La modificabilità del giudicato

 

La essenziale modificabilità del giudicato sulla pena

Università degli Studi di Firenze - Facoltà di Giurisprudenza

Relatore: Prof. Fabrizio Corbi - Tesi di laurea di: Maurizio Milani

 

Le fattispecie modificative del rapporto di esecuzione

 

La liberazione condizionale

L’affidamento in prova al servizio sociale

La detenzione domiciliare

Il regime di semilibertà

La liberazione anticipata

Le misure c.d. ab initio ed il nuovo art. 656 c.p.p.

La normativa restrittiva del 1991/1992: ratio della disciplina

L’ergastolo: una pena "fantasma"?

La liberazione condizionale

 

a) Natura e storia dell’istituto.

 

L’istituto della liberazione condizionale fu per la prima volta introdotto, in Europa e precisamente in Inghilterra, nel 1853, diffondendosi successivamente in altre legislazioni tra cui il codice penale italiano del 1889. Assieme all’affidamento in prova al servizio sociale, questa misura integra gli estremi di una vicenda modificativa del rapporto punitivo caratterizzata anzitutto dal venir meno della privazione della libertà personale in struttura carceraria, nonché dalla sottoposizione del condannato ad una serie di controlli e sostegni in ambiente libero. In particolare, la liberazione condizionale e l’affidamento in prova al servizio sociale rientrano nel quadro del c.d. probation system che trae origine, storicamente, da decisioni giudiziali adottate, nel corso del XIX secolo, negli Stati Uniti d’America ed in Inghilterra. Con l’attuazione del probation l’autorità statuale rinuncia al principio di indefettibilità e di certezza della pena. E ciò in funzione di un recupero anche appena probabile, o solo possibile, del reo. A differenza dei paesi di Common Law, in cui lo sviluppo di questi strumenti è avvenuto soprattutto sotto la pressione dei giudici, nell’Europa continentale il probation si è sviluppato sempre sulla base di formali strumenti legislativi e muovendo dall’istituto di sospensione condizionale della pena. La liberazione condizionale viene infatti introdotta nel nostro ordinamento con il Codice Zanardelli del 1889 a favore del detenuto che "abbia tenuto tale condotta da far presumere il suo ravvedimento" (art. 16). Il legislatore di allora considerava la liberazione condizionale come stadio di esecuzione della pena soprattutto alla luce della collocazione dell’istituto nel titolo "Delle pene". Con il Codice Rocco del 1930, invece, l’istituto viene configurato come misura premiale collegata, in rapporto di dipendenza causale, alla buona condotta.

Le due diverse concezioni adottate nei due codici riflettono le difficoltà di inquadramento giuridico che hanno accompagnato le fasi iniziali dello sviluppo dell’istituto in questione. Alcuni ritenevano, in linea con l’orientamento del Codice Zanardelli, che la liberazione condizionale fosse una fase attenuata in cui alla pena in istituto si sostituiva la libertà vigilata: il mutamento attenendo solo alle modalità di esecuzione. Altri, invece, in linea con il tenore del codice Rocco, erano concordi nel ritenere che la libertà condizionale, per quanto vigilata, dovesse pur sempre considerarsi come libertà, appunto, e come tale non equiparabile o sostituibile alla pena detentiva, neppure parzialmente.

In entrambi i casi, tuttavia, nelle intenzioni del legislatore la liberazione condizionale era considerata quale strumento utile a contribuire, specie sotto il profilo disciplinare, alla gestione degli stabilimenti penitenziari. A tal proposito, a conferma anche della sempre avvertita esigenza di dover risolvere problemi legati alla numero della popolazione carceraria, una costante che ha accompagnato lo sviluppo di questo istituto è quella di una progressiva riduzione dei requisiti richiesti per la sua concessione. Di notevole rilevanza infatti la L. 25 novembre 1962 n. 1634 con cui l’applicazione dell’istituto venne estesa anche ai condannati all’ergastolo.

Anche con l’entrata in vigore della Costituzione, per molti anni, la liberazione condizionale ha costituito per il detenuto l’unica possibilità di ottenere la scarcerazione prima del termine finale della pena. Nonostante questo, la liberazione condizionale, pur non essendo "topograficamente" collocata all’interno dell’ordinamento penitenziario, ottiene il pieno riconoscimento come misura alternativa alla detenzione solo con la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 1974 e con la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. Con la prima la Corte, dichiarando l’illegittimità dell’art. 43, R.D. 28 maggio 1931 n. 602 che attribuiva al ministro di grazia e giustizia la facoltà di concedere la liberazione condizionale, contribuì a trasformare l’istituto in questione da semplice beneficio in vero e proprio diritto soggettivo, in quanto al provvedimento amministrativo (decreto ministeriale) avente carattere discrezionale, fu sostituito un provvedimento giurisdizionale (la L. 12 febbraio 1975 n. 6 infatti, colmando il vuoto normativo creato dalla succitata sentenza, conferì la competenza a concedere e revocare la liberazione condizionale alle corti d’appello; solo con la L. 663/1986, la competenza fu attribuita ai tribunali di sorveglianza). Successivamente, con la legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, che espressamente introdusse le misure alternative alla detenzione, la liberazione condizionale venne a pieno titolo affiancata ai nuovi istituti ivi previsti.

Da allora giurisprudenza e legislazione si sono consolidate nel ritenere la liberazione condizionale un istituto che può ben considerarsi misura eminentemente rieducativa e costituente, di norma, l’ultima fase del trattamento risocializzante. Il parallelismo tra la liberazione condizionale e le misure alternative si desume inoltre dalla attribuzione della competenza alla concessione ed alla revoca del beneficio, come operata dalla L. 663/1986, al tribunale di sorveglianza, con conseguente assunzione a primario rilievo degli elementi relativi alla osservazione ed al trattamento penitenziario.

 

b) Presupposti.

 

Al fine della concessione della liberazione condizionale occorre accertare la sussistenza delle seguenti condizioni: il ravvedimento del reo, il decorso del tempo di espiazione prescritto, il risarcimento del danno. Per quanto riguarda il ravvedimento, si è sempre osservato che lo stesso, ancora prima che un presupposto, sia anzitutto la ragione stessa dell’istituto dalla cui sussistenza dipende la fondatezza della domanda più che la sua ammissibilità. Per la dimostrazione della sussistenza di tale presupposto non può aversi riguardo ad una normale buona condotta, come prevedeva invece la formulazione originaria dell’art. 176 del Codice Rocco, occorrendo invece comportamenti positivi e sintomatici al cui riguardo sono orientativi quelli di cui all’art. 71 reg. esec. (particolare impegno nello svolgimento del lavoro, particolare impegno e profitto nei corsi scolastici e di addestramento professionale, particolare sensibilità e disponibilità nell’offrire aiuto ad altri detenuti o internati, per sostenerli moralmente nei momenti di difficoltà di fronte a loro problemi personali, ecc.).

Considerando che l’istituto in questione rappresenta il momento terminale di una scala progressiva di strumenti di reinserimento sociale e che l’ammissione al regime di semilibertà si pone, di norma, come momento anteriore sul piano cronologico così come sul piano dell’indagine della personalità, gli strumenti di trattamento penitenziario e rieducativo in particolare trovano in questo caso la loro massima articolazione valutativa.

Per quanto concerne il secondo presupposto, l’art. 176 c.p. stabilisce che il condannato deve aver espiato almeno trenta mesi o quel maggior tempo che costituisce almeno la metà della pena inflitta, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni. Se si tratta di recidivo qualificato, e la recidiva sia stata contestata all’imputato e ritenuta in sentenza, il condannato deve aver scontato almeno quattro anni di pena e non meno dei tre quarti della sanzione totale, ferma sempre la condizione che la parte residua non ecceda gli anni cinque. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena (termine detentivo diminuito dalla L. 10 ottobre 1986 n. 663: fino ad allora il termine era di ventotto anni).

Per quanto riguarda il computo della pena complessiva, su cui poi deve essere verificata l’espiazione della parte prevista dalla legge, la stessa è quella che risulta al netto delle detrazioni per eventuali condoni. Relativamente poi al computo della pena minima espiata ai fini della concessione della misura, si suole richiamare il c.d. principio della presunzione di espiazione relativo alla concessione della liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 c.4 ord. penit., cosicché la parte di pena detratta ai sensi del primo comma dell’art. 54 si considera come pena scontata (lo stesso vale per i condannati all’ergastolo). Il significato di questa presunzione si collega al contenuto incentivante rispetto alla partecipazione all’opera di rieducazione come connotato preminente della liberazione anticipata. Infine, anche la rimanenza di pena non superiore a cinque anni è da calcolarsi al netto della riduzione concessa per liberazione anticipata: l’art. 176 c.p. fa infatti riferimento al dato oggettivo della pena rimanente.

Il terzo presupposto si sostanzia nell’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato (artt. 185, 186 c.p.), salvo che il condannato dimostri di trovarsi nella impossibilità di adempiere. In particolare, l’interessato deve fornire la prova dell’avvenuto risarcimento del danno o, in mancanza, dell’impossibilità di adempiere tali obbligazioni. Tale eventuale impossibilità deve essere intesa non solo come naturale impossibilità economica, ma considerata anche in rapporto ad altre cause come l’irreperibilità del creditore, la rinunzia o la prescrizione del credito, il comportamento del creditore che impedisca od ostacoli il soddisfacimento totale o parziale dell’obbligazione.

 

c) Concessione, esecuzione ed esito della misura.

 

Accertata la sussistenza dei presupposti di cui sopra, il giudice, nella fattispecie il tribunale di sorveglianza competente sull’istituto in cui è ristretto l’interessato al momento della presentazione della domanda, ha l’obbligo di concedere la liberazione condizionale. L’art. 682 c. 2 c.p.p. stabilisce inoltre che se la misura non è concessa per difetto del requisito del ravvedimento, la richiesta non può essere riproposta prima che siano decorsi sei mesi dalla sopravvenuta irrevocabilità del provvedimento di rigetto. Una volta ammesso alla misura alternativa, il liberato condizionalmente è sottoposto, a cura del magistrato di sorveglianza, alle prescrizioni proprie del regime di libertà vigilata ai sensi degli artt. 177 e 230 n. 2 c.p.. Deve peraltro precisarsi che l’applicazione delle prescrizioni proprie della libertà vigilata (frequentazione di determinati luoghi o ambienti, orari di reperibilità presso la propria abitazione, obbligo di sottoporsi alla sorveglianza della pubblica sicurezza e di tenere contatti con il Centro dei servizi sociali, ecc.) ha il solo scopo di fissare le regole di comportamento in ambiente libero e non si tratta dell’applicazione della misura di sicurezza in senso stretto. Il regime di libertà vigilata ha durata eguale a quella della pena residua al momento della scarcerazione ovvero, se si tratta di condannato all’ergastolo, pari a cinque anni dalla data di provvedimento di concessione (art. 177 c. 2 c.p.). Durante il periodo di libertà vigilata permane il rapporto di esecuzione: la pena si considera scontata al termine originario e non a quello della scarcerazione. Secondo una tesi contraria, invece, nel periodo di liberazione condizionale si determina una sorta di quiescenza o di cessazione degli effetti del rapporto di esecuzione. Resta pur sempre il fatto che il liberato condizionalmente versa nella situazione di un condannato all’espiazione della pena in forma alternativa.

