L'esecuzione penale

 

L’esecuzione penale, articolo di Ottavio Amodio

(presidente del Tribunale di Sorveglianza di Potenza)

 

Il Denaro, 29 gennaio 2004

 

Il diritto dell’esecuzione penale è quel complesso di norme che predispone e regola gli strumenti diretti alla concretizzazione del comando contenuto nella sentenza. In altre parole, esauritosi l’iter procedimentale e passata in giudicato la sentenza di condanna, nasce il diritto dello Stato alla realizzazione della pretesa punitiva: ed è in questa fase che interviene il diritto dell’esecuzione penale che rende concreta la predetta realizzazione.

Punto di partenza, quindi, dell’esecuzione penale è il "giudicato" cioè un titolo esecutivo costituito da un provvedimento irrevocabile avverso il quale non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione. La prima codificazione di un diritto dell’esecuzione penale risale al 1865 allorché si previde l’intervento giurisdizionale nella fase esecutiva solo, però, in relazione ad ipotesi specificamente determinate.

In Italia il regno Sabaudo per primo avvertì il bisogno di un controllo sull’andamento interno degli istituti di pena. Nel 1849 venne istituito un "ispettore Generale degli istituti penitenziari " che aveva il compito di stilare una relazione annuale sulle carceri. Nel 1851 nasce " il Consiglio generale delle carceri" che controlla gli istituti di pena. Nel 1853 il Gran Ducato di Toscana emana "il Regolamento Fondamentale" in cui si stabilisce che il Giudice Istruttore deve visitare almeno una volta al mese i detenuti. Nel 1930 viene istituito il Giudice di Sorveglianza: l’art 144 c.p. dispone che "l’esecuzione della pena detentiva è vigilata dal Giudice".

L’art 4 del regolamento del 1931 dispone che "il Giudice di Sorveglianza esercita la sorveglianza sulla esecuzione della pene detentive". Ma tutto ciò non influisce minimamente sulla modalità esecutive della pena: una volta divenuta esecutiva la condanna il condannato a pena detentiva viene arrestato , rinchiuso in carcere e lì rimane fino alla completa espiazione della pena. Nel corso degli anni, attraverso varie novelle legislative, il diritto dell’esecuzione penale viene sempre più ad intersecarsi con il diritto penitenziario, pur nel rispetto della reciproca autonomia: il primo è più direttamente inerente alle tematiche processuali connesse al titolo in esecuzione (cumulo, continuazione, incidente di esecuzione, fungibilità, applicazione o revoca del condono), il secondo più direttamente finalizzato alla tematica della rieducazione del condannato quale soggetto attivo. Nella direttiva 98 della Legge Delega n° 81 del 1987 viene sottolineata la necessità di un coordinamento tra procedimento di esecuzione e procedimento di sorveglianza, conservando al Giudice dell’esecuzione la competenza a decidere su tutte le questioni inerenti la validità e l’esistenza stessa del titolo esecutivo e riservando l’intervento della Magistratura di Sorveglianza in quelle materie direttamente inerenti la funzionalità della pena sul piano della rieducazione del condannato, l’accertamento della pericolosità sociale e la valutazione dei risultati del trattamento penitenziario.

Quindi in tema di esecuzione penale si configurano due tipologie di intervento dell’Organo Giurisdizionale:

il procedimento di esecuzione applicabile in tutte le questioni relative all’esistenza del titolo esecutivo e problemi connessi;

il procedimento di sorveglianza inerente l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e quant’altro relativo alla modificazione delle pene nonché i provvedimenti in tema di misure di sicurezza.

In entrambi la funzione di P.M. viene esercitata da P.M. della cognizione che mantiene una ambivalenza di funzioni non propizia all’autonomia e separatezza di giudizio. Le funzioni ambivalenti del P.M. non giovano alla professionalità di un soggetto che deve contemporaneamente rappresentare il diritto punitivo dello Stato e contrastare la richiesta dell’interessato in un procedimento il più delle volte instauratosi su richiesta del condannato che chiede una modifica del titolo esecutivo alla cui formazione il P.M. ha partecipato. Bisogna arrivare alla metà degli anni 70 del secolo scorso per avviare concretamente un discorso relativo ai diritti del cittadino detenuto.

La Corte Costituzionale con riferimento all’art 27 Cost. ("funzione e finalità della pena") nella sentenza n. 204/74 solennemente affermò che "sorge il diritto del condannato a che, verificatesi le condizioni poste dalla norma ,il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva dello Stato, venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo". Dopo ampio dibattito nel Paese e nel Parlamento nacque la Legge 354 /75 che rappresentò un’enorme progresso proprio in funzione della difesa dei diritti umani nelle carceri. Nel primo dei principi direttivi della predetta legge viene affermato che "il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della persona senza discriminazioni di nazionalità, di razza, di condizioni economiche e sociali, di opinioni politiche e credenze religiose".

La legge innovò profondamente l’esecuzione penitenziaria fino ad allora governata dal vetusto regolamento del 1931 che venne depurato degli aspetti più odiosi ed afflittivi; qualificò il trattamento finalizzato al recupero del condannato; previde nuove figure di operatori penitenziari e, soprattutto, giurisdizionalizzò l’esecuzione introducendo le misure alternative alla detenzione in carcere. La nuova legge centralizzò e rivalutò la persona del condannato: nel codice del 1930 e nel regolamento del 1931 l’esecuzione era pedissequa attività di quanto stabilito dal Giudice della cognizione. La pena era vista essenzialmente come momento di repressione; il Magistrato di sorveglianza, marginale nel trattamento, aveva solo funzioni amministrative.

