L'indifferenza del Ministero

Indifferenza del ministero e della maggioranza alle carceri

 

Il già lento cammino delle riforme nel settore penitenziario con le elezioni della primavera 2001 si è praticamente interrotto. La nuova maggioranza ha dato la precedenza alle riforme di altri settori, ritenendo che quello penitenziario non presentasse caratteri di urgenza: chi ha sbagliato resti in carcere ed attenda: la pena e’ una cosa seria e deve essere “certa”, vale a dire espiata in carcere.

Questo discorso è errato perché dimentica in diritto la finalità rieducativa della pena che per lo Stato è obbligatoria (si veda per tutte l’elaborata e convincente motivazione della sent. 313/1990) ed in linea di fatto che lo Stato attualmente ha circa 42 mila posti nelle carceri, mentre le presenze continuano a crescere, avendo già raggiunto la quota di 57 mila e l’organico del personale addetto, per altro largamente scoperto, è quello strettamente tarato sulla capienza ordinaria degli istituti.

È stato anche dimenticato che dal 1989 non si adottano più atti di generale clemenza (di cui - è vero - si è abusato senza mai però preoccuparsi di costruire nuovi edifici), i soli che hanno in passato impedito il verificarsi di una situazione critica quale l’attuale. È ben vero che le responsabilità del passato non toccano l’attuale maggioranza, ma l’odierna situazione non è degna un Paese civile e costituisce un causa di forza maggiore che può e deve essere affrontata da questo Parlamento soltanto con un atto di clemenza, sia pure di caute dimensioni e condizionato rigorosamente (per es. un condono di 2 anni che escluda i reati più gravi, quelli di cui all’art. 4 bis. o.p.; sarebbe sufficiente a scaricare il carcere di 8 o 9 mila presenze senza alcun pericolo per la società libera)

L’emergenza non è aggredibile con altri mezzi: non è pensabile attendere alcuni anni necessari per realizzare il piano edilizio straordinario, che sarà reso noto soltanto a gennaio 2003.

Già il precedente governo aveva varato il programma straordinario ed alla Commissione Giustizia dall’ottobre 2000 procedeva l’esame del D.L. 4738 risultante dallo stralcio deliberato dall’assemblea il 10 0ttobre precedente, dei Capi 1,2,3,5.6.7.9 di un ampio ed elaborato d.l. del Governo, intitolato “Piano d’azione per l’efficacia della organizzazione giudiziaria e del sistema penitenziario”. Tale stralcio, imposto dall’allora minoranza, fu fatale e sfumò in tal modo per lo spirare della legislatura la possibilità di varare norme interessanti e nuove, quali per es,quelle del capo 1.

Gli artt. 1 e 2 del capo suddetto prevedevano la costituzione ed il finanziamento di un fondo speciale per il potenziamento delle strutture e delle dotazioni nonché dei progetti assistenziali per detenuti infermi di mente, affetti da AIDS, la costruzione di reparti ospedalieri per detenuti ammalati, il tutto sentite le Regioni ed i Comuni interessati.

E ancora prevedeva un programma pluriannuale di interventi straordinari per l’edilizia penitenziaria, autorizzando il governo a varare piani “segreti” ed a ricorrere a permute, leasing immobiliare, project financing.

Questa parte per fortuna fu inserita ed approvata in sede di legge finanziaria 2001 (legge n.388/2000 del 24 dicembre 2000, art. 148 comma 14)

L’attuale governo ha trovato comodo richiamare la suddetta norma nell’art. 5 del DL n 201/ 2002 del settembre, emesso dopo circa 18 mesi dallo insediamento durante i quali è stato svolto un notevole lavoro, ma nulla che riguardi il penitenziario, con la sola eccezione: la riforma “in peius” dell’art. 41 bis O.P. 

 Quasi la metà dei detenuti sono stranieri, extra comunitari e clandestini. Altrettanto impensabile è la loro espulsione, perché:

 

trattandosi di clandestini qui giunti volontariamente, in genere rifiutano l’espulsione e del resto in patria non

hanno più nulla, neppure una residenza

pesso lo stesso Stato di provenienza li rifiuta o almeno non collabora affatto per riceverli.

l’espulsione è un istituto poco studiato e praticato per le difficoltà che si incontrano nella fase esecutiva, quando l’ordine deve trovare chi lo esegue, nel senso che deve attivarsi non solo lo Stato che espelle ma anche il ricevente specie se questo non è confinante o non ha stipulato precisi patti di assistenza o non si ritiene vincolato da un ordine proveniente da un’autorità che gli è estranea e non riconosce.

