Russia

 

Le prigioni in Russia: il passato in salsa nuova

di Andrej Borisov

 

La Nuova Europa, novembre - dicembre 2004

 

Tra le filiazioni dirette del dissenso c’è un gruppo che si occupa del mondo carcerario, dove molto pesante è ancora l’eredità del passato. Su questo terreno si scontrano gli attivisti che, a partire dalla propria storia, difendono la libertà della persona, e il nuovo Stato, più laico e moderno, che pretende di razionalizzare tutto e risolvere ogni problema.

 

Nel 1988 alcuni ex detenuti politici, appoggiati dall’accademico Andrej Sacharov, hanno fondato un "Centro consultivo per la riforma del diritto penale", che nel 1991 si è fatto promotore di alcune proposte di legge per umanizzare le condizioni di reclusione, e per avviare la riforma carceraria e giudiziaria. Il Centro ha avuto un ruolo di primo piano anche nella vicenda della rivolta generale nelle carceri russe avvenuta nell’autunno del 1991, ottenendo qualche notevole successo nel porre le premesse della riforma giudiziaria. Come riconoscimento di questa attività, nel 1994 il direttore del Centro Valerij Abramkin è stato chiamato a far parte della Commissione per la riforma giudiziaria presso la presidenza russa. L’attività propriamente giuridica si affianca poi a quella informativa e culturale, che si concretizza in programmi radio e in pubblicazioni di libri e opuscoli sull’argomento. Nel 1998, per tenere desto l’interesse sul problema, è stata ideata una mostra, intitolata Uomo e prigione, che da allora ha continuato a girare in tutto il paese. Ma con queste attività culturali non si esaurisce l’impegno del Centro, perché viene attribuita grande importanza anche al sostegno diretto dei detenuti, attraverso la corrispondenza personale con molti di loro e con i parenti, o attraverso le visite frequenti nelle prigioni. La massima attenzione viene concentrata sulle prigioni femminili e su quelle minorili; il problema dei minorenni che finiscono in galera è molto grave in Russia, e il Centro cerca da una parte di individuare i motivi per cui tanti ragazzi finiscono dietro le sbarre e dall’altra di studiare le conseguenze che questa permanenza produce sulla loro personalità.

Purtroppo, nel corso degli anni ‘90 la riforma giudiziaria è stata bloccata dai dicasteri militari. Il Centro ha allora dirottato i propri sforzi su un altro obiettivo, quello di diminuire la popolazione carceraria. E su questo sta lavorando attualmente.

 

Recentemente mi è capitato tra le mani un libro prerivoluzionario con un titolo classico per il XIX secolo, "Nel mondo dei reietti". L’autore, un certo Mel’sin, nobile, in due volumi di 300 pagine l’uno1 descrive dettagliatamente i particolari della sua vita ai lavori forzati. In genere, all’epoca era molto popolare l’interesse per il popolo e le sue sofferenze, e diverse centinaia di membri dell’alta società, per cause politiche, in quei decenni poterono sperimentare di persona le delizie della vita in galera. E tuttavia, questo libro mi ha sorpreso per diversi motivi. Sono già parecchi anni che studiamo il mondo carcerario in Russia, il nostro Centro ha iniziato la sua attività proprio cercando di offrire una lettura sociologica ed etnografica della realtà carceraria oggi. Nel giro di qualche anno abbiamo raccolto un numero enorme di lettere e interviste, abbiamo pubblicato le prime raccolte di materiali che fornivano un quadro generale, corredate dai primi commenti e deduzioni. Al lavoro hanno preso parte anche sociologi di professione, e tuttavia molto di quello che abbiano raccolto non è stato pubblicato e ben presto, già nei primi anni ‘90, il lavoro si è trasformato in una "guerra contro l’ordine costituito". Molti si erano lasciati inebriare dalle nuove possibilità di cambiamento, e a questi cambiamenti bisognava partecipare. Per questo il campo d’azione fondamentale della nostra organizzazione si è spostato all’ambito politico e giornalistico. Non si è trattato sicuramente di un vicolo cieco, poiché i nostri sforzi hanno dato i loro frutti, tanto più che in tutto questo periodo non abbiamo mai smesso di raccogliere materiali e di analizzarli. Ma non c’era più il tempo di farlo in modo sistematico.

