Pianeta carcere: le proposte...

 

Pianeta carcere: le proposte non mancano...

di Stefano Anastasia

 

Dignitas, novembre 2003

 

A proposito di una politica della giustizia capace di guardare oltre il modello retributivo

 

La pur tardiva e insoddisfacente approvazione della legge 1 agosto 2003, n° 207, concernente la "sospensione condizionata dell’esecuzione della pena detentiva nel limite massimo di due anni", il cosiddetto indultino, ha almeno un grande, indiscutibile merito: ha chiuso la discussione, che sembrava infinita, sulla eventualità di un provvedimento generalizzato di clemenza in favore dei detenuti italiani. I risultati sono quelli che sono e coloro che - come chi scrive - ne hanno sostenuto la necessità, in ragione del sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani, non possono esserne soddisfatti.

Molte cifre sono state ipotizzate, sui potenziali beneficiari dell’indultino, ma nessuna di esse, neanche la più ottimistica, si è spinta fino a ipotizzare un, seppur momentaneo, azzeramento del sovraffollamento. Il tempo e la concreta applicazione della legge ci diranno quanti effettivamente saranno riusciti a usufruirne. Saremo contenti per loro, per quegli uomini e per quelle donne che si saranno visto scontare il residuo di pena scontabile; saremo contenti per loro come sempre siamo contenti quando qualcuno varca in uscita la soglia di un carcere. Ma i problemi delle nostre carceri restano tali e quali, primo fra tutti quello cui si voleva ovviare, il sovraffollamento. Unico merito, dicevamo, è che si è sgombrato il campo dai diversivi. Se la montagna (il ripetuto appello di Giovanni Paolo II e una vasta mobilitazione della società civile) ha prodotto un topolino, non sarà il nostro insistere sulla permanente necessità di un provvedimento di amnistia-indulto che potrà sortire effetti più significativi La chiusura di questa vicenda ci costringe a tornare a guardare in faccia i problemi del nostro sistema penale e penitenziario, senza che sia possibile aggirarli. Ci costringe a una elaborazione e a una iniziativa più compiuta.

I problemi del nostro sistema penitenziario sono melanconicamente noti agli addetti ai lavori e posso quindi limitarmi ad accennarli per punti.

Nella migliore delle ipotesi, come si è detto, gli effetti dell’indultino non azzereranno il sovraffollamento. Il che significa che, nella migliore delle ipotesi, resisterà un’eccedenza di reclusi che impedisce che siano garantiti quegli standard minimi di rispetto della persona detenuta definiti da norme di legge e regolamento e che impedisce che siano diffuse quanto necessario le opportunità di istruzione, formazione, lavoro essenziali a un effettivo reinserimento sociale.

Le persone detenute continuano a essere poco o per nulla tutelate nei diritti loro ascritti dalle norme in vigore. La sentenza della Corte Costituzionale n° 26 del 1999 , che giudicò in costituzionale l’assenza di rimedi giurisdizionali alla violazione dei diritti dei detenuti, non ha avuto alcun esito. L’impegno che si va meritoriamente diffondendo, tra le Regioni egli enti locali, alla istituzione di garanti o difensori civici per le persone private della libertà, non essendo - innanzitutto nelle intenzioni dei proponenti - alternativo a un efficace sistema di tutela giurisdizionale, non può supplire a questa incostituzionale carenza di mezzi di tutela.

Il benemerito tentativo di garantire ai detenuti un’assistenza sanitaria almeno sulla carta paragonabile a quella offerta alla generalità dei cittadini ha provocato dapprima una incertezza normativa, alla quale si sono aggiunti gravi tagli ai finanziamenti relativi, che fanno sì che l’offerta di assistenza sia in questi anni frequentemente peggiorata. L’offerta di istruzione, formazione e lavoro continua a essere non solo assolutamente insufficiente, ma priva di ogni programmazione e di verifica sulla resa effettiva, in termini di acquisizione di competenze utili nel percorso di reinserimento.

L’esiguità del personale di area pedagogica e della magistratura di sorveglianza, il loro sovraccarico di lavoro, impediscono una più ampia diffusione delle alternative al carcere e la migliore utilizzazione non solo delle norme di legge e regolamento, ma delle stesse opportunità offerte dal territorio su cui insistono gli istituti penitenziari.

La popolazione detenuta continua a essere selezionata sulla base di caratteristiche socio-anagrafiche accuratamente determinate. Si tratta di maschi relativamente giovani, con basso o nullo livello di istruzione, privi di lavoro o di competenza professionale specifica, provenienti dal sud del mondo o dal sud d’Italia. Quasi la metà è ancora in attesa di giudizio; i definitivi scontano prevalentemente pene brevi; la gran parte è in carcere per reati di piccola criminalità da sussistenza (furti, spaccio et similia).

