa su di noi ed io, dal mio mondo sospeso, apro gli occhi e respiro in silenzio il mio solito vuoto e un nuovo disagio mentale. Un disagio continuo, costante, che sfinisce e trasforma tutto in corrente avvelenata che, come dono di un cielo di cemento, incombe nell’ aria ed io devo respirarla tutta, in questa che, a volte, può essere la vita. Ma non ti abbandona.

Sembra sia natale ma io non lo sento perché qui non c’è pace; non la trovi. Ma nemmeno il silenzio. Il silenzio è di ferro; ferro contro ferro, solo interruzioni, soltanto maledizioni. Il mio compagno è più in basso; lo stesso letto a castello. Non riesce a sorridere; una disperazione più grande della mia. Tra le dita una foto, una ferita infinita, una triste poesia.

Sembra non riuscire a sollevare di molto lo sguardo dai suggerimenti che gli vengono dai farmaci e dal cemento. Un’ anima intossicata, che trasmette ondate di rabbia e nostalgia. Un altro pezzo vuoto; siamo in tanti. Cerco di impedire che il suo vuoto abbia il tempo di invadere anche il mio. Un’impresa insensata.

 

Pensiero per mio figlio

 

Ma il bambino che devo raggiungere mi aspetta; è già dentro me, aspetta da tempo quell’autentico regalo, aspetta me. Forse, quando noi pensiamo, loro lo sentono, lo sanno.. Lo spero, almeno.. Di certo qui abbiamo lo stesso unico pensiero, lo stesso desiderio, sollecitati come siamo da questo isolamento. Abbiamo imparato cosa significa la gioia dell’abbraccio, un contatto, un profumo, le mani nelle mani. Ce li facciamo bastare quei momenti brevi, quei magici momenti sani. Guardiamo con occhi diversi quel poco e quel niente; quel niente è tutto. E ogni assenza la colmiamo con l’orgoglio, aspettando una qualsiasi benevolenza che plachi questa condizione, come una protezione che aiuti e oggi anche una piccola parte di questo frammento natalizio che non sa come raggiungerci, perché qui non può, non arriva, non lo senti, non può esserci. Un Natale in prigione coinvolge altri sensi, un’impossibile suggestione.

 

Si tratta solo di resistere

 

Nei centimetri quadrati di cui dispongo, mi allungo disfatto di me; si tratta solo di resistere, ma c’è dell’ altro, molto di più di questo. Conquisto tutto lo spazio del mio letto in alto; il mio raggio d’azione è soltanto orizzontale.

Si compie naturale la metamorfosi del mio cervello trasformato in sismografo attivato, o felino su un ramo; così io, abbassato di specie, resto immobile in un’attesa guardinga, aspettando che si compia, "ferro su ferro" contro autentiche sbarre, il più importante dei riti del mattino. Mentre solo la tristezza avvolge ogni mio imbarazzo, irrompono puntuali, urgenti passi pesanti, con mani che vibrano nel ferro contro ferro in un impeto debordante, quasi che la forza qui, conti come nelle società tribali. Un frastuono di colpi che accompagna, amplifica, interrompe e ricompone come bestie in fuga, trascinando nel niente i miei sentimenti; l’eco impossibile del mio pensiero bianco.

 

Potesse mai esserci qualcosa che assomiglia a una breve tregua

 

Potesse mai esserci qualcosa che assomiglia a una breve tregua, una augurio di pace. Ma è un buongiorno diffidente, la diffidenza è una inquietudine banale. Gli sguardi, chiunque vedi, sembrano soltanto rimproveri viventi. Un sospetto costante, un augurio inedito che annienta ogni buon senso. Un muro definitivo.

Così, in questa strana allegria da reclusione la porta si rinchiude, ma resta nell’aria un profumo buono di caffè bollente ed io, se non è con gesto o preghiera silenziosa, rivolgo il mio sguardo tanto in alto da rimanere senza fiato. Vorrei tanto riuscire a trasformare l’eco di quei rimbalzi che fanno così male al cuore, anche soltanto in due parole buone: vale sempre la pena, nonostante gli errori e i nostri egoismi, di continuare a sperare, non lasciarsi andare, parole che mai come oggi, nessuno al posto mio potrebbe dire. Un anno nuovo sta per arrivare, facciamo tesoro di questo dolore e comunque vada, Buon Natale.