Ai sensi dell’art. 177 c.p. è il tribunale di sorveglianza l’organo competente per la revoca della liberazione condizionale. La revoca opera di diritto a seguito della commissione di un delitto o contravvenzione della stessa indole del reato per cui si è riportata la condanna. Nel caso, invece, di violazione di una o più prescrizioni della libertà vigilata, il tribunale, previa trasmissione della proposta di revoca da parte del magistrato di sorveglianza, valuterà la gravità della violazione, spettando all’interessato la possibilità di dimostrarne l’insussistenza. Infatti mentre per quel che concerne l’operatività della prima condizione risolutiva si ritiene sufficiente la sussistenza di una sentenza passata in giudicato che abbia accertato definitivamente il reato posto in essere dal liberato nel periodo di prova, per la seconda, ai fini della revoca, non si considera alla stessa stregua una mera informativa degli organi addetti alla sorveglianza circa le trasgressioni delle prescrizioni contenute nell’ordinanza precettiva. Sempre in tema di revoca, l’art. 177, così come modificato dalle sentenze della Corte costituzionale del 25 maggio 1989 n. 282 e del 4 giugno 1997 n. 161, stabilisce che spetta sempre al tribunale di sorveglianza determinare la pena detentiva ancora da espiare tenuto conto del tempo trascorso in libertà condizionata e delle restrizioni di libertà, tutto ciò con apprezzamento del comportamento serbato dall’interessato.

La Corte costituzionale è inoltre intervenuta dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 177 c. 1 ultimo periodo c.p., nella parte in cui non prevede che il condannato all’ergastolo possa essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio ove ne sussistano i presupposti. La pena dell’ergastolo, infatti, per il suo carattere di perpetuità, si distingue dalle altre pene restrittive della libertà personale: vietare al condannato la riammissione alla liberazione condizionale equivarrebbe ad escluderlo permanentemente dal processo rieducativo e di reinserimento sociale, in palese contrasto con l’art. 27 c. 3 Cost.. Decorso il tempo della pena residua, oppure decorsi i cinque anni dall’emissione del provvedimento se si tratta di condannato all’ergastolo, senza che sia intervenuta causa di revoca, la pena rimane estinta e sono revocate le misure di sicurezza personali ordinate con sentenza di condanna o provvedimento successivo (art. 177 c. 2 c.p.). Sarà poi il tribunale di sorveglianza ad emettere declaratoria di estinzione della pena (art. 236 c. 1 disp. att. c.p.p.).

 

d) Ipotesi particolari.

 

Per i condannati che commisero il reato quando avevano un’età inferiore a diciotto anni, l’art. 21 D.L. 20 luglio 1934 n. 1404 istitutivo del tribunale per i minorenni stabilisce che la liberazione condizionale può essere concessa in qualunque momento e qualunque sia la durata della pena detentiva inflitta. Se al momento della concessione, l’interessato è minore degli anni ventuno, in luogo della libertà vigilata può essere applicato l’internamento in riformatorio giudiziario; se invece l’interessato è maggiore di tale età, lo stesso può essere assegnato ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro. Il provvedimento viene adottato dal tribunale per i minorenni in funzione di tribunale di sorveglianza ed il tempo trascorso in tali stabilimenti viene computato, in caso di revoca, nella durata della pena.

Per i militari, il codice penale militare di pace all’art. 71 prevede la liberazione condizionale per i condannati alla reclusione militare per un tempo superiore a tre anni che abbiano scontato almeno tre anni di pena costituenti almeno la metà (o tre quarti, se recidivo) della pena complessiva ed abbia dato prova di buona condotta. La parte di pena residua non deve superare i tre anni. Èevidente una semplificazione delle condizioni di concessione: è sufficiente, infatti, la sussistenza dell’elemento oggettivo dell’avvenuta espiazione di una determinata quantità di pena, anche in rapporto proporzionale con quella complessiva in esecuzione, nonché dell’elemento soggettivo della provata buona condotta dell’interessato. La competenza, in questi casi, deve ritenersi attribuita al tribunale militare di sorveglianza.

Infine, per quanto riguarda i pentiti in relazione a reati con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, gli artt. 8 e 9 della L. 29 maggio 1982 n. 304, introduttiva di misure per la difesa dell’ordinamento costituzionale, stabilisce che il condannato che si è dissociato o che collabori (artt. 2 e 3 della stessa legge) e che durante l’esecuzione abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento può essere ammesso al beneficio se ha scontato metà della pena irrogata. Tale disposizione viene applicata anche se la condanna è intervenuta prima dell’entrata in vigore della L. 304/1982.

Se il liberato commette un delitto non colposo punito con la reclusione superiore nel massimo a quattro anni o se risulta che la misura è stata ottenuta a mezzo di dichiarazione accertata poi come falsa, la liberazione condizionale è revocata in ogni tempo con ciò significando che il decorso del tempo dell’intera pena non opera come causa estintiva della stessa, come invece previsto dall’art. 177 del codice penale. In realtà questa ipotesi particolare è ben lungi da rappresentare una specie dell’omonimo istituto generale di cui agli artt. 176 e 177 c.p.: mentre l’art. 177 parla di revoca e di estinzione della pena, l’art. 9 della legge in questione parla solo della revoca. La dizione "in ogni tempo" sta a conferma di un’omissione importante: per i condannati ammessi alla liberazione condizionale come pentiti non è prevista la dichiarazione di estinzione di pena. Ecco che in questo modo la misura ex art. 8 della legge n. 304 sembra una pura e semplice sospensione della pena in esecuzione (senza neppure la sottoposizione alla libertà vigilata), piuttosto che una misura alternativa, vera e propria.

 

L’affidamento in prova al servizio sociale

 

a) Natura dell’istituto.

 

Da sempre è stata la più ampia misura alternativa, in quanto strutturalmente ideata nel senso di evitare, nella misura massima possibile, i danni derivanti dal contatto con l’ambiente penitenziario e dalla condizione di totale privazione della libertà. La misura dell’affidamento in prova rientra, come anche la liberazione condizionale, nello schema del probation system e, più precisamente, nell’ipotesi del probation penitenziario. La misura in questione persegue essenzialmente una finalità di recupero del condannato, una risocializzazione che si realizza attraverso un trattamento assistito in ambiente libero, con la imposizione di prescrizioni sia di contenuto positivo (di incentivazione rieducativa) che di contenuto negativo (di neutralizzazione di potenziali fattori criminogeni).

Fra le varie misure alternative, l’istituto in questione rappresenta uno di quelli su cui il legislatore è intervenuto con maggiore frequenza. Introdotta dalla legge di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, l’applicazione della misura era collegata alla compresenza di circostanze oggettive quali la brevità della pena da scontare, a cui tra l’altro non doveva far seguito una misura di sicurezza detentiva, nonché la natura del reato commesso (la misura era infatti esclusa per i condannati ai reati di rapina e rapina aggravata, estorsione ed estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione); e di circostanze soggettive in quanto l’art. 47 c. 3 ord. penit. prevedeva originariamente un periodo minimo di osservazione scientifica della personalità pari a tre mesi. Da allora l’art. 47 ord. penit. ha subito frequenti modifiche fino alla integrale rielaborazione del testo normativo avvenuta con la L. 10 ottobre 1986 n. 663. A seguito della stessa venne aumentato il limite di pena detentiva per l’ammissibilità della misura; venne eliminato ogni impedimento attinente alla natura del reato commesso e venne confermato in mesi uno (riduzione del resto già operata con la L. 21 giugno 1985 n. 297) il periodo minimo di osservazione in istituto. La misura peraltro divenne concedibile, senza osservazione della personalità, ancor prima dell’inizio dell’esecuzione penale, nei confronti di chi avesse presofferto un periodo di custodia cautelare ed avesse successivamente tenuto un buon comportamento in libertà. La Corte costituzionale stabiliva poi con sentenza 22 dicembre 1989 n. 569 che della misura poteva usufruire anche chi non sia stato mai in carcere, purché risultasse in possesso delle altre condizioni di legge. La nuova formulazione dell’art. 47 ord. penit. eliminò, in definitiva, tutte le ipotesi ostative contemplate nel testo originario. Attualmente, l’unica ipotesi di preclusione della misura dell’affidamento (nonché della semilibertà) si ha nel caso di pena detentiva derivante da conversione di pena sostitutiva (semidetenzione o libertà controllata) disposta dal tribunale di sorveglianza per violazione delle prescrizioni (artt. 66 e 67 L. 24 novembre 1981 n. 689).

L’ennesima ed ultima modifica risale solo all’anno scorso con la L. 27 maggio 1998 n. 165, c.d. "Legge Simeone", che ha prodotto un importante cambiamento in tema di esecuzione di pene detentive (art. 656 c.p.p.) e, conseguentemente, anche in tema di modalità di concessione dell’affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertà. Ed è proprio a causa del fatto che l’affidamento in prova è stato sempre più sfruttato come strumento di sfoltimento della popolazione carceraria e di perpetuazione di una indiscriminata fuga dalla sanzione che alcuni hanno posto decisamente l’accento sull’indebolimento della prevenzione generale e augurato il ritorno ad una maggiore afflittività della pena. Vero è, tuttavia, che il legame tra le vicende esterne ed il carcere sta a dimostrare l’esistenza di un meccanismo di collegamento fra pena detentiva da eseguire in carcere ed affidamento in prova, e più in generale misure alternative alla detenzione, che vale a rafforzare ancora di più l’idea che le stesse partecipano dell’essenza ontologica della pena ed in definitiva non cessano di contribuire a realizzare quell’effetto risocializzativo che, in base ai canoni dell’individualizzazione e della progressività del trattamento, consente di rinforzare la personalità del condannato allo scopo di reimmetterlo nel mondo c.d. libero.

