Stati Uniti

 

Dagli elmetti alle tute, la produzione bellica dei detenuti Usa è un'industria assai lucrosa

 

Il Manifesto, 22 ottobre 2003

 

Nelle fabbriche di Greenville, in Illinois, si producono ogni giorno oltre mille magliette mimetiche in tinta con il deserto. Nel 2002 soltanto ne sono state acquistate 194.950 dal Pentagono. Lavorano senza sosta anche i 300 tra lavoratori e lavoratrici a Beaumont, in Texas, nella produzione di elmetti Kevlar che riforniscono il 100% del fabbisogno dei militari a stelle e strisce. Tre paia di pantaloni su quattro oggi in Iraq sono prodotti nelle fabbriche di Atlanta, Beaumont e Feagoville. Ma i plausi del Presidente Bush a favore dell'industria bellica statunitense non sono mai andati a questi lavoratori, forse perché sono tutti "ospiti" delle prigioni federali. Senza di loro lo sforzo guerrafondaio nordamericano sarebbe decisamente più difficile.

I soldati Usa hanno magliette, scarpe, mutande, pigiami, asciugamani, materassi, veicoli, radio, mappe, cavi per missili e comunicazioni, in larghissima parte grazie ai 21.778 (dati 2002) detenuti che lavorano presso le Federal Prison Industries (Fpi, www.unicor.gov), una società for-profit di proprietà e gestita interamente dal Dipartimento prigioni a Washington (www.bop.gov). Soltanto nel 2002 la Fpi ha fatturato 678,7 milioni di dollari, tra beni e servizi, al governo americano, di cui oltre il 60% sono andati esclusivamente al Pentagono.

L'uso del lavoro carcerario negli Stati uniti, (ricordate i detenuti con palla al piede che spaccano le pietre), non è una novità, men che meno il loro utilizzo per esigenze belliche. Fondate dal presidente Franklin Delano Roosevelt nel 1934, le Fpi cominciarono a rifornire gli uomini al fronte già durante la Seconda guerra mondiale. In quattro anni produssero aerei, bombe, paracaduti, tende e quant'altro per un valore di 75 milioni di dollari da inviare ai soldati in Europa e nel Pacifico. Passando per la guerra di Corea ed il Vietnam, sino alla prima guerra del Golfo e alle operazioni di recupero post 11 settembre, i prodotti delle industrie carcerarie hanno sempre accompagnato i militari Usa. Nel corso degli anni il ruolo delle Fpi è cresciuto in maniera esponenziale, facendoli balzare al 39mo posto tra i fornitori dell'amministrazione Usa.

Se a Baghdad una divisa si strappa, è probabile che sia inviata a Edgefield, nella Carolina del sud, per essere rammendata e lavata per cinque dollari. Quando un marine si trova in un'imboscata e chiama aiuto via radio lo fa grazie agli apparecchi prodotti nei 14 stabilimenti e dai 3.000 "dipendenti" delle industrie penitenziarie che riforniscono il Pentagono di sistemi di comunicazione. Soltanto nel 2002 queste produzioni hanno generato introiti alle Fpi per un valore di circa 30 milioni di dollari.

Tra i servizi offerti dai detenuti, inoltre, anche la riparazione degli ormai celeberrimi Humvee, quelle jeep corazzate che vanno a fuoco giornalmente in Iraq. Nel corso degli anni le attività della Fpi sono state criticate soprattutto dalle imprese concorrenti nelle forniture al Pentagono, che per legge deve acquistare prodotti "made in the Usa". Secondo la legislazione originale, la società beneficiava di uno status speciale, secondo il quale le agenzie federali erano obbligate ad acquistarne i prodotti anche se potevano essere reperiti altrove ad un prezzo minore. Dal maggio di quest'anno, tuttavia, è stata modificata la sezione 819 del regolamento relativo agli acquisti del ministero della Difesa.

La nuova legge richiede che vengano effettuate delle ricerche di mercato prima di procedere all'acquisto di un prodotto offerto dalle Fpi, alle quali, inoltre, è stato imposto un tetto del 20% di quota di mercato per categoria merceologica prodotta. La liberalizzazione delle forniture alla Difesa non ha però impedito al Pentagono di invocare, nel giugno scorso, la clausola di emergenza nazionale in base alla quale le Fpi potranno superare i tetti di produzione imposti dalla legge.

Il consiglio di amministrazione ha, quindi, ratificato la richiesta di aumentare la produzione di elmetti e sistemi di comunicazione portatili in seguito alle esigenze belliche delle missioni Enduring Freedom e Iraq Freedom. Secondo i fautori delle Fpi lo scopo principale di queste aziende sarebbe quello di generare dei profitti che possano alleviare le spese del già di per sé costoso sistema carcerario americano utilizzando manodopera forzata, esentasse, sottopagata (dai 25 cent ad 1,15 dollari all'ora) e fregandosene degli standard di sicurezza o di qualsiasi contributo alla previdenza sociale che graverebbe su qualsiasi altra impresa.

I fautori delle Fpi ne intravedono l'enorme potenziale economico che, se utilizzato nella maniera corretta, ovvero nella competizione con quei beni a basso contenuto tecnologico che altrimenti verrebbero prodotti in paesi in via di sviluppo (leggi Cina), eviterebbe di creare un conflitto con i lavoratori americani "liberi" e di arginare l'emorragia di posti di lavoro e di profitti verso l'estero. Se è vero che il lavorare e l'imparare un mestiere per chi è in carcere è senz'altro un modo per alleviare la pena e renderla un primo passo verso un futuro reinserimento nella società, è altrettanto vero che in questo caso specifico si lucra, per giunta a scopi bellici, su chi è in carcere.

Ma non è tutto qui. Laddove ci si rende conto che conviene investire nelle produzioni carcerarie, si disinveste in programmi di reinserimento alternativi, per il recupero dei tossicodipendenti, piuttosto che consulenze o progetti di educazione per la popolazione carceraria. In California, per esempio, i programmi di reinserimento no-profit sono stati tagliati del 20%, pari a 35 milioni di dollari e 300 insegnanti in meno per i corsi all'interno delle prigioni. Il budget totale per la gestione dell'apparato detentivo negli Usa è di circa 4,6 miliardi di dollari l'anno.

L'amministrazione Bush ha in previsione di spendere per il 2004, 238 milioni di dollari per i programmi di reinserimento dei detenuti, mentre ne spenderà oltre 750 per le Federal Prison Industries. Si prepara anche un'espansione delle carceri-fabbriche dalle attuali 111 a 120 per altri 2.160 fortunati detenuti.

 

 

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