Per questo, aver trovato un libro scritto in passato con motivazioni molto simili alle nostre è stata una sorpresa. Una piacevole sorpresa, dato che l’autore aveva buone doti letterarie e sapeva tracciare degli schizzi vivacissimi della vita del tempo, ma aveva anche una certa intuizione morale, che lo spingeva continuamente all’analisi e alla riflessione. Anche noi a suo tempo avevamo posto alla base delle nostre ricerche i racconti dei detenuti politici, perché erano persone che potevano raccontare della propria vita in prigione in maniera più organica. Fra le altre testimonianze che abbiamo raccolto, quelle più ricche di informazioni sono state quelle delle cosiddette autorità2, mentre dei restanti racconti i più interessanti erano la biografia di un gallo-capo3 e le interviste con un procuratore caduto in disgrazia; si tratta di persone che hanno dato mostra di una certa indipendenza intellettuale, dote che aveva appunto permesso loro di raggiungere il proprio status.

In pratica, ci siamo trovati di fronte a un libro scritto da un’autorità dell’epoca, che offriva per di più una testimonianza ben più precisa di quelle che abbiamo a disposizione attualmente.

Peccato, mi son detto, non avere avuto il tempo di cercare prima questo libro. Ricordo che durante un viaggio, il direttore di un carcere mi aveva rimproverato perché usavo i criteri carcerari4. Ma che lingua parla – mi fa – quando dice zona rossa o zona nera5? Questa non è lingua russa. A quel punto mi ero reso perfettamente conto che si stava cercando di cancellare alcune realtà distruggendone il nome, e a questo attacco reagii dicendo che il mio era il russo contemporaneo. Così, se non altro, avevo difeso il mio diritto a chiamare le cose coi loro nomi. Ma a quanto pare, le realtà che questi nomi denotano non sono soltanto contemporanee, esistevano anche in passato, benché una volta avessero altri nomi. Uno dei metodi preferiti del Ministero degli interni6 sovietico per combattere i criteri carcerari era quello di negare come una leggenda l’esistenza di una tradizione consolidata della malavita. Dicevano che non esisteva niente del genere e che erano tutte frottole, uno scadente romanticismo da galera che faceva comodo soltanto a un pugno di autorità che si erano fatte strada. Questa tattica funziona ancor oggi.

 

Isolare i criminali di professione

 

Non si può dire che l’amministrazione delle prigioni abbia del tutto torto, infatti ogni generazione porta con sé un proprio modo di "recuperare le tradizioni", e nel far questo è mossa dai motivi più diversi, talvolta anche inconfessabili. Una delle scoperte più importanti fatte da Valerij Abramkin e Valentina Cesnokova riguarda proprio il ritorno di una di queste tradizioni nelle prigioni sovietiche negli anni ‘60, quando tutti i criminali di professione di una certa fama vennero fatti fuori o costretti al ritiro. A dire il vero, in questo caso i motivi non erano affatto inconfessabili. Riportiamo una citazione dal testo di Abramkin e Cesnokova7: "Come abbiamo già detto, l’influsso dei malavitosi, dei professionisti del crimine, sulla gran massa dei detenuti verso la fine degli anni ‘50 era assolutamente insignificante. Era diminuita di molto dopo una sanguinosa lotta intestina e la "riduzione" del numero dei professionisti del crimine. Gli irriducibili vennero spediti nelle prigioni speciali, quindi si aprirono nuovi procedimenti giudiziari contro di loro, in modo da condannarli di fatto all’ergastolo. Le nuove norme introdotte nel 1961 prevedevano un’altra serie di misure che avrebbero dovuto portare alla definitiva scomparsa dei malavitosi dal collettivo dei detenuti. Vennero introdotte categorie diversificate di condannati, così che i recidivi non potevano più stare insieme ai detenuti alla prima condanna, mentre i condannati per reati gravi non potevano stare con i colpevoli di reati minori. Nacque il concetto di "condannato con atteggiamento negativo", che non veniva identificato solo da certe azioni, giudicate come "resistenza all’amministrazione" o "renitenza al lavoro socialmente utile", ma anche dalla denuncia degli informatori del servizio operativo; quest’ultimo era attento a scovare chiunque condividesse la mentalità criminale e inseriva una precisa nota in questo senso nel fascicolo personale. Si cercava di tenere separati dagli altri gli elementi negativi, isolandoli in speciali prigioni o nella prigione interna del lager. Evidentemente… questo ha dato risultati palpabili. I vecchi funzionari del sistema penitenziario affermano che nella prima metà degli anni ‘60 nelle colonie normali non c’erano più veri malavitosi… ma a partire dalla metà degli anni ‘60 nella maggior parte delle colonie si impose un nuovo ordine informale, nel quale i delinquenti comuni incominciarono a giocare un ruolo sempre più importante. 20- 25 anni più tardi, persino sulla stampa ufficiale si sarebbe incominciato a parlare apertamente del fenomeno imponente dei professionisti del crimine.