 

b) Presupposti.

 

Presupposto per la concessione della misura è che la pena inflitta non superi i tre anni. Il provvedimento viene adottato sulla base dei risultati dell’osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi in cui si può ritenere che la misura contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. Tale osservazione può essere omessa quando il condannato, dopo la commissione del reato (e non necessariamente dopo un periodo di custodia cautelare, come era previsto prima della novella del 1998) ha serbato un comportamento tale da consentire la concessione della misura (art. 47 cc. 1, 2, 3 ord. penit.). Per quanto riguarda il limite di pena, l’individuazione del concetto di "pena detentiva inflitta" ha dato luogo, fin dall’inizio, a rilevanti contrasti in sede sia giurisprudenziale che dottrinale. Il contrasto ebbe inizialmente a svilupparsi fra la impostazione sostenuta dalla maggioranza delle sezioni (poi tribunali) di sorveglianza in base alla quale la pena doveva essere considerata al netto del condono

; e la impostazione secondo cui la pena da considerare era quella così come determinata, al di là di fatti estintivi, nella sentenza di condanna o nel provvedimento di unificazione, in fase esecutiva, di più sentenze sanzionatorie. Questo contrasto portò alla decisione adottata dalla Corte di cassazione, a sezioni unite, in data 26 aprile 1989, con cui la stessa pervenne ad affermare la irrilevanza delle cause estintive della sola pena, come l’indulto, "in quanto la pena inflitta rimane sempre quella irrogata con la sentenza o le sentenze di condanna, influendo tali cause estintive solo nella determinazione della pena in concreto da eseguire", pervenendo così alla soluzione non favorevole al condannato.

Con tale pronunzia ebbe corso una uniforme applicazione della norma fino al sopravvenire di una fondamentale pronuncia della Corte costituzionale. Quest’ultima infatti con sentenza 11 luglio 1989 n. 386 dichiarava "illegittimo per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. l’art. 47 c. 1 L. 26 luglio 1975 n. 354, nella parte in cui non prevede, nell’ipotesi di pene cumulate o espiate senza soluzione di continuità, la detraibilità di pene espiate dal computo delle pene rilevante ai fini della determinazione del limite di tre anni". Questa ulteriore pronuncia ha destato vasta eco in dottrina e ha condizionato la soluzione del problema ermeneutico fin qui considerato nel senso di imporre quella più liberale. A detta statuizione le Sezioni unite penali non hanno potuto che aderire affermando che nella determinazione della pena vanno detratte sia le pene condonate che quelle già espiate.

A rimuovere poi ogni possibile dubbio, è intervenuto il D.L. 8 giugno n. 306, recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, convertito nella L. 7 agosto 1992 n. 356, il cui art. 14bis reca un’interpretazione autentica dell’art. 47 c.1 ord. penit. il cui disposto "va interpretat[o] nel senso che deve trattarsi di pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell’applicazione di eventuali cause estintive". A questa interpretazione è seguito un orientamento giurisprudenziale costante, secondo il quale si è ammesso, ai fini della concedibilità della misura, la detraibilità del c.d. presofferto anche nei confronti di condannati a pena originariamente superiore al tetto di tre anni per reato unico. La Corte costituzionale, con successive pronunce, ha inteso evidenziare che l’unico elemento rilevante nella valutazione circa la ammissibilità della misura rimane la quantità di pena che il soggetto deve ancora scontare, indipendentemente dalla condanna inflitta originariamente. Si assiste così ad una modifica strutturale dell’affidamento in prova da misura alternativa alla detenzione (anche) a modalità di esecuzione della parte finale di qualsiasi pena.

Per quanto riguarda infine il periodo minimo di osservazione scientifica in istituto, sempreché non ricorrano gli estremi per l’applicazione del comma terzo dell’art. 47 ord. penit. (ipotesi in cui il condannato, dopo la commissione del reato, abbia serbato un comportamento tale da consentire la concessione della misura), il mese che la legge prevede deve consentire al tribunale di sorveglianza la formulazione di una prognosi tale da far ritenere che la misura contribuisca alla rieducazione del condannato ed assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati (art. 47 c. 2 ord. penit.).

 

c) Concessione, esecuzione ed esito della misura.

 

La misura dell’affidamento in prova al servizio sociale può essere concessa sia prima che dopo l’inizio dell’esecuzione della pena. Nel primo caso, l’art. 656 c.p.p. stabilisce che per pene non superiori a tre anni o a quattro anni nei casi di reati in materia di stupefacenti, anche se costituenti residuo di maggior pena, il pubblico ministero dispone d’ufficio con decreto la sospensione dell’esecuzione. Entro trenta giorni dalla consegna dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione, il condannato può presentare istanza volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione, tra cui anche l’affidamento in prova. In caso di mancata attivazione entro il termine suddetto, l’esecuzione della pena avrà corso immediato. L’istanza deve essere presentata al pubblico ministero il quale trasmette gli atti al tribunale di sorveglianza competente, in relazione al luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero, e che decide entro quarantacinque giorni dal ricevimento.

L’art. 47 c. 4 ord. penit. prevede invece l’ipotesi in cui l’istanza sia proposta dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena. In questo caso il magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo di esecuzione, cui l’istanza deve essere rivolta, può sospendere l’esecuzione della pena ed ordinare la liberazione del detenuto, quando sono offerte indicazioni circa la sussistenza sia dei presupposti per l’ammissibilità della misura che di un grave pregiudizio derivante dal protrarsi dello stato detentivo, e non vi sia pericolo di fuga. La sospensione dell’esecuzione opera fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, cui il magistrato trasmette immediatamente gli atti, e che decide sempre nel termine di quarantacinque giorni. Se l’istanza non viene accolta, riprende l’esecuzione della pena previamente sospesa e non potrà essere più accordata nuova sospensione anche se rimane impregiudicata la facoltà per il condannato di presentare nuove istanze.

Nel disporre l’affidamento in prova, il tribunale di sorveglianza determina, con processo verbale separato dall’ordinanza di concessione, tutte le prescrizioni che il soggetto è tenuto a seguire e che, nel corso dell’affidamento, potranno essere modificate dal magistrato: da quelle inerenti i rapporti con il servizio sociale, la dimora, la libertà di locomozione, a quelle inerenti il soggiorno in uno o più comuni, a quelle, infine, riguardanti il sostegno alle eventuali vittime del suo reato e l’adempimento degli obblighi di assistenza familiare (artt. 47 c. 5, 6 ,7 ,8, 9, 10 ord. penit.). Tutte le prescrizioni devono naturalmente contribuire alla rieducazione della persona ma, allo stesso tempo, tener conto anche della sua pericolosità. Secondo l’art. 91 reg. esec., condizione di efficacia dell’ordinanza dispositiva dell’affidamento in prova è la sottoscrizione da parte dell’interessato, mentre il verbale di determinazione delle prescrizioni è sottoscritto davanti al direttore dell’istituto penitenziario, se il soggetto è in stato di detenzione, ovvero davanti al direttore del Centro di servizio sociale per adulti.

In tema di revoca della misura, l’art. 47 c. 8 ord. penit. stabilisce che l’affidamento è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con l’esecuzione della prova. Tuttavia devono essere distinti i casi di comportamento colpevole del soggetto (quelli di cui parla appunto il comma succitato) dal sopravvenire di condizioni tali da far cessare i presupposti di legittimità per la concessione (in concreto, la notificazione di ulteriore ordine di carcerazione per pena che, sommata a quella considerata al momento della concessione, determini il superamento del limite previsto dalla legge). Entrambe le situazioni sono disciplinate dagli artt. 51bis e 51ter L. 663/1986, in relazione anche alle altre due misure alternative della detenzione domiciliare e della semilibertà. L’art. 51bis stabilisce che se durante, l’attuazione di una di queste tre misure interviene un nuovo titolo di privazione della libertà, il direttore dell’istituto penitenziario o del centro di servizio sociale informa immediatamente il magistrato di sorveglianza. Quest’ultimo, con decreto, dispone la prosecuzione provvisoria della misura in corso se i limiti di concessione previsti dalla legge non sono superati; altrimenti emette decreto di sospensione provvisoria della misura stessa. In ogni caso gli atti devono essere trasmessi al tribunale di sorveglianza il quale, nel termine di venti giorni dalla ricezione degli stessi, deciderà circa la prosecuzione o la cessazione della misura. L’art. 51ter prevede un meccanismo analogo nell’ipotesi di comportamenti tali da determinare la revoca della misura in corso. Il magistrato di sorveglianza, in questi casi, dispone con decreto motivato la provvisoria sospensione della misura ordinando l’accompagnamento del trasgressore in istituto. Trasmessi immediatamente gli atti al tribunale di sorveglianza, quest’ultimo deve intervenire entro trenta giorni dalla ricezione della documentazione, pena la caducazione del provvedimento del magistrato con il conseguente dovere, per il direttore dell’istituto, di far riassumere all’interessato la posizione giuridica pregressa (affidato in prova, semilibero o fruente della detenzione domiciliare).

Ma è in relazione agli effetti della revoca e alle determinazioni della pena da espiare che occorre fare alcune brevi considerazioni. La Corte costituzionale, con sentenza 12 giugno 1985 n. 185, muovendo dalla constatazione della diversità della ipotesi di revoca della misura per fatto colpevole rispetto all’annullamento della misura per la sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà, ebbe a statuire, relativamente alla seconda ipotesi, che il tempo intercorso fra l’inizio dell’affidamento e l’esecuzione del provvedimento di revoca dovesse essere considerato come periodo di valida espiazione di pena. Mentre quindi veniva statuito l’effetto ex nunc della dichiarazione di revoca per motivi di legittimità dell’affidamento in prova, la Corte richiamava il principio di responsabilità dell’interessato per l’ipotesi di revoca a seguito di violazione delle prescrizioni, in ordine alla quale veniva evidentemente ritenuto corretto l’effetto ex tunc della stessa. Successivamente, con sentenza 15 ottobre 1987 n. 343, la Corte dichiarava costituzionalmente illegittimo l’art. 47 c. 8 ord. penit. "nella parte in cui - in caso di revoca del provvedimento di ammissione all’affidamento in prova per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova - non consente al tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento in prova". Lo stato della normativa, così come modificato dagli interventi della Corte, risulta oggi tale per cui nell’ipotesi di revoca della misura per motivi di mera legittimità (annullamento) il tempo trascorso va computato come pena espiata; nell’ipotesi, invece, di revoca della misura per fatto colpevole dell’interessato, al tribunale di sorveglianza è riservato il compito di determinare quale sia la parte di pena validamente espiata e quale quella ancora da espiare.

