La modificabilità del giudicato

 

La essenziale modificabilità del giudicato sulla pena

Università degli Studi di Firenze - Facoltà di Giurisprudenza

Relatore: Prof. Fabrizio Corbi - Tesi di laurea di: Maurizio Milani

 

L’applicazione del concorso formale e del reato continuato


Il processo di espansione applicativa dell’art. 81 c.p.

La rideterminazione della pena e la significativa incidenza sul giudicato sulla pena

Il processo di espansione applicativa dell’art. 81 c.p.

 

Con l’art. 671 c.p.p. l’istituto della continuazione criminosa giunge al termine di un processo di espansione applicativa rappresentando una delle novità più rilevanti del vigente codice in tema di competenza del giudice dell’esecuzione. Già con la L. 7 giugno 1974 n. 220 fu operata una mutazione dell’originaria previsione del reato continuato, come fattispecie a composizione omogenea, nella formulazione attuale che consente di configurare il vincolo della continuazione anche fra fattispecie incriminatrici fra loro del tutto eterogenee, aumentando così le ipotesi concrete di reato continuato. Inoltre, veniva estesa l’applicabilità del criterio sanzionatorio anche all’ipotesi del concorso formale di reati. È noto che la ratio dell’istituto sia ispirata direttamente al principio del favor rei, in quanto con la disposizione ex art. 81 c.p. il legislatore ha inteso correggere gli eccessivi effetti sanzionatori derivanti dall’applicazione del criterio del cumulo materiale in presenza di concorso, formale o materiale di reati. E ciò in considerazione del fatto che è stata posta in essere una sola azione od omissione, anche se la stessa ha poi provocato la violazione di diverse disposizioni di legge o più violazioni della medesima norma (art. 81 c. 1 c.p.); oppure quando più azioni od omissioni, anche in tempi diversi, hanno causato più violazioni della stessa norma o di diverse norme, in considerazione del fatto che l’agente, in realtà, si è determinato una sola volta in attuazione del medesimo disegno criminoso e quindi con unicità del fine (art. 81 c. 2 c.p.).

In definitiva, con la disciplina ex art. 81 c.p. viene applicato un trattamento penale più mite che trova la sua giustificazione nel fatto che la riprovevolezza complessiva dell’agente viene ritenuta minore che nei normali casi di concorso. Inoltre con l’art. 671 c.p.p., prevedendo il potere-dovere del giudice dell’esecuzione di applicare la disciplina ex art. 81 c.p. nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili, il legislatore ha inteso "... porre rimedio.. a eventuali lacune e carenze del giudizio di cognizione estendendo alla fase esecutiva la possibilità di realizzare quella stessa unificazione che, verosimilmente, sarebbe stata disposta con un’unica sentenza di condanna, se questa avesse investito tutti i reati commessi dal soggetto interessato". Tuttavia, prima di arrivare alla Legge Delega del 1987 con cui, all’art. 2 n. 97, venne stabilita la "possibilità di valutare anche in fase di esecuzione il concorso formale di reati e la continuazione, sempre che non siano stati precedentemente esclusi nel giudizio di cognizione", la giurisprudenza aveva seguito orientamenti diversi, nel senso, inizialmente, di ritenere applicabile il trattamento sanzionatorio de quo solo allorché, pur essendo divenute irrevocabili una o più sentenze relative a vari episodi costituenti il medesimo disegno criminoso, almeno uno fra questi fosse ancora sub judice: in tal caso poteva attuarsi la c.d. continuazione fra giudicato e giudicabile, nel senso che, nel pronunciare la sentenza di condanna per il fatto-reato ancora sub judice, era consentito applicare una pena calcolata secondo le regole dell’art. 81 del codice penale. Nell’ambito di questo stesso orientamento, la tendenza era stata poi, per anni, quella di limitare l’operatività della continuazione fra giudicato e giudicabile ai soli casi in cui fosse ancora sub judice il fatto-reato meno grave, in quanto, diversamente, sarebbe stato leso il principio dell’intangibilità del giudicato, riconoscendosi al giudice di rivalutare fatti già giudicati ai fini di determinare ex novo la pena-base.

Il progressivo incrinarsi del mito del giudicato penale, soprattutto relativamente alla pena, conseguente alla riforma della legislazione penitenziaria del 1975, portò al formarsi di una giurisprudenza diametralmente opposta nel senso di ritenere applicabile la disciplina della continuazione, rispetto ad un reato meno grave già giudicato con sentenza irrevocabile, anche da parte del giudice che procedeva all’accertamento del reato più grave. Questo sia perché l’identità del disegno criminoso costituisce l’unico elemento per la unificazione della pluralità di violazioni commesse dall’agente, sia perché il mito dell’intangibilità del giudicato deve essere superato "ogniqualvolta resterebbe sacrificato il buon diritto del cittadino" quale il diritto al trattamento più favorevole avente la sua fonte nell’art. 81 del codice penale.