 

Mario Visintin

 

 

Al momento i miei figli li ho persi. La paternità è il vincolo affettivo e oggettivo che unisce il padre ai figli. Per essere buoni padri, ovvero educatori saggi, bisogna, a mio avviso, essere detentori di valori morali. Le disgrazie di un figlio sono la prova concreta del fallimento educativo del genitore, ma non vi sono scuole che insegnino il mestiere di padre. Nemmeno la Cepu ha inventato nulla al riguardo e così sarà fino alla fine del tempo! Educatori equilibrati lo si diventa con le esperienze maturate nel tempo, con le vittorie e le sconfitte che la vita quotidianamente ci propina. Bisogno, scarsa cultura, sono avversari temibili per l’educazione di un adolescente che diventerà uomo o donna. Danni ancor peggiori li producono le logiche consumistiche dalle quali siamo bombardati; la televisione con le sue "soap-opera" ci prospetta una vita di superficialità, nella quale comprensione e solidarietà non trovano posto. Così, un genitore detenuto può soltanto struggersi durante la carcerazione, demandando alla compagna l’onere educativo.

Quando venni arrestato la prima volta e andai incontro a un lungo periodo detentivo, avevo poche e confuse idee su come si educassero i figli. Ero e sono padre di due figli maschi; all’epoca il maggiore aveva undici anni e frequentava la V° elementare, il minore ne aveva sei. Più o meno consciamente mi era chiaro che il danno maggiore per la mia vita sbagliata era stato causato dalle troppe concessioni: denaro, scarso controllo nello studio, insufficiente attenzione ai miei problemi di bambino.

Per queste paure cercai di allevare i miei figli più spartanamente possibile, nel convincimento che benessere, agiatezza, affetto e stima altrui non dovessero essere considerati come beni acquisiti ma piuttosto come risultato positivo del nostro agire. Anche loro madre era di quell’idea perciò, quando venni a mancare io, lei proseguì su questo binario. Ma, nell’arrabattarmi per dar loro un’educazione migliore di quella che avevo avuto io, non avevo calcolato l’aspetto più logico e prevedibile: quel carattere censorio che di fatto avevano acquisito scartando superficialità, futilità e inutili astuzie, si ritorse contro di me. Ben presto capirono che, essendo detenuto, ero venuto meno alle logiche che, da padre, avevo imposto a loro. In concreto pensarono: - Eh sì, papà predica bene e razzola male! –

Così il dialogo tra me e loro divenne inesistente. Non contribuì certamente loro madre a mantenere viva la mia presenza, ma di questo non posso fargliene una colpa; non essendo stato un buon padre, non fui certo miglior marito. I valori generalmente si detengono in blocco unico: "non si conosce la pietà se non si conosce l’altruismo". Al momento i miei figli li ho persi.

A fronte della gioventù che non permette di cogliere le varie tonalità di una situazione, essi vedono bianco o nero; non esistono vie di mezzo, tinte sfocate. Sono i giudici più implacabili, non riconoscendo attenuanti, nemmeno quelle previste dal codice penale. Non ho né tempo né voglia di struggermi per il mio insufficiente operato; quando verificheranno in che cosa consiste il "mestiere di padre", forse capiranno anche gli sforzi che ho fatto quando questo compito è toccato a me.

Se non lo capiranno… pazienza. Io, con i mezzi che mi erano stati dati, ho cercato di fare il massimo.

 

Enrico Fantoni

 

Il padre invisibile

 

Impari presto a conoscerla quella sensazione, come una premonizione, quando sai che devi alzarti per inseguire quei giri di chiave stretti come viti, che la tua testa cerca di allontanare ma non scompaiono, continuano a girarti dentro, attraversandoti da parte a parte come gelidi frammenti di vetro e vanno a depositarsi nell’inconscio e nel cuore: e restano lì, aspettando di riorganizzarsi per farti ancora male, taglienti come solo i ricordi possono diventare. Ti cancellano dentro, ti segnano per sempre. È questo il firmamento di un uomo rinchiuso, un padre invisibile come ce ne sono tanti, forse troppi; giovani e meno giovani, che hanno sbagliato, certo, lasciati evaporare, allineati come bottiglie in poca luce, che non sanno più aprirsi, non possono farlo.

Quando la giustizia si misura in metri quadri, la prima prigione è il tuo cervello: prima c’è stato l’errore, il passo sbagliato, poi la riflessione, l’affetto perduto, il futuro imprevedibile, una continua oscillazione tra malessere, impazienza, sfiducia e paura. E infine il batticuore perché, quando si sta male, qui c’è un modo soltanto: si aspetta che passi e si tace.