L’esito positivo del periodo di prova, uguale a quello della pena da scontare, estingue la pena ed ogni altro effetto penale ed una eventuale misura di sicurezza seguirà la stessa sorte. Il tribunale di sorveglianza provvederà ad emettere declaratoria di estinzione della pena (art. 4 u.c. ord. penit. nonché art. 236 disp. att. c.p.p.). Per quanto riguarda l’eventuale pena pecuniaria, nel caso in cui si tratti di condanna per reati che prevedono una pena congiunta, deve essere citato l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione secondo cui sebbene la dizione dell’ultimo comma dell’art. 47 ord. penit. possa condurre all’interpretazione che l’estinzione riguardi la pena genericamente intesa, tale ultimo comma deve essere posto in relazione con il primo il quale, a sua volta, fa riferimento solo alla pena detentiva: dal che ne discende che al termine "pena" di cui all’ultimo comma della norma in questione non può essere attribuito un significato così ampio da includere anche l’eventuale pena pecuniaria. Da tutto ciò le SS. UU. hanno conseguito che non può essere considerato irrazionale il pagamento della pena pecuniaria dopo l’esito positivo del periodo di affidamento.

 

d) Gli istituti dell’affidamento in prova terapeutico e della sospensione della pena in favore di soggetti tossicodipendenti.

 

L’affidamento in prova terapeutico (rectius "in casi particolari" ex art. 9, D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti) per tossico e alcooldipendenti è stato introdotto nel nostro ordinamento con la L. 21 giugno 1985 n. 297 (la stessa legge che ridusse da tre mesi ad un mese il periodo minimo di osservazione scientifica della personalità per l’affidamento in prova ordinario). Dopo la rielaborazione attuata con la "Legge Gozzini" , l’intera materia è stata inserita nel D.P.R. n. 309 del 1990 succitato trovando collocazione all’art. 94 con richiami agli artt. 90, 91 e 92. Ad oggi l’affidamento in prova in casi particolari è disciplinato solo da queste ultime norme, posta l’abrogazione espressa dell’art. 47bis ord. penit. da parte della "Legge Simeone".

Presupposto indefettibile è che la pena detentiva da eseguirsi sia contenuta nel limite di quattro anni o ancora da scontare nella stessa misura. L’art. 94 del testo unico richiede inoltre che il condannato sia persona tossicodipendente o alcooldipendente; che lo stesso abbia in corso od intenda sottoporsi ad un programma terapeutico di recupero; che tale programma sia concordato dal condannato con una U.S.L. ovvero con altro ente espressamente indicato dalla legge o privato (i c.d. enti ausiliari secondo la definizione di cui all’art. 115 del testo unico); che una struttura sanitaria attesti lo stato di tossico o alcooldipendenza del soggetto interessato e la idoneità del programma concordato.

L’istanza può essere formulata in ogni momento. Le modalità di accesso a tale misura alternativa descritte all’art. 91 commi 3 e 4 del testo unico, richiamato a sua volta dall’art. 94, devono essere coordinate con il nuovo art. 656 del codice di procedura. Di conseguenza, per il condannato che, al momento del passaggio in giudicato del provvedimento giurisdizionale, si trovi in stato di libertà è applicabile la nuova disciplina in tema di sospensione dell’esecuzione e di presentazione dell’istanza da parte dell’interessato, che deve ritenersi implicitamente abrogativa del comma 3 dell’art. 91 del testo unico. Rimane invece in vigore il comma 4 del suddetto articolo che prevede l’ipotesi di presentazione dell’istanza da parte dell’interessato solo dopo che l’ordine di esecuzione sia stato eseguito. In questa situazione il pubblico ministero cui viene presentata l’istanza, corredata dalla certificazione attestante lo stato di tossico o alcooldipendenza nonché l’idoneità del programma concordato, ordina la scarcerazione del condannato, se non osta il limite di pena di cui all’art. 90 c. 1 del testo unico.

Il tribunale di sorveglianza, ricevuti tutti gli atti, fissa senza indugio la data di trattazione. Ai fini della decisione, il tribunale deve accertare che lo stato di tossico o alcooldipendenza o la esecuzione del programma di recupero non siano preordinati al conseguimento del beneficio: a tale proposito il tribunale è facoltizzato ad acquisire copia degli atti del procedimento di cognizione e a disporre gli opportuni accertamenti (art. 94 c. 3 del testo unico).

Anche parte della dottrina ha ritenuto che obiettivo del programma terapeutico debba essere anzitutto, anche se non esclusivamente, la disintossicazione del soggetto ed il suo allontanamento dalla droga. Altra parte invece ha sostenuto che la non coincidenza fra tempo della terapia e durata della pena porti ad escludere che l’esito positivo si sostanzi sempre nella raggiunta non dipendenza psicologica dagli stupefacenti. Se non è possibile effettuare la notifica dell’avviso al condannato (circa la data di trattazione) al domicilio indicato nella richiesta e lo stesso non compare in udienza, il tribunale dichiara inammissibile l’istanza (art. 92 c. 1 ultimo periodo, del testo unico). Negli altri casi il tribunale di sorveglianza, accertata la sussistenza delle condizioni tassativamente previste dall’art. 94 del testo unico, dispone con ordinanza l’affidamento impartendo tutte le prescrizioni del caso fra cui quelle che determinano l’esecuzione del programma di recupero, nonché forme di controllo per accertare che l’interessato prosegua il programma stesso (art. 94 c. 4 del testo unico). Valgono, anche in questa ipotesi, le stesse osservazioni fatte in tema di affidamento ordinario circa la revoca e l’esito della misura.

Sempre nel quadro degli interventi di sostegno alle persone tossicodipendenti, e non anche a quelle alcooldipendenti, l’art. 90 del testo unico ha introdotto l’istituto della sospensione dell’esecuzione della pena detentiva. L’istituto prevede che, nei confronti di persona condannata a pena detentiva non superiore a quattro anni, anche se congiunta a pena pecuniaria, per reati connessi al proprio stato di tossicodipendenza, o che per la stessa causa debba ancora scontare una pena della durata di quattro anni, il tribunale di sorveglianza "può" sospendere l’esecuzione della pena per cinque anni qualora accerti che la persona si è sottoposta o ha in corso un programma di recupero. La stessa disposizione si applica per i reati di produzione e traffico di stupefacenti nelle ipotesi di lieve entità ex art. 73 c. 5 testo unico, sempreché le pene detentive, anche se congiunte a pena pecuniaria o ancora da scontare, non superino i quattro anni. La sospensione non può essere concessa se, fra l’inizio del programma di recupero e la pronuncia della sospensione, l’interessato abbia commesso altro delitto non colposo punibile con la reclusione ed in ogni caso non può essere concessa più di una volta.

Ai sensi della L. 16 luglio 1999 n. 221 (Disposizioni in materia di esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave), rileva, fra le varie modifiche apportate, l’introduzione dell’art. 47quater ord. penit. secondo il quale le misure previste dagli artt. 47 e 47ter ord. penit. (affidamento in prova al servizio sociale e detenzione domiciliare) possono essere applicate, anche oltre i limiti di pena per esse previsti, su istanza dell’interessato o del suo difensore, nei confronti di coloro che sono affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’art. 286bis c. 2 c.p.p., anch’esso modificato dalla legge in questione, e che hanno in corso od intendano intraprendere un programma di cura ed assistenza.

Qualora l’interessato abbia già fruito di analoga misura e questa sia stata revocata da meno di un anno, il giudice può non applicare la misura alternativa. Il giudice può comunque revocare la misura qualora il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto a misura cautelare per uno dei delitti previsti dall’art. 380 c.p.p. (reati per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza), relativamente a fatti commessi successivamente alla concessione del beneficio.

Per quanto riguarda le modalità di presentazione dell’istanza e gli organi competenti, valgono le stesse osservazioni fatte per l’affidamento in prova in casi particolari. Si deve comunque constatare che, mentre per l’affidamento in prova terapeutico l’attività di cura programmata e concordata con le strutture sanitarie deve "essere in corso" ovvero deve "essere intrapresa", ai fini della sospensione dell’esecuzione della pena, invece, il programma di recupero deve "essere in corso" ovvero può "essersi già positivamente concluso". L’applicazione dei due istituti può quindi venire a sovrapporsi nel caso in cui l’interessato stia seguendo, al momento della presentazione dell’istanza, un programma di recupero. Si tratta, peraltro, dell’unica ipotesi di effettiva interferenza poiché ove l’intervento terapeutico si prospetti per il futuro, è prevista la concedibilità del solo affidamento; mentre, in relazione agli esiti di un programma terapeutico e socio-riabilitativo già completato, può trovare applicazione solo l’istituto di cui all’art. 90 del testo unico.

Altre differenze rilevanti si ravvisano nel fatto che la sospensione dell’esecuzione può essere concessa solo a tossicodipendenti e non anche ad alcooldipendenti, come nel caso dell’affidamento terapeutico; inoltre, mentre l’ammissione all’affidamento terapeutico, verificata la sussistenza dei presupposti, è obbligatoria per il giudice, la concessione della sospensione dell’esecuzione è sempre facoltativa; infine, mentre nel caso della misura ex art. 94 del testo unico è prevista una serie di prescrizioni ed interventi esterni durante il periodo di prova, nel caso dell’istituto di cui all’art. 90 del testo unico durante il periodo di sospensione non sono previsti interventi esterni di alcun tipo. Ed è proprio in relazione a quest’ultima caratteristica che molti tribunali, al ricorrere concretamente dell’ipotesi di interferenza fra i due istituti poc’anzi sottolineata, hanno preferito ricorrere al più restrittivo affidamento terapeutico che, grazie appunto alla possibilità di disporre prescrizioni, consente un maggior controllo del comportamento del reo. Dopo tutto, non può ritenersi che, relativamente all’esecuzione di una pena legittimamente inflitta, debba prevalere in modo automatico l’applicazione della misura che permette una maggiore libertà per il condannato: nell’ambito degli strumenti di risocializzazione di cui il giudice dispone, deve premettersi, infatti, il dovere del giudice di considerare non solo le condizioni personali del soggetto ma anche le esigenze di doverosa tutela della collettività.