Tale orientamento trovava poi conforto in una decisione della Corte costituzionale, la sentenza 9 aprile 1987 n. 115, con cui si affermava che l’identità del disegno criminoso costituisce l’unico e solo elemento unificatore e che, soprattutto, il giudicato non può impedire il diritto al trattamento più favorevole derivante dall’applicazione dell’art. 81 c.p.. A tale pronuncia ne seguì un’altra della Corte di cassazione che affermava la configurabilità della continuazione fra reati già giudicati con sentenza irrevocabile e reati da giudicare anche qualora questi ultimi fossero stati commessi successivamente al passaggio in giudicato della predetta sentenza. Ma il passo definitivo prima di arrivare alla Legge Delega del 1987 fu rappresentato dalla sentenza n. 267/1987 con cui la Corte costituzionale, pur ribadendo quanto già affermato nella sentenza n. 115 dello stesso anno, precisò che "nemmeno il giudicato può impedire di applicare l’istituto della continuazione all’intero sviluppo esecutivo dell’intero disegno criminoso". Su questo complesso panorama giurisprudenziale, si era progressivamente innestata l’attività del legislatore diretta a formulare sia le direttive contenute nelle leggi delega che le norme dei progetti preliminari, per poi terminare con il testo definitivo del codice di rito attualmente in vigore.

Con l’art. 632 del Progetto preliminare del 1978, e forzando decisamente la Legge Delega del 1974 che non contemplava alcunché in merito alla possibilità di applicare la continuazione criminosa in fase esecutiva, si dispose che il condannato con più sentenze o decreti irrevocabili poteva chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione dell’art. 81 c. 2 c.p.; inoltre, il giudice avrebbe diminuito la pena complessiva prendendo a base quella applicata con la condanna più grave. Il Progetto preliminare de quo si orientò, in definitiva, nel senso di individuare nell’esecuzione la sede più opportuna per recuperare l’operatività della continuazione sovrapponendo l’indagine sull’esistenza dei presupposti della continuazione all’intangibilità di più sentenze o decreti penali passati in giudicato. L’innovazione apparve a molti troppo audace, sollevando numerose critiche basate sull’assenza, nella prima Legge Delega appunto, di ogni indicazione in tal senso. Fra le reazioni più dure, quella della Commissione consultiva, per la quale "rendere elastico, incerto, suscettibile di modificazioni il giudicato, per di più a favore di chi è stato più di una volta condannato per reato, sembra riforma talmente rivoluzionaria, specialmente in momenti di incertezza come quelli presenti, da sconsigliarne perfino la previsione".

Nonostante che l’art. 632 suddetto non avesse trovato felice accoglienza - l’applicazione della continuazione in fase esecutiva sembrava una sorta di usurpazione dei poteri spettanti invece al giudice della cognizione - il disposto in questione aprì definitivamente la strada alla consapevolezza dell’avvenuto superamento di grandissima parte dei tradizionali limiti posti all’oggetto della cognizione del giudice della fase esecutiva.

Con la Legge Delega del 1987, finalmente si consentì di trasferire in sede esecutiva ogni questione relativa all’applicabilità della continuazione nonché del concorso di reati, superando definitivamente il problema dei rapporti fra giudicato e giudicabile in quanto la valutazione dell’esistenza dello stesso disegno criminoso veniva operata in relazione a provvedimenti tutti già irrevocabili. Come aveva sottolineato anche la Commissione consultiva a proposito del Progetto del 1978, "i notevoli benefici propri del reato continuato costituiscono un diritto dell’imputato, la cui concreta attuazione deve essere favorita il più possibile dalle norme di procedura e che non può essere sacrificata, in maniera così ampia, sull’altare della speditezza dei procedimenti".