L’unico organo con poteri concreti in materia di trattamento era il Direttore, che dipendeva direttamente dal Ministro ed era svincolato da ogni rapporto gerarchico con il Magistrato di Sorveglianza. Con la legge del 1975 si segnò definitivamente il passaggio da una legislazione dettata da finalità di mera disciplina restrittiva all’adozione di un sistema portato a favorire la convergenza dei comportamenti dei detenuti sulle finalità rieducative della pena Sempre sulla spinta innovatrice della Corte Costituzionale che affermò che "sul legislatore incombe l’obbligo di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle" e che "si devono creare misure che attraverso la imposizione di prescrizioni limitative ma non privative della libertà personale siano idonee a funzionare ad un tempo come strumento di controllo sociale e di promozione della risocializzazione" venne emanata la legge 663/86 - cosiddetta legge Gozzini che previde le misure alternative alla detenzione che si collocano nel quadro di una strategia dell’esecuzione penale che fa proprie misure limitative della libertà personale e che prevedono forme di assistenza e sono idonee a funzionare sia come strumento di controllo sociale che di promozione alla risocializzazione.

Con la Legge Gozzini si apre una vera e propria stagione riformatrice. Si consolidano i principi del garantismo dello "status" di detenuto e si passa definitivamente dalla considerazione del fatto alla valutazione della condizione dell’uomo. Viene introdotto il trattamento individualizzato (si passa dal concetto di general prevenzione al concetto di special prevenzione), viene incrementata la garanzia del controllo Giurisdizionale, si eliminano discusse limitazioni alla fruibilità delle misure alternative.

Nonostante il crescere di opinioni ostili alle tematiche di "recupero" e di "reinserimento" e nonostante si facesse strada nell’opinione pubblica l’idea che in queste due parole fosse la causa di una possibile recrudescenza della devianza e dell’aumento della criminalità, nonostante l’emanazione di provvedimenti che modificarono in senso restrittivo l’ordinamento penitenziario l’ideologia del trattamento individualizzato non è mai stata tradita, essendo conforme all’ipotesi rieducativa delineata dal costituente. La Corte Costituzionale ha continuato a procedere in questo senso: da ultimo la sentenza n° 26 del 1999 che prevede il controllo giurisdizionale su tutti gli atti dell’amministrazione comunque lesivi dei diritti dei detenuti. Lo stesso Legislatore, aderendo alla filosofia della Gozzini, ha emanato la Legge 165/98 - cosiddetta Legge Simeone, che si qualifica soprattutto per la logica del "meno carcere" e per l’incremento delle ipotesi di fruibilità delle misure alternative.

Nucleo centrale della nuova metodica penitenziaria sono "l’osservazione" e il "trattamento". La prima presuppone un’attività diagnostica; il secondo un intervento terapeutico che richiede una costante analisi dei risultati e una costante verifica delle condizioni soggettive per le opportune modificazioni o integrazioni degli interventi trattamentali. Ovviamente osservazione e trattamento non possono prescindere dalla collaborazione del soggetto, alla cui ricerca dovrà tendere l’atteggiamento pedagogico che non dovrà mai imporre la rieducazione. Osservazione e trattamento devono essere individualizzati in quanto devono tendere ad eliminare dalla personalità del delinquente tutto ciò che direttamente o indirettamente ha contribuito a causare il comportamento antisociale. Ed è proprio l’aver posto il condannato al centro dell’esperienza penitenziaria il punto centrale dell’ordinamento ; è proprio l’aver fatto del condannato il soggetto attivo della propria sorte durante la fase dell’esecuzione , coinvolgendolo al massimo sul terreno dei comportamenti coerenti con le finalità rieducative, l’idea - forza cui si informa l’intera costruzione normativa finalizzata alla diretta responsabilizzazione del condannato in ordine agli esiti del trattamento. L’aver fissato solidi principi in difesa dei diritti umani nelle carceri è stata certamente una conquista dell’Italia democratica: ma ciò non basta. Occorre attivare meccanismi d’accelerazione dei tempi processuali (di regola passano anni tra il fatto-delitto e il passaggio in giudicato della sentenza di condanna e durante questi anni spesso il condannato gode di ampi periodi di libertà); è necessario un raccordo tra sociale e penale e il reale coinvolgimento della società libera (andrebbero potenziati i centri di servizio sociale e andrebbero ampliati gli spazi di operatività degli enti locali); è necessario un potenziamento del volontariato affinché non sia più solo semplice coadiutoria mentre andrebbe finalizzato all’attività di recupero della socialità e della ricostruzione dei contesti ambientali.

Andrebbero costruite politiche sociali in grado di prevenire il delitto e di tutelare la sicurezza dei cittadini a mezzo di misure non segregative o non soltanto segregative. La lotta alla criminalità deve essere vista non come un problema giuridico ma sociale e, in ultima analisi, politico. Per dare alla normativa una lettura di sempre più aperta comprensione delle esigenze di recupero del condannato sarebbe necessaria una seria razionalizzazione del sistema penitenziario, bisognerebbe stimolare un movimento di crescita anche dall’esterno valorizzando le forze e le risorse del territorio e instaurando un sodalizio tra società reclusa e società libera.

Solo così la strada segnata dal Costituente potrà essere percorsa tutta: la sicurezza non comincia e non finisce nelle carceri ma va ricercata altrove. Solo così il carcere, pur rimanendo una struttura chiusa e coattiva, non sarà più e solo uno strumento di controllo o la risposta privilegiata per il soddisfacimento delle esigenze cautelari. Solo così la pena sarà adeguata, in sede di esecuzione, alla personalità del condannato e la rieducazione sarà veramente finalizzata al reinserimento.

 

 

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