 

e) Altre ipotesi particolari.

 

Rimangono le ipotesi dell’affidamento in prova al servizio sociale senza osservazione in istituto ex art. 47 c. 3 ord. penit., di cui però si tratterà nel par. 6 a proposito delle misure c.d. ab initio, e dell’affidamento in prova del condannato militare. In merito a quest’ultima ipotesi l’art. 1, L. 29 aprile 1983 n. 167 dispone che il militare condannato a pena detentiva non superiore a tre anni non seguita da misura di sicurezza detentiva, "può" essere affidato in prova, fuori dello stabilimento militare di pena, per un periodo uguale a quello della pena da scontare, ad un comando o ente militare, se ha ancora obblighi di leva, e direttamente al servizio sociale se è stato collocato in congedo. Vi sono anzitutto delle ipotesi ostative alla concessione della misura relativamente a pene inflitte per determinati reati militari non colposi e per reati commessi a fine di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale ovvero quando il condannato sia stato già condannato per altre gravi fattispecie come rapina, estorsione, sequestro di persona fino a reati commessi a fine di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale. Il provvedimento di affidamento viene adottato dall’autorità giudiziaria militare sulla base dell’osservazione della personalità condotta per almeno un mese nello stabilimento, qualora possa presumersi che la vita nella comunità militare o le sole prescrizioni, nei casi di affidamento al servizio sociale, siano sufficienti per la rieducazione del reo e per prevenire il pericolo che egli compia altri reati (art. 2 c. 1, L. 167/1983, così come modificato dalla L. 23 dicembre 1986 n. 897). In questo caso il legislatore ha inteso adeguare l’esecuzione della pena detentiva militare alle norme dell’ordinamento penitenziario in relazione alla misura alternativa fondamentale: il resto della disciplina è infatti quasi in tutto conforme a quanto disposto in tema di affidamento ordinario.

 

La detenzione domiciliare

 

a) Natura dell’istituto.

 

La L. 28 luglio 1984 n. 398 inserì nel codice di procedura penale abrogato, l’istituto degli arresti domiciliari nel quadro della carcerazione preventiva che, in virtù dell’art. 11 della legge succitata, ha assunto poi la denominazione di custodia cautelare. Il "nuovo" codice di procedura ha individuato gli arresti domiciliari come strumento immediatamente sotto ordinato alla restrizione in carcere.

L’istituto della detenzione domiciliare fu introdotto con la L. 663/1986 con lo scopo di ovviare alla situazione di chi, avendo trascorso la custodia cautelare nella propria abitazione, in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura o assistenza (e ciò in un periodo prossimo alla commissione del reato con una potenziale, maggiore pericolosità), si trovi, al momento del passaggio in giudicato del provvedimento di condanna, ad essere inserito in ambiente carcerario con completa modificazione, in senso nettamente peggiorativo, delle modalità di privazione della libertà. I primi precedenti storici degni di nota sono rappresentati dalla previsione degli arresti domiciliari in molti codici ottocenteschi come alternativa a brevi pene detentive irrogate per contravvenzioni di lieve entità (da cui il nome "arresto" che ha dunque origine sostanziale più che processuale). Pur con differenti dettagli di disciplina, la funzione dell’arresto domiciliare è sempre stata molto chiara e precisa. A tal proposito emblematica è la Relazione al progetto del Codice Zanardelli del 1889 in cui si afferma che "Applicato con discernimento, (l’istituto) deve avere per risultato di evitare il più che sia possibile, pur mantenendo il carattere penale della sanzione, che i cittadini siano assoggettati per lievissimi trascorsi ai danni e all’onta della carcerazione ordinaria, e che accostumandosi alla vita e alla triste società della prigione, perdano quella specie di pudore civico e quella naturale ripugnanza alla pena, che sono altrettanti potenti freni al malfare". L’itinerario degli arresti domiciliari si caratterizza per una certa coerenza fino al 1986 quando, in occasione della c.d. "riforma della riforma", il legislatore inserisce l’art. 47ter ord. penit. dimostrando tanto l’univocità dello sforzo ormai consolidato rivolto a ridurre l’uso del carcere, sia a livello penale che processuale, quanto l’eccezionale duttilità dell’istituto de quo che gli consente una ubiquità piuttosto inusuale (gli arresti domiciliari allo stesso tempo misura cautelare personale e misura alternativa alla detenzione con il nome, appunto, di detenzione domiciliare). Da qui il ruolo di elemento completamente nuovo rivestito dalla detenzione domiciliare.

Attraverso la detenzione domiciliare si è data attuazione ai precetti costituzionali sanciti all’art. 27 c. 3 Cost. in base al quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e all’art. 32 Cost. che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e l’interesse della collettività a rendere meno afflittiva l’espiazione della pena per quei soggetti destinatari che si trovano in particolari condizioni. Tuttavia la misura in questione è totalmente svincolata da qualsiasi finalità rieducativa poiché, pur prevedendosi l’intervento del servizio sociale, non vi è alcun richiamo a possibili interventi trattamentali espressamente previsti invece per l’affidamento in prova al servizio sociale. Come infatti ha sostenuto in più occasioni la Corte Costituzionale "la detenzione domiciliare deve essere considerata, a tutti gli effetti, una pena alternativa alla detenzione o, se si vuole, una modalità di esecuzione della pena caratterizzata - al pari dell’affidamento in prova - dalla soggezione a prescrizioni limitative della libertà sotto la vigilanza del Magistrato di Sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale". Inoltre, "tenendo conto delle condizioni specifiche in cui devono trovarsi i soggetti a cui è applicata, questa misura risulta anche caratterizzata, in particolare, da una finalità umanitaria ed assistenziale" essendo diretta a salvaguardare determinate situazioni particolari ritenute meritevoli di tutela, sostituendo la detenzione in carcere con altra meno afflittiva.

Così come gli arresti domiciliari infatti costituiscono una forma di detenzione preventiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dagli istituti di custodia cautelare, la detenzione domiciliare rappresenta una forma di esecuzione della pena detentiva a regime attenuato svolta in luogo diverso dal carcere. Ciò che non appare sufficientemente definito è invece il contenuto intrinseco della misura sul piano rieducativo.

La detenzione domiciliare prescinde infatti da qualunque percorso rieducativo e rappresenta un figura estranea all’ipotesi di probation in quanto la privazione di libertà, seppure non attuata in carcere, permane con modesti margini di autodeterminazione. In tal senso la detenzione domiciliare va inquadrata, più di ogni altra misura c.d. alternativa, unicamente come un modo diverso di esecuzione della pena detentiva. La misura in questione si allontana considerevolmente dalle altre, segnatamente dall’affidamento in prova al servizio sociale e dalla semilibertà, che, improntate sul sinallagma premiale, danno pieno riconoscimento al detenuto come dominus del proprio destino penale, mentre la prima, concessa più in dipendenza della volontà dello stato che della considerazione del detenuto, vede il primo come protagonista esclusivo ed il secondo come mero beneficiario del favore.

L’istituto è disciplinato dall’art. 47ter ord. penit. così come modificato dalla L. 165/1998 che ha ampliato la portata di questa misura senza peraltro modificare le ragioni di fondo che rimangono quelle di consentire a determinate categorie di condannati, individuate con riferimento ad alcune situazioni meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, di espiare pene detentive di non particolare gravità all’interno della propria abitazione ovvero in uno dei luoghi indicati dalla norma. Rispetto alla normativa precedente, con la c.d. "Legge Simeone" sono state, inoltre, inserite due nuove ipotesi particolari.

 

b) Presupposti.

 

L’art. 47ter ord. penit. prevede, al primo comma, che la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente residuo di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando trattasi di: a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei conviventi; b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci, quando la madre sia deceduta o altrimenti impossibilitata ad assistere la prole; c) persona in gravi condizioni di salute che richiedono costanti contatti con i presidi sanitari territoriali; d) persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente; e) persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, studio, lavoro o famiglia.

Anzitutto si deve rilevare come dell’aumento del limite di pena detentiva non si è tenuto conto in sede di coordinamento con il nuovo art. 656 c.p.p. che, singolarmente, non prevede che il nuovo limite di pena stabilito per la detenzione domiciliare possa essere valutato dal pubblico ministero ai fini della sospensione dell’esecuzione della pena. Con la conseguenza che quando sia stata inflitta una pena detentiva inferiore a quattro anni ma superiore ai tre anni, il condannato non può proporre istanza ex art. 656 c.p.p. al fine della concessione della misura in questione.

Per quanto riguarda poi gli altri requisiti sostanziali, si deve osservare come la legge in questione ha ampliato l’ambito di concedibilità della misura preoccupandosi di assicurare una più estesa forma di tutela in favore dei figli minori dei detenuti. Anteriormente alla novella del 1998, il limite di pena detentiva era di tre anni, la prole doveva essere di età inferiore ad anni cinque e nessuna considerazione era prevista per il padre. Inoltre con l’eliminazione dell’inciso "se non vi è stato affidamento in prova al servizio sociale", il nuovo comma 1 dell’art. 47ter ord. penit. conferisce nuova autonomia alla detenzione domiciliare rispetto alla misura dell’affidamento cui era sempre stata subordinata.

 

c) Concessione, esecuzione ed esito della misura.

 

A questo proposito l’art. 47ter c. 1quater ord. penit. stabilisce che nel caso in cui abbia già avuto inizio l’esecuzione della pena, l’interessato può presentare istanza di concessione della misura al magistrato di sorveglianza il quale può disporre, provvisoriamente, l’applicazione della misura, naturalmente ricorrendone i presupposti (sia che si tratti di detenzione qualificata di cui al primo comma, che di detenzione generica di cui al comma 1bis). L’applicazione provvisoria conserva naturalmente effetto fino alla pronuncia definitiva del tribunale di sorveglianza a cui, infatti, il magistrato deve trasmettere immediatamente gli atti e che decide entro quarantacinque giorni.

Nonostante l’art. 47ter c. 1quater richiami, in quanto compatibile, l’art. 47 c. 4 ord. penit., il procedimento in questione risulta diverso da quello relativo all’affidamento in prova: mentre per l’affidamento il magistrato di sorveglianza può sospendere l’esecuzione della pena e disporre la liberazione del condannato, per la detenzione domiciliare, il magistrato pone in essere una vera e propria anticipazione di merito rispetto alla successiva pronuncia del tribunale. Prima dell’inizio dell’esecuzione, l’istanza deve essere presentata secondo le modalità di cui all’art. 656 c. 5 c.p.p. Il tribunale di sorveglianza, nel disporre la misura, ne fissa le modalità ai sensi dell’art. 284 c.p.p. (arresti domiciliari), dispone circa gli interventi del servizio sociale, fermo restando la possibilità per il magistrato di modificare le suddette prescrizioni e disposizioni.