Il paradosso sta nel fatto che il tentativo di "rimettere sulla retta via" (ossia indurre a collaborare con l’amministrazione) l’intera popolazione del Gulag, aveva aumentato l’influenza dei professionisti del crimine, che pure erano stati praticamente distrutti. Nonostante l’annosa guerra contro la subcultura criminale, è quest’ultima oggi a fornire la base della legge del carcere. Quelli che "hanno imboccato la via del riscatto" (nel gergo del lager, i caproni, ossia le persone che collaborano apertamente con l’amministrazione), e i professionisti del crimine oggi sono dei gruppi molto ristretti. La gran massa dei detenuti si trova nel mezzo, ma alla fine preferisce comunque i malavitosi ai caproni. Cioè non collabora con la direzione".

L’amministrazione carceraria oggi nella sua prassi può rifarsi al massimo al periodo degli anni ‘70, e la maggioranza dei funzionari del Ministero degli interni (poi del Ministero della giustizia, infatti le prigioni alcuni anni fa sono state trasferite alle sue competenze) ha conosciuto il mondo carcerario russo solo a partire dagli anni ‘90. Inoltre, molti di loro non conoscono certo la popolazione carceraria dal suo lato migliore. Per questo le loro parole contengono una buona parte di ragione.

 

Nuovi criminali e nuovo codice d’onore

 

Ma lo stato attuale delle cose per quanto riguarda il codice di comportamento nelle carceri non è poi tanto banale. Nel periodo sovietico i detenuti venivano mandati a scontare la loro pena lontano dalle zone di provenienza, inoltre potevano scontare la condanna in due o più penitenziari: il Gulag sovietico aveva cura di mescolare e spostare regolarmente il suo contingente speciale8, così che i costumi e gli ordinamenti al suo interno diventavano più omogenei.

Verso la fine degli anni ‘90 si è imposta un’altra prassi: le regioni hanno incominciato a mandare lontano i propri detenuti solo nel caso in cui nella zona non esistano colonie penali del regime richiesto. La massa fondamentale dei detenuti rimane invece a scontare la condanna non lontano da casa, e soltanto le megalopoli come Pietroburgo e Mosca continuano a disseminare i propri "clienti" in tutto il paese. Il modo per rimescolare le masse umane ha assunto una forma diversa: oggi la libera migrazione degli uomini all’esterno finisce per infiltrarsi anche nel carcere. Questa migrazione implica anche il rimescolamento dei membri delle varie bande criminali.

Così, sullo sfondo delle nuove tradizioni carcerarie locali che si vanno rapidamente creando, l’elemento universale legante sono gli immigrati, in particolare i cosiddetti fratellini9 che per errore sono finiti dentro (com’è noto, infatti, negli anni ‘90 molti di loro riuscivano ad evitare tranquillamente la prigione). E spesso questi fratellini si sono portati dietro, sotto la maschera dei vecchi criteri, un codice di valori completamente diverso da quello formato negli anni ‘60, così tenacemente smantellato dal regime sovietico negli anni ‘80 grazie al sistema delle prigioni chiuse. Per spiegarci con un’immagine, potremmo dire che è come se la minorenne (la colonia penale per adolescenti) avesse invaso l’intero sistema penitenziario. Nelle colonie per minorenni, come è già stato scritto più volte, tutto ciò che nelle zone per gli adulti è rispettato come legge, degenera in un rituale esteriore barbaro e assurdo, perché si rispetta la lettera e non la sostanza.

Ciò non vuol dire che in prigione non ci fosse nessuno ad accogliere i fratellini. Ma il fatto è che negli anni ‘90 molti vecchi criminali di professione erano stati uccisi, e i nuovi che ne avevano preso il posto spesso non erano mai stati in prigione, cosicché l’affossamento della legge interna delle prigioni da parte dei minorenni si è verificato anche perché era andato perso il fondamento stesso della sua superiorità morale - cioè la capacità di vivere nelle condizioni limitanti della prigione, e di organizzare questa vita in modo razionale. Le autorità di rango inferiore e gli altri detenuti che ricordavano i vecchi criteri, sono riusciti a conservarli soltanto là dove l’amministrazione carceraria era più debole, o più saggia.