 

Qui ognuno soffoca le emozioni dentro di sé

 

Per uno strano meccanismo, ognuno soffoca e comprime racchiudendo nel proprio pensiero ogni emozione, trattenendola in sé, inghiottendo ogni cosa; come se ogni corpo non fosse altro che un contenitore vuoto, come se, in qualche modo, inconsapevolmente o per pudore, trattenendole io possa impedire a tutte le mie lacrime di inondare quel che resta del mio ultimo pensiero celeste: il viso trasparente di un bambino, un viso più tenero di un sogno, nel colore dei suoi sacri undici anni. Il mio bambino, il solo aggancio con la vita, il suo colore, l’unico traguardo, straordinario, splendido. Straordinario come lo è ogni bambino; come sa esserlo in ogni suo abbraccio, atroce e necessario quando manca; per il modo come ti aspetta, anche quando le vacanze non significano più niente, quando ascolta le tue parole e non chiede niente, intuisce appena. Straordinario come lo è ogni sguardo di quella trasparenza rara nei bambini di ogni parte del mondo, straordinario come lo è ogni bambino che profuma di promessa, quella stessa che ho potuto dimenticare, a cui per folle suggestione non ho saputo tener fede quando ancora correvamo nella stessa ombra, gridavamo la stessa gioia, e insieme avevamo un grande sogno. Un sogno così bello che è oggi proibito anche soltanto pensare di poterlo sognare.

 

Al mio bambino ho portato in dono l’amarezza

 

Perché a Lui, al mio bambino, ho portato in dono l’amarezza, un’immensa assenza, un enorme buco vuoto, condannandolo come figlio di un padre invisibile a dover crescere difendendosi dalla tristezza; un vero insulto alla sua vita, al suo cuore, al suo nome e al suo amore. Se un giorno le ferite più superficiali potranno anche guarire, quelle radicate in fondo all’anima, quelle no, quelle resteranno sempre. Perché non è giusto, non si può esistere solo nei sogni; diventa una malattia, un eterno sfinimento. Mi chiedo cosa possa voler dire aspettare la mano di un padre che non viene mai. Penso spesso a cosa si deve provare prima di ricevere quella carezza che non so più trovare e allora il cuore mi batte così forte che da solo potrebbe aprirsi un varco nel petto per volare via, mentre cammino nel cortile di questo tempo inesistente che ormai si è impadronito di ogni cosa.

 

Spesso i bambini ci perdonano molto

 

Spesso i bambini ci perdonano molto e se ci giudicano lo fanno con la loro purezza ma quell’inspiegabile tradimento, quell’assurda assenza, di certo li tocca sul vivo e in profondità. Offende la loro dignità, la fiducia, stravolge la personalità stessa, generando tristezza e un’enorme incertezza…Ma se per un attimo o un giorno trovassi ancora un nuovo raggio di sole, un solo riverbero che dal buio di questa porta conducesse ancora al dialogo, allora potrei dirgli che se non si possono cambiare i fatti, io so di poter cambiare me stesso, so di poter trovare la forza di essere migliore perché nel mio cuore davvero non l’ho mai tradito.

 

Mario

Era mio padre…

 

Engrammi, istantanee, ricordi sciolti…sul papà. Il nome "Engramma" nasce da una suggestione scientifica raccolta dallo studioso Aby Warburg. Secondo la definizione data nel 1908 dal neurologo Richard Semon nel suo studio Mneme, ciascun evento esperienziale agisce sulla materia cerebrale lasciando su di essa una traccia: l’engramma. L’analisi che Semon applica alla materia nervosa dell’individuo, viene estesa da Warburg alla memoria culturale. L’engramma diventa, così, simbolo e immagine in cui si riconoscono una carica energetica e una esperienza emotiva che rimangono impressi nella memoria culturale come segno persistente.

Un giorno in redazione ciascuno di noi ha provato a fissare su un foglio i ricordi del suo papà che per primi gli venivano alla mente e ne è uscito un mosaico con tessere a vari colori: tenui, forti, delicati e bui.

 

Benjamin detto Chief dalla Nigeria

 

Mi ricordo bene com’è mio padre nonostante che è morto quando io ero ancora un bambino di 6 anni.La gente del mio paese lo chiamava con un soprannome "more days more dollars" che significa "più giorni più dollari". Era ricco e ben conosciuto nel mio paese. Aveva tre mogli e più di 40 figli. Mio padre era molto intelligente perché ha potuto controllare tre mogli e è riuscito a mantenere la pace fra noi suoi figli. Il suo segno particolare era il suo "pipe" (ndr. la pipa).