Il mito del giudicato ha definitivamente perso la sua sacralità e la previsione dell’applicabilità di tale istituto da parte del giudice dell’esecuzione, consentita dall’attuale disposto dell’art. 671 c.p.p., è stata giustamente individuata quale conseguenza del principio del favor separationis in sede di cognizione: principio che ispirò il vigente codice di rito e che, in mancanza di detta norma, "pregiudicando il diritto dell’imputato di usufruire dei vantaggi derivanti dalla continuazione, avrebbe potuto incidere sui principi costituzionalmente garantiti del diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 c. 2 Cost.) e di uguaglianza (art. 3 c. 1 Cost.). D’altronde, sul punto occorre anche rilevare come la norma in esame, attribuendo poteri di vera e propria cognizione al giudice dell’esecuzione, si inserisca nel solco dell’esigenza di rendere pienamente giurisdizionale anche la fase dell’esecuzione penale. Esigenza che pare, a tal punto, del tutto soddisfatta, potendosi ora legittimamente concludere che il processo ha termine solo allorquando cessa l’esecuzione della pena. Alcuni, tuttavia, hanno posto in rilievo che l’aver conferito al giudice dell’esecuzione il potere di intervenire ex art. 671 c.p.p. sul calcolo della pena stessa, non deve far pensare ad una attribuzione allo stesso di funzioni e compiti che sono propri del giudice di cognizione: questo a pena di stravolgere la funzione propria dell’esecuzione che è e rimane quella dell’esecuzione delle pene e non della irrogazione delle stesse.

Nonostante si possa ragionevolmente escludere che la Legge Delega del 1987 abbia consentito la introduzione di un sistema bifasico puro, tale cioè da far risultare riservata alla sola fase della esecuzione la determinazione della pena (secondo l’originario Progetto preliminare del 1974, l’introduzione di un siffatto sistema era precluso dalla direttiva n. 79 che, riferendo l’esigenza della giurisdizionalizzazione alla modificazione ed esecuzione della pena, muoveva dal presupposto che quest’ultima fosse già stata inflitta con la sentenza divenuta irrevocabile), il potere-dovere del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena ex artt. 81 c.p. e 671 c.p.p. devolve, di fatto, alla giurisdizione esecutiva una sorta di funzione di controllo sulla perdurante legalità ed adeguatezza della decisione di merito, proiettando decisamente l’esperienza processuale verso la realizzazione quantomeno ideale di un processo penale bifasico.

L’intangibile allargamento degli orizzonti conoscitivi del giudice dell’esecuzione rimane, tuttavia, un dato di fatto incontrovertibile. Il "crollo" del giudicato sulla pena è stato agevolato moltissimo dalla norma ex art. 671 c.p.p., fornendo all’organo giurisdizionale in questione il potere di incidere in maniera considerevole sulla determinazione del quantum di pena che il condannato è chiamato ad espiare. E per realizzare detto obiettivo, egli è legittimato a compiere una parziale rivalutazione dell’elemento soggettivo del reato - tradizionalmente riservata in maniera esclusiva al giudice della cognizione, dalla quale dedurre il concorso formale o la continuazione criminosa, presupposti unici ed indefettibili per l’applicazione in fase esecutiva dell’art. 81 c.p..

 

La rideterminazione della pena e la significativa incidenza dell’istituto

 

In ossequio alla Legge Delega del 1987 (art. 2 n. 97), l’art. 671 c.p.p. contempla, quindi, l’applicabilità anche in sede esecutiva delle norme sul concorso formale di reati e sulla continuazione, con correlativa rideterminazione della pena. La normativa sul punto è caratterizzata dalla mancanza di una specifica delimitazione dei poteri di cui il giudice dell’esecuzione può avvalersi nell’espletamento delle operazioni necessarie per accertare il vincolo della continuazione: allo stesso vengono infatti estese le abituali attribuzioni tradizionalmente devolute al giudice dell’esecuzione (il comma terzo dell’art. 671 c.p.p. stabilisce che il giudice dell’esecuzione può concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e adotta ogni altro provvedimento conseguente), il tutto con l’unico limite di cui all’ultima parte del primo comma dell’art. 671 c.p.p. e cioè quello della previa esclusione dell’applicabilità della disciplina ex art. 81 c.p. da parte del giudice della cognizione.

Se nel giudizio di accertamento della responsabilità al giudice compete anzitutto verificare la fondatezza delle accuse, in fase esecutiva il giudice dell’esecuzione è titolare di una funzione integrativa ogni qualvolta, pur esistendone le condizioni, il giudice della cognizione abbia omesso di rideterminare la pena. La circostanza che la disciplina ex art. 81 c.p. non sia stata esclusa da parte del giudice della cognizione rappresenta, in effetti, l’unica preclusione stabilita dalla norma. Una parte della giurisprudenza ha interpretato estensivamente l’ultima parte del primo comma dell’art. 671 c.p.p., ancorando il limite in esame alle ipotesi in cui l’esclusione, da parte del giudice di cognizione, fosse fondata sulla mancanza d’identità del disegno criminoso, e non su altre ragioni, quali l’esser stato il secondo reato commesso successivamente alla prima condanna, o la minore gravità del precedente giudicato. In senso contrario, invece, l’orientamento di altra giurisprudenza che ritiene irrilevanti le motivazioni che hanno determinato il giudice della cognizione ad escludere il vincolo della continuazione. Questa seconda linea interpretativa sembra da preferire non solo per aderenza al tenore del dato testuale (il "non aver escluso" della norma significa semplicemente che il giudice non si è pronunciato con un espresso provvedimento negativo sul punto), ma anche, e soprattutto, in quanto risponde al processo di espansione applicativa dell’istituto al di là dei confini del giudicato, all’insegna della sempre maggiore tutela del favor rei.