Per questo, prima di demolire i giusti criteri carcerari, le amministrazioni dei penitenziari avrebbero dovuto avere una memoria storica un po’ più lunga. Cito dal libro di Mel’sin: "I vagabondi sono una vera maledizione per ogni compagnia. Per lo più sono gente depravata che non ha, come si dice, ni foi ni loi, ma ha un forte spirito di corpo e forma nella compagnia un vero Stato nello Stato. Secondo loro quello di vagabondo è il massimo titolo d’onore per un detenuto: sta a indicare un uomo che tiene alla libertà sopra ogni cosa, un tipo sveglio, che sa scansare qualsiasi pericolo, evitare qualsiasi punizione. […]

In generale i semplici galeotti vengono chiamati col nome dispregiativo di cavallette o teppaglia. A volte ci si rifiuta di credere quello che sono capaci di fare i vagabondi nelle prigioni o durante i trasferimenti, ma bisogna crederci per forza perché sono fatti. I vagabondi sono i re nel mondo dei carcerati, fanno girare la squadra come vogliono perché sono molto solidali. Occupano tutti i posti lucrativi, al caldo: sono capi e sottocapi, cuochi, panettieri, addetti all’infermeria, tuttofare; sono tutto dappertutto. Come capigruppo non danno le aggiunte al rancio, vendono i posti sui carri; come cuochi rubano la carne del pasto comune e la distribuiscono alla loro banda, mentre alla povera teppaglia danno la risciacquatura di piatti che non mangerebbe neppure un maiale; come addetti all’infermeria i vagabondi fanno morire di fame i loro pazienti, li derubano e spesso li spediscono all’altro mondo se questo gli fa comodo…

Però, negli ultimi tempi ai vagabondi hanno rotto le corna. In questo c’entrano anche le leggi più severe sul vagabondaggio: prima i vagabondi venivano condannati al domicilio coatto dove erano stati arrestati, ma dal 1878 vengono condannati alla relegazione solo quelli arrestati nei governatorati russi, mentre gli altri vengono condannati ai lavori forzati. Di là vengono poi spediti a centinaia e migliaia a Sachalin. Le fila dei vagabondi si sono fortemente ridotte, sono spariti soprattutto i vagabondi anziani, temprati nelle battaglie, che controllavano severamente il rispetto del vecchio codice dei detenuti. A questo va aggiunto che le condizioni detentive sono cambiate: l’amministrazione ha incominciato a ingerirsi nel funzionamento interno dei gruppi di carcerati, nella loro vita più intima, ponendosi decisamente dalla parte dei galeotti; in molte prigioni è stato esplicitamente proibito ai vagabondi di assumere qualsiasi funzione di responsabilità. E la massa dei detenuti ha incominciato a sollevare la testa.

Un nuovo spirito pervade il mondo carcerario, e produce uno sbandamento generale, la caduta delle vecchie abitudini e dei costumi carcerari. Scompaiono molti aspetti simpatici, ma anche molti aspetti orrendi, una volta usavano ammazzare chi smascherava i propri complici, e chi faceva delazioni. Adesso i vagabondi cominciano a stare più quieti, e quando hanno la peggio in qualche schermaglia verbale con i galeotti, si limitano a digrignare i denti".

 

Una riforma illusoria

 

Sembrano cose già note, vero? Del resto, se ogni tanto la direzione delle carceri non facesse una sorta di "pulizia", cosa ne sarebbe delle prigioni? Ma allora significa che va bene così? Cos’è questa forza secolare che manda avanti le cose, e come mai in Russia non succede mai niente?

Continuo a citare: "Fui mandato a Selaj, in una prigione assolutamente nuova, appena costruita, che poteva contenere non più di 150 persone. La miniera cui apparteneva era rimasta a lungo abbandonata, e avevano appena incominciato a riattarla. Nell’organizzare questa piccola prigione la direzione intendeva principalmente sperimentare una prigione modello, come all’estero. Avevamo sentito che negli ultimi anni ai lavori forzati nella regione di Nercinsk avevano introdotto ordinamenti simili. Ma non appena questi istituti cominciavano a funzionare, diventavano uno spauracchio per i detenuti, come qualcosa di nuovo e di sconosciuto". Il libro prosegue con la descrizione dell’arrivo nella nuova prigione: "- At- tenti! Giù i berretti! - gridò un sorvegliante saltato fuori chissà da dove. L’ordine era talmente inatteso che la colonna di detenuti stanchi e impreparati si confuse e tolse i berretti lentamente, alla rinfusa.

- Cosa sarebbe questo?! - gridò il tenente, battendo il bastone per terra, - non si obbedisce agli ordini?