 

Mohamed dal Marocco

 

Quando ero ragazzino mi piaceva di salire in macchina con lui perché mi metteva sui suoi ginocchi e mi faceva prendere il volante e io in quel momento mi sentivo un uomo grande. Questo ricordo mi è rimasto fino adesso.

 

Anonimo italiano

 

È nato mio fratello: gelato gratis da mio padre. Mi accompagna in collegio. Trascina mia mamma. Litigo con mio fratello in casa di amici: terrore per il rientro. Con un ferro da stiro rompo un sopracciglio a mio fratello - castigo in attesa del rientro dall’ospedale - cinghiate. Mio padre abbracciato a un’entreneuse. "Il giorno in cui saprai stare fermo con la macchina in salita senza usare il freno sarai bravo".

 

Ivan

 

Lo ricordo, nella mia prima immagine: un omone che ti incuteva una certa paura, ma di certo buono come il pane. Lo ricordo quando io e mia madre andavamo nel bar del Giambellino, quartiere di Milano dove sono cresciuto. Lui era sempre con la stecca di biliardo in mano, la sua passione: il biliardo e il Milan. Lo ricordo quando mi portava allo stadio e, per non farmi pagare il biglietto, mi diceva di abbassarmi. Ricordo Lui e mia Madre partire con la loro Kadett e girare per l’Italia; era da poco in pensione, peccato ci ha lasciato troppo presto.

 

Mario

 

Un ricordo di mio padre è l’immagine del suo viso: i pomelli che si gonfiano a dismisura in maniera strana mentre grida forte e i suoi denti gialli che lo facevano sembrare quasi mai rilassato, mai disteso, sempre arrabbiato! L’esatto contrario di quello che mi sarebbe piaciuto

 

Massimiliano

 

Mio papà, la sua allegria, la simpatia e la voglia di vivere che trasmetteva faceva a pugni con la realtà. Non è mai stato un vero padre.

 

Antonio

 

Quante volte ti guardavo sulla fotografia e ti chiedevo perché non sono riuscito a conoscerti. È un grande e grosso rimpianto: non ti ho mai conosciuto da vivo, né tu mi hai mai visto, né avuto tra le tue braccia. Quando ero piccolo mi sei mancato tantissimo per tutto quello che avresti potuto darmi: affetto e amore paterno.

 

Turco, ovviamente dalla Turchia

 

Io non ci vado d’accordo con mio padre, forse per me mio padre non esisteva nemmeno fino al 1999. Io facevo il marinaio sulla nave: dopo 10 mesi stavo tornando a casa, avevo smesso di lavorare in Olanda sul "Porto di Flashing". Prima di salire sull’aereo avevo comprato regali per mia mamma e la mia fidanzata e dovevo comprare qualcosa per mio padre. Alla fine ho comprato un profumo di Davidoff per regalarlo a lui. Quando sono tornato nel mio paese la Turchia, i miei mi aspettavano all’aereoporto di Istanbul. Siamo tornati a casa e io ho cominciato a dare regali per tutti. Mio padre quando ha preso il profumo si è "emozionato" perché lui a me non ha mai regalato niente: i regali sempre li faceva la mamma. Lui ha detto che fino a 24 anni non mi ha mai regalato niente e io ho detto "non fa niente". Questo ricordo con mio padre non lo dimentico mai.

 

Carla

 

Il mio papà che cade in una bufera di neve: all’improvviso ho molta paura. Mi accorgo che non è invulnerabile.

 

Saibou dalla Nigeria

 

Mio papà che mi ha portato a scuola il primo giorno.

 

Rino

 

Un particolare ricordo di mio padre, ancora in salute ma già anziano è di quando tornava dalla città dove era andato a ritirare la pensione e mia madre lo sgridava perché regolarmente tornava un po’ "brillo". Lo ricordo quando paralizzato su una sedia giocava con il nostro cagnolino che lui aveva chiamato Tito. Quando replicata la paralisi e ormai immobile sulla sedia senza l’uso della parola e difficoltà di ingoiare lo dovevo imboccare e si arrabbiava se mi distraevo. In un’altra occasione volevo farlo divertire ma inavvertitamente lo avevo colpito con un calcio alla gamba dove gli è rimasto il segno per parecchio tempo. Lo ricordo sul letto di morte quando sembrava in coma ma, all’arrivo di mio zio, suo fratello, alzò le braccia per salutarlo con nostra meraviglia.

Il carcere contiene ladri, spacciatori, delinquenti, prostitute, rapinatori, tossici, trafficanti. Il carcere contiene uomini, donne, figli, padri, madri, fidanzate, mogli, mariti, amanti, zie e qualche nonno. Persone come noi.

 

 

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