Non mancano le proposte, per far fronte a questa situazione, da quelle che investono responsabilità legislative a quelle cui potrebbe far fronte una amministrazione più attenta, a quelle di cui si stanno facendo carico le regioni e gli enti locali. Certamente vanno scongiurati i propositi peggiorativi della situazione esistente, come quelli che ripetutamente vengono annunciati da esponenti del governo in carica, relativi a una più marcata criminalizzazione del consumo di droghe. Se già oggi non è azzardato dire che una buona metà degli ospiti delle patrie galere vi entrano direttamente o indirettamente a causa della vigente legislazione sulla circolazione delle sostanze stupefacenti (oggi che, formalmente, il mero consumo di droghe non è passibile di sanzione penale), non è difficile prevedere cosa potrà accadere se dovessero prendere piede i propositi di criminalizzazione del consumo, peraltro senza distinzioni tra sostanze e con il rischio di indurre nella più compiuta clandestinità il consumo di derivati della cannabis che coinvolge alcuni milioni di persone in Italia. Scongiurati simili propositi, quando saranno scongiurati simili propositi, potremmo tornare a discutere delle proposte per far fronte ai problemi reali dell’esecuzione penale in Italia.

Proposte non mancano, si diceva. Se ne potrebbe fare un lungo elenco. Mi limito piuttosto a richiamare tre fonti da cui ancora oggi attingere. Si tratta del complesso delle proposte finalizzate alla minimizzazione del diritto penale e della sanzione detentiva emerse nel convegno organizzato da Antigone nel decennale della legge Gozzini, delle linee-guida di riforma dell’amministrazione e dell’ordinamento penitenziario elaborate da Alessandro Margara al tempo del suo insediamento alla relativa Direzione generale e del cosiddetto Piano Marshall elaborato da Sergio Cusani e Sergio Segio a sostegno della campagna per la concessione di un provvedimento di indulto, progetto che raccoglieva i migliori contributi nella direzione del reinserimento sociale delle persone detenute.

Molti temi forse sfuggono, in questa selezione di fonti (dal tema accennato della tutela dei diritti, a quello lungamente dibattuto della affettività in carcere, agli strumenti normativi che possono supportare lo sviluppo di pratiche alternative alla composizione dei conflitti in sede giurisdizionale), ma non importa, ai fini del discorso che voglio svolgere, e che non è un discorso programmatico, quanto piuttosto politico in senso pieno, relativo cioè alla realizzazione delle condizioni necessarie a un abbandono del modello retributivo tristemente tornato in auge.

Il punto che mi interessa dunque è un altro. Quelle fonti citate a mo’ d’esempio, e le proposte che in esse sono contenute, risalgono a qualche anno fa. Sono fonti da cui ancora oggi attingere. Nel frattempo, la popolazione detenuta è incessantemente cresciuta, e non solo in questi ultimi anni, nei quali il tema penitenziario è caduto in desuetudine nell’agenda parlamentare o, peggio, è stato affrontato solo in un’ottica punitiva (si pensi alla istituzionalizzazione e all’ampliamento del 41 bis o al crudele proposito di portare nelle carceri per gli adulti i neo-maggiorenni già ristretti negli istituti penali per minori).

La popolazione detenuta è incessantemente cresciuta anche allora, anche negli anni che separano la prima (1996) dall’ultima (2000), in ordine cronologico, delle nostre fonti. Anni controversi, ma in cui non mancava una diversa sensibilità, al punto che una delle nostre tre fonti trova origine proprio nell’assunzione della massima responsabilità nell’amministrazione penitenziaria da parte dell’autore.

Di questo scacco, per le nostre proposte, occorre discutere se si vogliono creare le condizioni per un mutamento di politiche. Archiviato il tema delle soluzioni legislative al sovraffollamento penitenziario; scongiurate le ipotesi di peggioramento di una situazione già molto difficile; rifatto il callier des doleances e recuperate le migliori proposte, del perché esse non abbiano avuto il successo che meritavano bisognerà discutere. Bisognerà quindi evitare di riproporsi in un atteggiamento illuministico che non faccia i conti con le repliche della storia.

Ma bisognerà, nel contempo, evitare di cadere in una gabbia deterministica, secondo cui forze più grandi di noi governano l’andamento del sistema penale e penitenziario. Anni fa, nel pieno della rivoluzione italiana, quando il carcere tornava tristemente in voga, nella illusione popolare che esso potesse cancellare un sistema di potere logoro e corrotto, Massimo Pavarini propose più volte una riflessione acuta sull’anomalia penitenziaria italiana, che non era rinvenibile nella (allora) recente ripresa delle incarcerazioni e nella relativa domanda sociale di penalità cui essa era imputabile, ma viceversa nella sua precedente mitezza.

Quell’anomalia del secondo dopoguerra italiano era tutta nella capacità di costruire al di fuori del vocabolario della colpa e della punizione una risposta non solipsistica ai bisogni diffusi nel corpo sociale. Viceversa, l’accettazione dello slittamento semantico della nozione di sicurezza in direzione del vocabolario penalistico, avvenuta proprio in quegli anni, mentre noi elaboravamo le nostre migliori proposte, le hanno rese deboli e caduche.

Proposte non mancano, dunque, per cambiare il sistema penale e penitenziario italiano. A condizione che si sfugga alle opposte tentazione di innamorarsi di esse fino al punto di dimenticarsi del consenso loro necessario o, viceversa, di ritenere fuori dalle nostre umane possibilità mutare il corso delle cose. Proposte non mancano, a condizione di metterle in un gioco più ampio, che coinvolga a un tempo le politiche (non solo penitenziarie, non solo penali, ma anche sociali ed economiche) e le pratiche, la capacità cioè di costruire relazioni sociali significative nelle aree di maggiore sofferenza, dove con l’emarginazione e la devianza, crescono in parallelo l’intolleranza e la domanda sociale di penalità.

 

 

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