La misura è revocata quando il comportamento dell’interessato, contrario alla legge o alle prescrizioni, appaia incompatibile con la prosecuzione della misura (art. 47ter c. 6 ord. penit.). La misura viene in ogni caso revocata al cessare delle condizioni per cui era stata concessa (art. 47ter c. 7 ord. penit.). L’allontanamento dal luogo di espiazione integra gli estremi del delitto di evasione ex art. 385 c.p.: tuttavia, mentre la denuncia per tale delitto comporta la sospensione della misura (da qui il dovere della polizia giudiziaria di avvertire il magistrato di sorveglianza), solo la condanna definitiva ne implica la revoca (art. 47ter cc. 8 e 9 ord. penit.). Peraltro la Corte costituzionale con sentenza 13 giugno 1997 n. 173 è intervenuta a dichiarare la illegittimità costituzionale del comma 9 proprio relativamente all’automatica sospensione della misura derivante dalla mera presentazione della denuncia, in quanto la disposizione censurata è in contrasto tanto con il principio di ragionevolezza che con quelli della funzione rieducativa della pena e della tutela della salute individuale. La Corte ha inoltre concluso che spetti al magistrato di sorveglianza verificare, caso per caso, se la condotta posta in essere dal condannato, ed in ordine alla quale è stata presentata denuncia per evasione, presenti "le caratteristiche, soggettive ed oggettive, di una non giustificabile sottrazione all’obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione o dal luogo altrimenti indicato ai sensi dell’art. 47ter ord. penit.", disponendo quindi soltanto in ipotesi di positivo riscontro la sospensione della misura alternativa. Decisione quest’ultima che, proprio perché derivante da un apprezzamento di merito della situazione di specie, necessariamente dovrà essere adottata con le forme del provvedimento motivato.

Valgono anche per la detenzione domiciliare le osservazioni fatte a proposito della disciplina ex artt. 51bis e 51ter della L. 663/1986 riguardanti, rispettivamente, la sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà e la sospensione cautelativa di misure alternative. In tutti i casi di revoca, la pena residua non può essere sostituita con altra misura (art. 47ter c. 9bis ord. penit.). Norma, questa, più che altro giustificabile in relazione all’ipotesi di revoca per evasione: non altrettanto potrebbe dirsi per l’ipotesi di revoca per sopravvenuta cessazione delle condizioni richieste dall’art. 47ter cc. 1 e 1bis ord. penit.

 

e) Ipotesi particolari.

 

Come poc’anzi accennato, la "Legge Simeone" ha introdotto due nuove ipotesi di detenzione domiciliare che con la misura principale hanno in comune solo il contenuto prescrittivo tipico, ovvero l’obbligo per il condannato di permanere nella propria abitazione o in uno degli altri luoghi indicati. L’art. 47ter c. 1bis ord. penit. prevede che, indipendentemente dalle condizioni principali di cui al primo comma e quando non sussistono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare può essere concessa a favore di chi debba scontare una pena detentiva non superiore a due anni, ancorché parte residua di maggior pena, purché tale misura sia idonea ad evitare la commissione di nuovi reati. Mentre l’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 47ter ord. penit. è legislativamente formata più sulla figura del beneficio che su quella della misura premiale, questa seconda ipotesi normativa comporta invece la volontà di favorire il graduale reinserimento sociale del detenuto attraverso la sperimentazione di passaggi intermedi che conducano dalla pura segregazione alla riappropriazione della capacità di gestire la propria futura libertà. L’altra ipotesi è prevista dal successivo comma 1ter che riconosce al tribunale di sorveglianza la possibilità di disporre l’applicazione della detenzione domiciliare, senza limiti di pena, nei casi in cui può essere concesso il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p.

Questo intervento normativo si ricollega alla situazione creatasi a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 146 c. 1 n. 3 c.p. (differimento obbligatorio nei confronti di persone affette da infezione da HIV nei casi di incompatibilità con lo stato di detenzione ai sensi dell’art. 286bis c. 1 c.p.p.), con sentenza n. 438/1995 nella parte in cui prevede che il differimento ha luogo anche quando l’espiazione della pena possa avvenire senza pregiudizio dell’interessato o degli altri detenuti. La scelta fra rinvio dell’esecuzione della pena e espiazione della stessa come detenzione domiciliare, nei casi previsti dagli artt. 146 e 147 c.p., sarà frutto del libero convincimento del giudice avuto riguardo sia all’entità della pena residua che alla condizione di salute del soggetto. Infine, valgono anche per la misura in questione le osservazioni fatte a proposito dell’affidamento in prova circa l’introduzione dell’art. 47quater ord. penit. a seguito dell’entrata in vigore della L. 221/1999.

 

Il regime di semilibertà

 

a) Natura dell’istituto.

 

Ancor più della detenzione domiciliare, il regime di semilibertà si allontana dallo schema classico delle misure alternative. In base all’art. 48 ord. penit., il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato o all’internato di trascorrere parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Nel sistema originario della L. 354/1975, e fino al 1981, potevano distinguersi: una semilibertà obbligatoria per le pene detentive derivanti da conversione di pene pecuniarie (art. 49 ord. penit. abrogato dall’art. 67 L. 663/1981); una semilibertà facoltativa applicabile ab initio per pene detentive meno gravi o brevi; una semilibertà ugualmente facoltativa applicabile a pene detentive più lunghe, dopo l’espiazione di metà di esse. Nel sistema attuale, abrogato l’art. 49 ed entrata in vigore la L. 165/1998, il regime di semilibertà ne risulta consistentemente ampliato dal punto di vista della sua concedibilità. Fermo restando il fatto che si tratta, essenzialmente, di una modalità di esecuzione della pena detentiva che comporta un notevole controllo sul soggetto, obbligato a rientrare quotidianamente in istituto, questa misura si caratterizza anzitutto per l’instaurarsi di un rapporto continuo fra il soggetto e l’ambiente familiare e sociale, rapporto positivamente connotato ai fini del reinserimento sociale essendone prefissati i contenuti.

Da quest’ultimo punto di vista il regime di semilibertà rappresenta una vicenda profondamente modificativa delle modalità di esecuzione della pena, al punto che può parlarsi di misura alternativa "impropria".

 

b) Presupposti di concessione.

 

L’ammissione al regime di semilibertà può essere disposta in ogni tempo a favore degli internati, cioè dei soggetti sottoposti a misure di sicurezza detentive. Per i soggetti in espiazione di pena, esso è disposto, ai sensi dell’art. 50 cc. 1 e 2 ord. penit., nei confronti del condannato all’arresto, senza limite di durata, e nei confronti del condannato ad una pena non superiore ai sei mesi, se il condannato non è affidato in prova al servizio sociale; nei confronti del condannato che abbia espiato almeno metà della pena, fuori dalle ipotesi precedenti; nei confronti del condannato per i delitti di cui all’art. 4bis c.1 ord. penit., quando abbia scontato almeno due terzi della pena; nei confronti dell’ergastolano che abbia espiato almeno venti anni di pena; infine nei confronti del condannato che si trovi nelle condizioni formali per l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale (pena inflitta non superiore a tre anni e osservazione scientifica della personalità espletata per almeno un mese in istituto) qualora il tribunale di sorveglianza non ritenga di potere fare luogo alla più ampia misura dell’affidamento, ma valuti i risultati dell’osservazione in modo favorevole al fine di un graduale reinserimento del soggetto nella società libera. Così come l’affidamento in prova al servizio sociale, anche il regime di semilibertà non può essere concesso nel caso di pena detentiva derivante da conversione di pena sostitutiva (semidetenzione o libertà controllata) disposta dal tribunale di sorveglianza per violazione delle prescrizioni (art. 67, L. 24 novembre 1981 n. 689).

Come per la liberazione condizionale ed i permessi premio, anche per l’ammissione al regime di semilibertà, agli effetti del computo della misura di pena che occorre aver espiato, la parte di pena detratta a titolo di liberazione anticipata si considera come scontata (art. 54 c. 4 ord. penit.). Ai sensi dell’art. 50 c. 4 ord. penit., l’ammissione è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento nella società. Ed è qui che la magistratura di sorveglianza ha un ampio spazio di discrezionalità che, correlativamente, impone un’adeguata ed approfondita motivazione del provvedimento concessivo o di diniego del beneficio. A tal proposito, infatti, la magistratura di sorveglianza dovrà tenere conto di tutta una serie di elementi: dalla natura stessa del reato commesso e l’eventuale recidiva, alla verifica delle condizioni personali ed ambientali in cui la persona potrà svolgere la misura alternativa, passando, naturalmente, dall’apprezzamento positivo o negativo circa il comportamento serbato dall’interessato nel tempo anteriore all’esecuzione così come durante l’eventuale periodo di tempo trascorso in carcere.

 

c) Concessione, esecuzione ed esito della misura.

 

Come per le altre misure alternative, anche il provvedimento di concessione è emesso dal tribunale di sorveglianza il quale è chiamato a valutare l’idoneità, al fine dell’attuazione della misura, dell’attività risocializzante prospettata dall’interessato ed opportunamente verificata. Il giudizio, ad eccezione dell’ipotesi di concedibilità del regime ab initio, è fondato sulle risultanze del trattamento individualizzato condotto sulla base dell’esame della personalità, mettendo in chiara evidenza i progressi compiuti dal soggetto in modo da motivare una prognosi positiva sulla prospettiva di reinserimento sociale. L’art. 92 c. 2 reg. esec. stabilisce che nei confronti del condannato e dell’internato ammesso al regime di semilibertà è formulato un particolare programma di trattamento, redatto entro cinque giorni, anche solo provvisoriamente, dal direttore dell’istituto e approvato dal magistrato di sorveglianza. In tale programma sono dettate tutte le prescrizioni che il semilibero dovrà osservare durante il tempo trascorso fuori dall’istituto, nonché quelle relative agli orari di uscita e di rientro. Tuttavia, lo specifico contenuto del regime di semilibertà non è disciplinato né dalla legge né dal regolamento di esecuzione. Tale sistema, almeno in teoria, rende possibile la maggior individualizzazione possibile del trattamento ed è quindi certamente valido in quanto rispondente al massimo alle esigenze della rieducazione, riconoscendo al magistrato di sorveglianza il potere di modificare ed integrare le modalità di svolgimento della misura. Una volta iniziata l’esecuzione della semilibertà, il trattamento deve essere seguito dal direttore dell’istituto che, a norma dell’art. 92 c. 3 reg. esec., ne è responsabile e si avvale del centro di servizio sociale.