Una volta introdotta la possibilità di applicare la disciplina del concorso formale o del reato continuato in fase esecutiva, si riconosce al giudice dell’esecuzione il potere-dovere di rideterminazione completa della pena in aumento, in una rappresentazione globale del numero e dell’importanza di tutte le violazioni legate dal vincolo della continuazione e della rideterminazione fra esse del reato più grave, alla stregua del criterio ex art. 187 disp. att. c.p.p. superando e travolgendo così la valutazione frammentaria e parziale avvenuta in fase cognitiva. Quanto ai limiti concreti, l’art. 671 c. 2 c.p.p. stabilisce che la pena complessiva non deve superare la somma delle singole pene inflitte con i vari provvedimenti e solo l’art. 187 disp. att. c.p.p. fornisce un’indicazione che colma in qualche modo la genericità del tenore dell’art. 671 c.p.p.: per l’applicazione in executivis della disciplina ex art. 81 c.p., si considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave, anche quando per alcuni reati si è proceduto con rito abbreviato. Si tratta di un segnale della volontà del legislatore di limitare la discrezionalità del giudice dell’esecuzione, quantomeno nel valutare, in presenza del giudicato, la gravità delle singole violazioni integranti la serie criminosa, al fine di individuare quella più grave per poi operare secondo lo schema dell’art. 671 del codice di rito. La determinazione della pena di cui si parla nell’art. 671 c. 2 c.p.p. consiste, quindi, nell’aggiungere alla pena base, rappresentata dalla più grave fra le pene irrogate nei vari provvedimenti, il quantum di pena che il giudice dell’esecuzione riterrà equo per il caso singolo: la pena complessiva, inoltre, dovrà essere inferiore alla somma aritmetica delle singole pene riportate (art. 671 c. 2 c.p.p.), da un lato, e, dall’altro, non superiore al triplo della pena base (art. 81 c. 1 c.p.). In definitiva, il giudice dell’esecuzione sembra non avere molta discrezionalità nella individuazione della più grave delle violazioni commesse.

Tuttavia è palese la indubbia ampiezza della portata della norma ex art. 671 c.p.p. che deve essere ricompresa in una serie di fenomeni tra loro assimilati da un unico comune denominatore: l’anomalia di una attribuzione che rompe lo schema delle funzioni istituzionali del giudice dell’esecuzione e della magistratura di sorveglianza, per coagulare un inedito potere integrativo di merito post rem iudicatam. Il tenore dell’art. 671 c.p.p. si inserisce nella normativa dell’esecuzione penale come uno dei suoi aspetti più qualificanti, riconoscimento indiscutibile della necessità di un giudizio cumulativo in ordine alla pena, sia ai fini di una più equa definizione della posizione di chi commette più reati, che ai fini dell’osservanza del principio di uguaglianza il quale sarebbe decisamente violato in un sistema processuale di stampo accusatorio improntato sulla separazione dei procedimenti. Nella Relazione al Progetto preliminare del codice di rito attualmente in vigore si sottolinea, infatti, "l’inaccettabilità delle preclusioni e degli sbarramenti previsti dal sistema previgente per la valutazione in sede esecutiva della posizione globale del condannato" e la conseguente "necessità di rimediare alle storture poste in atto dalla celebrazione contemporanea in sedi diverse di vari procedimenti penali a carico degli stessi imputati per fatti simili e commessi sotto la spinta di un’identità criminogena evidente".

Si è in proposito parlato di "giudicato aperto", come a voler sottolineare che i "contenuti sanzionatori" della sentenza definitiva sono "sempre risolubili per effetto della sopravvenienza processuale di nuovi fatti riportabili entro lo schema tracciato da tale norma". Naturalmente, pur essendo ormai superato nel nostro ordinamento il dogma dell’intangibilità del giudicato in punto di pena, non vi sono dubbi sul fatto che il giudice dell’esecuzione non possa infrangere il limite del giudicato sotto il profilo dell’accertamento del fatto e della responsabilità penale dell’agente e si limiti a rideterminare la pena senza compiere nuove ed ulteriori valutazioni: il giudice ha, infatti, a disposizione un panorama probatorio precostituito e rappresentato, ai sensi dell’art. 186 disp. att. c.p.p., dalle sentenze e decreti irrevocabili portate ad esecuzione.

 

 

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