 

Il fatto è poi che fino ad oggi il nostro sistema ha considerato l’espulsione come misura di sicurezza. Come tale non solo sempre revocabile, ma deve seguire la pena e non sostituirla.. Molto sbrigativamente si dice che l’espulsione “si esegue mediante accompagnamento alla frontiera”, il che non è vero.

Non si deve confondere il nuovo istituto, amministrativo, del respingimento,figura ignota ai tempi di Rocco, che ha natura e caratteristiche ben diverse.

Finalmente il legislatore con l’art. 15 della legge 189/002 ha mostrato di voler cambiare, sia pure con prudenza, consentendo che nei casi non gravi il giudice possa sostituire la pena con l’espulsione. 

La stampa, a conoscenza del grave sovraffollamento ha parlato di “carceri – lager”, il che - sia chiaro - non è vero ma sono tuttavia in condizioni assolutamente inaccettabili e indegne di un Paese civile in quanto violano precise norme di legge.

Infatti non solo il trattamento rieducativo è di fatto impossibile, ma sopprime i diritti fondamentali della persona (primo fra tutti quello alla salute).

Si veda la sent. della Corte Costituz. n. 26 del 1999, la cui lettura dovrebbe far arrossire tutti i reggitori del potere che negli ultimi 50 anni hanno quantomeno tollerato una situazione del genere).

D’altronde in caso di conflitto tra la tutela dei diritti suddetti e dei principi di cui all’art. 27 Cost. e quello della certezza (rectius effettività) della pena (principio teorico non codificato né citato dalla Costituzione), è evidente che è il secondo che deve essere sacrificato, in ossequio al “favor” ed al “primato della persona e dei suoi diritti” su cui, dice la Corte, e’ basato il nostro ordinamento.

Pertanto, prosegue la sentenza, nessun trattamento penitenziario può “comportare condizioni incompatibili con il riconoscimento della soggettività”. La dignità della persona è protetta “attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo che il detenuto porta con sé durante tutto il corso dell’esecuzione” e che tuttora non hanno sufficiente tutela giurisdizionale (da qui è discesa la declaratoria di incostituzionalità degli art. 35 e 69, VI comma O.P.)

 

L’abbandono del carcere da parte dell’attuale maggioranza è rivelato anche:

dal taglio di oltre il 10% delle spese per i detenuti, anche per quanto riguarda quelle per i medicinali

dall’abbandono del tentativo compiuto con il DPR 230/99 di trasferire il servizio sanitario nelle carceri direttamente alle Regioni, sia pure con cautela (a causa di evidenti e previste difficoltà di coesistenza all’interno di una struttura chiusa, di un sevizio essenziale ma gestito autonomamente da altri; dalle profonde differenze culturali tuttora presenti nel personale del DAP ed in quello del SSN; nella vivace resistenza frapposta al progetto dai medici penitenziari in nome della loro indubbia specializzazione (che per altro non tengono conto che la medicina penitenziaria non possiede autonomia sufficiente e deve fare ampio ricorso al SSN;

e del perché un cittadino per il fatto di entrare in carcere debba essere trattato, quanto alla tutela della salute, se non peggio di quando era libero, certamente in modo diverso;

dal fatto che in Parlamento pendono soltanto 6 DL in materia penitenziaria. Di questi, 3 giacciono nei cassetti della commissione (n. 33 S dal maggio 2001; n. 417 ed 846 C dall’ottobre), tutti di iniziativa di singoli parlamentari.

È rimasto soltanto il DL 568 B, che, unito a quelli n. 2307 e 413 C dopo una doppia lettura è giunto a fatica in porto o ai primi di novembre. Si deve rilevare che l’idea era già contenuta nell’art. 44 del DL 4738 della XIII Leg. di cui sopra si è già detto, che fu ripresentato dai senatori dell’opposizione nella XIV fin dal 1 agosto 2001. Con il che la competenza a concedere o negare la liberazione anticipata passa al magistrato di Sorveglianza che decide senza udienza, salvo il diritto delle parti a reclamare avanti il Tribunale. È nato così un nuovo processo con contraddittorio eventuale differito e che dovrebbe superare l’esame avanti la Corte.

L’altra decisione estende la liberazione anticipata agli affidati in prova: abbiamo la conferma legislativa che l’affidato non è un fortunato che ha evitato il carcere, ma uno che sta espiando la pena fuori le mura, sottoposto a precise prescrizioni. 

Infine, alcuni partiti della maggioranza si sono dichiarati contrari a provvedimenti di clemenza, non ostante gli interventi del Capo dello Stato e del Papa. Questo è il segno di una politica a senso unico, quella del “chiudi e getta la chiave”, politica che non approda ad alcun risultato positivo.

 

 

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