Nei casi, prevalenti, in cui il regime viene concesso per lo svolgimento di attività lavorative, l’art. 51 reg. esec. stabilisce che, relativamente alle attività come dipendente, i datori di lavoro dei semiliberi versino la retribuzione non a questi ultimi direttamente, bensì all’amministrazione penitenziaria. Per il resto, e lo stesso comma 2 dell’art. 51 reg. esec. lo stabilisce, i semiliberi esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi con gli unici obblighi inerenti la stretta esecuzione della misura.

I soggetti ammessi al regime in questione possono godere di licenze, ovvero di periodi di più giorni durante i quali non devono rientrare in istituto e sono sottoposti al regime di libertà vigilata che comporta il rispetto di specifiche prescrizioni e la vigilanza dell’autorità di polizia. L’art. 52 ord. penit. stabilisce che possono essere concesse una o più licenze per un periodo non superiore a quarantacinque giorni all’anno. Il provvedimento è adottato dal magistrato di sorveglianza Deve ritenersi che la ratio della licenza premio coincida con quella dei permessi premio (art. 30ter ord. penit.): in entrambi i casi, infatti, viene data l’opportunità di mantenere ed approfondire le relazioni sociali, cioè di consentire di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro (ed è questa, appunto, la formula usata nell’art. 30ter ord. penit. per la concessione dei permessi premio). Gli internati, ai sensi dell’art. 53 ord. penit., possono beneficiare, oltre che dei quarantacinque giorni previsti anche per i condannati, anche di una licenza fino a quindici giorni per gravi esigenze personali o familiari; di una non superiore a trenta giorni a scopo di riadattamento sociale; di una licenza a titolo sperimentale negli ultimi sei mesi prima della scadenza della misura. Infine, a norma degli artt. 30 ord. penit. e 61 reg. esec., ai semiliberi può essere concesso il permesso di uscita dall’istituto per un periodo massimo di cinque giorni oltre il tempo del viaggio, nel caso di imminente pericolo di vita di una familiare o di un convivente o per eventi familiari di particolare gravità.

Per quanto riguarda le ipotesi revoca della misura, l’art. 51 ord. penit. ne prevede due: una derogabile, quando il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento; l’altra inderogabile che si verifica quando il semilibero venga condannato per evasione realizzata nel corso dell’esecuzione della misura. Per quanto riguarda la prima causa, il concetto di inidoneità al trattamento lascia al giudice un ampio margine di discrezionalità nella valutazione dei comportamenti. Correlativamente, si impone una penetrante disamina degli atteggiamenti del semilibero, delle condizioni in cui la misura ha avuto svolgimento, delle prospettive per un futuro miglioramento della gestione della misura stessa nonché, ovviamente, dei fatti che possono aver inciso su di una non corretta attuazione del programma di trattamento.

Per quanto riguarda la revoca a seguito di condanna per evasione, la stessa può conseguire solo ad una denuncia (che da sola causa la mera sospensione della misura) per un ritardo, al rientro, superiore alle dodici ore. Vale, infine, anche per il regime di semilibertà la disciplina prevista ai sensi del combinato disposto dagli artt. 51bis e 51ter ord. penit..

 

La liberazione anticipata

 

Se per misura alternativa si intende l’adozione di un regime che, nella permanenza del rapporto sanzionatorio, modifica il contenuto del rapporto medesimo attraverso il reinserimento - seppur con controlli e limitazioni di varia natura - del soggetto nell’ambiente libero, si deve constatare che tale non è il contenuto né l’effetto dell’istituto della liberazione anticipata. Infatti, a prescindere dalla collocazione sistematica che il legislatore ha inteso dare ad esso, l’istituto in questione , sostanziandosi in una pura e semplice riduzione di pena, realizza unicamente il risultato di anticipare il termine finale della sottoposizione del soggetto a privazione della libertà e di restituirlo, quindi, al consorzio civile. Non si può tuttavia ignorare che la liberazione anticipata viene inserita nel quadro degli strumenti della risocializzazione e che la funzione di promozione sociale che la stessa è demandata a svolgere nei confronti del condannato, poggia su considerazioni di carattere criminologico. Il legislatore penitenziario, infatti, coerentemente con i principi informatori della riforma del 1975, mutua dalla criminologia il principio secondo il quale, essendo il comportamento delinquenziale una manifestazione sintomatica di incapacità a risolvere i propri problemi in modo socialmente positivo, il detenuto può essere fortemente incentivato anziché con astratte e lontane promesse, con la prospettiva di vantaggi immediati. La liberazione anticipata, introdotta come si è visto dalla L. 354/1975 viene successivamente modificata dalla L. 663/1986. L’art. 54 ord. penit., attualmente, struttura questo istituto alla stregua di una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata da concedersi al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione sotto il duplice profilo del riconoscimento di tale partecipazione e del suo più efficace reinserimento nella società.

Di fondamentale e preliminare rilevanza è quindi l’aspetto premiale ed incentivante. La finalità del reinserimento nella società, che nel testo originario della L. 354/1975 veniva prospettata come elemento essenziale, si pone, dopo la riforma del 1986, in posizione consequenziale al beneficio della riduzione della pena che viene a rappresentare il principale elemento qualificante. L’art. 94 c. 2 reg. esec. stabilisce che la partecipazione del condannato all’opera di rieducazione è valutata con particolare riferimento all’impegno dimostrato nel trarre profitto dalle opportunità, offertegli nel corso del trattamento, all’atteggiamento manifestato nei confronti degli operatori penitenziari e alla qualità dei rapporti intrattenuti con i compagni ed i familiari. Significative sono le vicissitudini interpretative che hanno visto protagonista la c.d. semestralizzazione della pena espiata. A tale proposito, infatti, la giurisprudenza ha conosciuto una notevole evoluzione. Secondo l’originario tenore dell’art. 54 ord. penit. la riduzione di pena per ciascun semestre era, anzitutto, pari a venti giorni. Inoltre, fino alla fine degli anni ottanta, la giurisprudenza di legittimità era costantemente orientata nel ritenere che la valutazione dei presupposti per la concessione del beneficio dovesse essere effettuata in modo globale in prossimità del tempo previsto dalla legge per l’applicazione di qualche beneficio penitenziario, oppure verso la fine del periodo di detenzione. Il principio era quindi quello della globalità della valutazione del comportamento del detenuto: in altri termini, un’unica pronunzia, unitaria nel contenuto e consequenziale ad una globale valutazione con giudizio di prevalenza degli elementi più significativi e costanti su quelli, meno rilevanti, di segno opposto.

A seguito della nuova formulazione dell’art. 54 ord. penit. operato dalla L. 663/1986, si è registrato un cambiamento nell’indirizzo interpretativo della Corte di cassazione nel senso di considerare il principio della semestralizzazione come potere-dovere del giudice di esprimere la valutazione positiva o negativa sulla richiesta di liberazione anticipata in relazione a ciascuno dei semestri di pena scontata, siano detti semestri valutati con separati provvedimenti, siano fatti oggetto di unica ordinanza, in ogni caso con facoltà di adottare decisioni diverse per i vari semestri. Il nuovo orientamento della Corte può ormai ritenersi consolidato, nel senso di imporre un giudizio atomistico di ciascun semestre di detenzione sofferta ai fini del riconoscimento della liberazione anticipata, in adesione alle reiterate istanze della giurisprudenza di merito oltreché della dottrina quasi unanime. Per esigenze di completezza, appare opportuno segnalare due ulteriori indirizzi della Corte di cassazione. Il primo, secondo il quale non si esclude la legittimità del giudizio sull’eventuale incidenza, nel semestre considerato, della condotta tenuta dal condannato in altri semestri, specie se cronologicamente adiacenti: in altri termini, il giudizio sulla partecipazione del condannato all’opera di rieducazione va eseguito con criterio frazionato in relazione ai singoli semestri, fermo restando che un episodio, specie se grave, possa comunque travalicare la valutazione del semestre cui inerisce ed inserirsi in semestri contigui; il secondo, per il quale il semestre su cui deve fondarsi la valutazione della partecipazione all’opera di rieducazione da parte del condannato può risultare anche dal congiungimento di più periodi frazionati di pena espiata o presofferta, purché siano imputabili alla stessa pena in esecuzione ed il beneficio sia richiesto anche in relazione ad essi: orientamento, questo, discutibile nel senso che una lettura così riduttiva della disciplina della liberazione anticipata rischia di annullare la funzione rieducativa che alla stessa in parte deve essere riconosciuta. Il c.d. collage di spezzoni minimi di detenzione porterebbe, inoltre, a conseguenze aberranti di disparità di trattamento in quanto il calcolo frazionato del semestre produrrebbe un vantaggio solo in caso di concessione del beneficio, mentre l’eventuale rigetto dell’istanza comporterebbe un riflesso negativo ai fini del calcolo dei semestri successivi.

Per la formazione dei semestri da prendere in considerazione è valutato anche il periodo trascorso in custodia cautelare o di detenzione domiciliare (art. 54 c. 1 ultimo periodo ord. penit.). La ragione di tale equiparazione sta nel fatto che poiché per la concessione del beneficio sono valutabili i periodi trascorsi in arresti domiciliari, non è possibile ragionare diversamente per quelli espiati in detenzione domiciliare, che è la misura corrispondente per i condannati effettivi. Tuttavia, nella detenzione domiciliare non esiste nessuna forma di rieducazione e si dovrà, evidentemente, considerare solo la diligenza e la puntualità nell’osservanza delle prescrizioni, l’assiduità nello svolgimento dell’eventuale attività lavorativa o di studio - in definitiva, il semplice rispetto degli obblighi imposti.

L’art. 54 c. 3 ord. penit. prevede, come causa di revoca del beneficio, la condanna per un delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio. Per condanna deve naturalmente intendersi quella inflitta con provvedimento divenuto irrevocabile ex art. 648 del codice di procedura. Tale comma è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza 23 maggio 1995 n. 186 stabilendo che il legislatore avrebbe invece dovuto prevedere che la liberazione anticipata è revocata se la condotta del soggetto, in relazione alla condanna subita, appare incompatibile con il mantenimento del beneficio. In ogni caso il pubblico ministero competente per l’esecuzione comunica al tribunale di sorveglianza la sentenza di condanna inflitta al soggetto (art. 94 u.c. ord. penit.). L’ultimo comma dell’art. 54 ord. penit. prevede la c.d. presunzione di avvenuta espiazione il cui significato si riconnette evidentemente al contenuto incentivante dell’istituto. Viene infatti statuito che agli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale, la parte di pena detratta ai sensi del comma 1, si considera come scontata. La norma aggiunge, poi, che la presente disposizione si applica anche ai condannati all’ergastolo. In concreto, la normativa estende la presunzione di avvenuta espiazione a tutti i casi in cui si pone, ai fini della concessione di un beneficio, l’avvenuta espiazione di una determinata quantità di pena detentiva.

La presunzione di cui si tratta non può, infine, trovare applicazione nei confronti dei condannati per i delitti di sequestro di persona a scopo terroristico o di eversione (art. 289bis c.p.), e di sequestro a scopo di rapina o di estorsione (art. 630 c.p.) qualora sia cagionata la morte del sequestrato. Ciò è previsto dall’art. 58quater c. 4 ord. penit., introdotto dalla L. 203/1991, che fa espresso riferimento alla effettiva espiazione di almeno due terzi della pena irrogata al fine della concessione dei benefici di cui all’art. 4bis ord. penit. (assegnazione al lavoro esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione). Competente circa la concessione e revoca delle riduzioni di pena per liberazione anticipata è sempre il tribunale di sorveglianza (art. 70 c. 1 in relazione all’art. 54 ord. penit.).

 

Le misure c.d. ab initio ed il nuovo art. 656 c.p.p.

 

Prima della L. 265/1998, la c.d. "Legge Simeone", era solo la normativa penitenziaria a prevedere particolari ipotesi di misure alternative la cui concessione prescindeva dall’ingresso in carcere. In conseguenza, infatti, delle modifiche apportate al testo originario dell’ordinamento penitenziario dalla L. 663/1986, era diventato possibile concedere alcune misure alternative indipendentemente dall’avvenuto esperimento della osservazione scientifica della personalità e del correlativo trattamento: in definitiva, senza che l’esecuzione c.d. istituzionale avesse avuto mai inizio. Era il caso delle c.d. misure ab initio che potevano essere riassunte in quattro ben precise ipotesi.

Anzitutto, l’affidamento in prova al servizio sociale nell’ipotesi di cui all’art. 47 c. 3 ord. penit. quando il condannato, dopo un periodo di custodia cautelare, avesse goduto di un periodo di libertà serbando un comportamento tale da consentire un giudizio positivo in termini di rieducazione (tale comma, peraltro, era stato successivamente dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 569/1989 in quanto la Corte ritenne che non era necessario per la concessione della misura che il condannato avesse trascorso un periodo di custodia cautelare).

Sempre in tema di affidamento, deve essere ricordata l’ipotesi di cui all’art. 47bis ord. penit. circa l’affidamento c.d. terapeutico nei confronti di persone tossico o alcooldipendenti: anche in questo caso l’istanza poteva essere presentata dall’interessato in stato di libertà prima che l’ordine di esecuzione della pena fosse emesso dal pubblico ministero. Seguiva, poi, la fattispecie della detenzione domiciliare nell’ipotesi di cui all’art. 47ter c. 3 ord. penit. (persona in stato di libertà o in regime di arresti domiciliari), nonché, infine, la semilibertà nell’ipotesi di cui all’art. 50 c.6 ord. penit. quando il condannato avesse dimostrato, prima dell’inizio dell’espiazione della pena, la propria volontà di reinserimento nella vita sociale.

In tutti questi casi risultava evidente come oggetto della giurisdizione della magistratura di sorveglianza non fosse tanto il controllo sui risultati del trattamento, quanto la valutazione di un comportamento in libertà, sempre, peraltro, al fine di accertare la rispondenza alla personalità del condannato della sanzione irrogata con la sentenza irrevocabile di condanna. L’idea della derogabilità, sotto il profilo sia della quantità che della qualità, della pena detentiva inflitta al soggetto ritenuto colpevole di un determinato reato e della sostituzione della stessa addirittura prima dell’inizio dell’esecuzione, è stata avvertita come una perdita totale del potenziale deterrente della pena. È stata constatata una scarsa effettività complessiva della sanzione penale, piegata ad innumerevoli esigenze, elasticizzata nella sua durata, nelle sue modalità di espiazione concreta, negli accadimenti che ne compromettono variamente l’applicazione, al punto da generare non una certezza ma un grande punto interrogativo. Tuttavia, non si deve dimenticare che il versante dell’esecuzione della pena ed in particolare quello più strettamente penitenziario, sono il punto di arrivo e di coagulo di una grande quantità di problemi sociali e politici, risolti e non risolti. La stessa legislazione penitenziaria ha nel tempo profondamente modificato l’impianto originario della riforma del 1975 e le misure di decarcerizzazione in genere hanno, con il passare del tempo, sempre più corso il rischio di essere strumentalizzate per risolvere situazioni drammatiche come, per esempio, il sovraffollamento carcerario. In realtà, il grido d’allarme levatosi a difesa anche del giudicato penale probabilmente proviene anche dall’eccessivo peso attribuito all’esecuzione penale ed allo scarso rilievo riconosciuto alla funzione rieducativa della pena sancita costituzionalmente.

Il tema delle misure alternative è stato ulteriormente rivisitato, in termini di sempre maggiore accessibilità alle stesse, da parte della L. 265/1998 la cui ratio è stata proprio quella di consentire l’accesso alle misure alternative prima che il condannato entri in carcere, attraverso l’istituto della sospensione dell’esecuzione di cui all’art. 656 c. 5 c.p.p. così come modificato dalla legge in questione.

Relativamente alle modifiche apportate alle singole misure alternative, per quanto concerne l’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47 ord. penit., al comma 4 viene ribadito quanto già precisato nella sentenza costituzionale n. 569/1989, permettendo, inoltre, al tribunale di sorveglianza di valutare il comportamento dell’interessato fin da dopo la commissione del reato. L’art. 47bis ord. penit. viene espressamente abrogato in quanto ritenuto un inutile ripetizione dell’ipotesi di cui all’art. 94 D.P.R. 309/1990.

L’istituto maggiormente rinnovato è stato senz’altro quello della detenzione domiciliare. Questa misura sembra assumere, nel disegno della riforma, un ruolo centrale considerando la portata dell’ampliamento dei presupposti di concedibilità. Le ipotesi di applicazione ab initio di questa misura sono, ad oggi, quella ex art. 47ter c. 1 ord. penit. nelle ipotesi di condanna alla pena dell’arresto o alla pena della reclusione non superiore a tre anni, ai sensi del coordinamento con il disposto di cui all’art. 656 c.p.p.; l’ipotesi di cui al comma decimo dell’art. 656 c.p.p., concernente il condannato che si trovi agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, il quale, quando la pena da espiare non superi il limite di tre o quattro anni e previa sospensione dell’esecuzione da parte del pubblico ministero, viene eventualmente ammesso dal tribunale di sorveglianza, senza formalità, alla misura alternativa della detenzione domiciliare; infine, le due ipotesi di detenzione domiciliare specifica previste dai commi 1bis e 1ter dell’art. 47ter ord. penit. Per quanto riguarda, infine, la semilibertà, la disciplina di questo istituto non subisce sostanziali modifiche e la concessione ab initio si ha solo nel caso di cui al primo comma dell’art. 50 ord. penit. , richiamato, tra l’altro, dallo stesso art. 656 c.p.p., ai sensi del quale possono essere espiate in regime di semilibertà la pena dell’arresto e la pena della reclusione non superiore a sei mesi, se il condannato non è stato affidato in prova al servizio sociale.

Infine, si deve considerare che tutte le modifiche apportate alle misure alternative in questione sono state una conseguenza della modifica principale rappresentata dalla riformulazione dell’art. 656 c.p.p. ed in particolare dal nuovo quinto comma, nel quale si stabilisce che se la pena detentiva, ancorché parte residua di maggior pena, non è superiore a tre anni ovvero a quattro anni nei casi ex artt. 90 e 94 D.P.R. 309/1990, il pubblico ministero ne sospende l’esecuzione (salvo le ipotesi in cui la sospensione sia stata già disposta ovvero si tratti di condannati per delitti ex art. 4bis ord. penit. ovvero si tratti di soggetti che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di custodia cautelare in carcere al momento in cui il provvedimento diviene definitivo). Dalla consegna dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione, l’interessato ha trenta giorni di tempo per inoltrare istanza, al pubblico ministero, per la concessione di una delle misure alternative di cui agli artt. 47, 47ter e 50 c.1 ord. penit. e di cui all’art. 94 D.P.R. 309/1990 (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà, affidamento terapeutico), ovvero la sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 90 D.P.R. 309/1990. Solo in caso di mancata presentazione dell’istanza oppure di inammissibilità o rigetto della stessa da parte del tribunale di sorveglianza, il pubblico ministero revocherà il decreto di sospensione.

Lo scopo della L. 265/1998 è stato, quindi, anzitutto quello di coordinare il compito del pubblico ministero ex art. 656 c.p.p. con quelli ulteriori ed integrativi previsti dalla legislazione penitenziaria. In particolare, per quanto riguarda le misure concedibili ab initio, con l’art. 656 c.p.p., nel suo attuale tenore, è stato introdotto un meccanismo processuale che mira a consentire l’accesso alle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario, per tutti i condannati che si trovino in determinate situazioni, direttamente dalla libertà, senza preventivo passaggio in carcere. Mentre prima della legge in questione le misure ab initio costituivano delle ipotesi particolari in un contesto normativo in cui le misure alternative venivano concesse, di regola, solo a seguito di una trasformazione della personalità del condannato o comunque di un suo comportamento successivo alla sentenza di condanna, quindi sulla base di presupposti non verificabili al momento della condanna medesima; ad oggi, il rapporto si è ribaltato in quanto si è preferito, anche per cercare di dare soluzione a problemi di sovraffollamento nelle carceri, agevolare la possibilità di essere ammessi ad una misura alternativa fin da prima dell’inizio dell’esecuzione della pena e quindi riservando gli strumenti tipici del trattamento penitenziario solo per i conda