- Dunque - cominciò a dire Lucezarov, aveva una voce bassa e come stanca, ma si sarebbe sentita una mosca a distanza di cento sazen, dal silenzio che c’era. - Dunque, ascoltatemi attentamente. State per entrare in una prigione dove prima di voi non c’è mai stato un detenuto, una prigione dove funzionano delle regole speciali. Sì, speciali (la voce incominciava ad alzarsi)! Molti di voi, probabilmente, sono già stati ai lavori forzati, hanno visto altre prigioni. Magari ricordano il detto che una scopa nuova scopa sempre meglio, ma non dura molto; e pensano che qui ci sarà ferrea disciplina solo i primi giorni, ma poi tutto tornerà nei soliti binari, come dappertutto, che salteranno fuori le carte da gioco, la vodka, e le carabattole, e gli zuccherini10. Cacciate via dalla testa simili sciocchezze. Sarò severo e intollerante e non smetterò di adempiere le istruzioni che ho ricevuto dall’alto. Sarò giusto ma severo. Più severo che giusto! Non dimenticatevi nemmeno per un minuto che siete condannati ai lavori forzati, privi di qualsiasi diritto, compreso quello alla fiducia. Sappiate che crederò più a un solo sorvegliante che a settecento detenuti. Vi punirò per oziosità, indolenza, maleducazione, disobbedienza, per la minima trasgressione. Ve lo dico chiaro: non sono un grande assertore della frusta e della verga, perché so che con degli artisti come voi non servono. No, io vi colpirò nei punti più sensibili. Oltre a chiudervi in cella di rigore, a pane e acqua, con i ceppi e le manette, persino alla catena se serve, toglierò ai colpevoli le riduzioni e li manderò di nuovo sotto processo".

Più oltre, il direttore della prigione, Sestiglazyj, istruisce i detenuti: "– Bene, – incominciò con voce imperiosa – oggi col mio consenso avete scelto il vostro capo, i cuochi e gli altri inservienti. Che questa gente sappia (e sappiate anche voi!) che io non tollererò ruberie nella mia prigione. Per ogni caso di frode nelle cucine, in infermeria o altrove, manderò i colpevoli sotto processo. Non starò a dire che rubare ai propri compagni è una vergogna e un disonore persino dal vostro punto di vista di galeotti. Sappiate, per vostra norma, che oltre alle derrate previste dalla norma non lascerò entrare niente nella prigione. Tè, zucchero e tabacco li potete comprare coi vostri soldi solo una volta la settimana, nella quantità da me stabilita e non di più. Non lascerò passare messaggi clandestini. Non permetterò neppure miglioramenti individuali nel vitto. Non permetterò che alcuni vivano meglio degli altri! Come si fa nelle altre prigioni non mi interessa. La prigione di Selaj è una prigione modello di lavori forzati, e voglio che non lo sia solo sulla carta".

Spero sia chiaro il motivo di queste lunghe citazioni. Di nuovo troviamo molte somiglianze sospette. Non è forse vero che i signori Lucezarov e Sestiglazyj ci ispirano simpatia? Sarà capitato anche a noi di incontrare gente simile se non in prigione, almeno nell’esercito, o in qualche ufficio. Ci sono queste persone di idee progressiste, che difendono le proprie idee. E poi si nota in loro un certo calore umano, non sono delle macchine che funzionano senza guardare in faccia a nessuno.

Ma come ci è familiare questa voglia di rinnovamento! Viene naturale paragonare il signor Lucezarov a colui che lo aveva preceduto, una vera belva in vesti umane. E poi si dice a chiare lettere che la prigione di Selaj è un poligono di prova, un modello per gli altri istituti di pena.

E tuttavia, i lettori attenti avranno già notato alcune incongruenze in questa prigione modello. Certo, i capi rubano il vitto, e Lucezarov cerca di farli smettere. Ma a quanto dicono le cavallette, - proprio quelle stesse cavallette alle cui spalle vivono i vagabondi - con la sbobba della prigione non si sopravvive, e se è vietato avere del cibo personale, vuol dire che i nuovi ordinamenti rappresentano un grosso peggioramento del tenore di vita.

Una riforma di questo tipo, fra l’altro, è stata fatta anche ai tempi di Chruscëv. Anche in questo caso la logica esteriore delle riforme sembrava positiva. Avevano incominciato a rinchiudere i recidivi separatamente dai novellini11. Era proibito avere soldi personali in prigione; avevano introdotto limitazioni per i pacchi e le visite. Nei primi anni di Chruscëv, in prigione c’era davvero più da mangiare e più soldi che in libertà, chi usciva aveva un piccolo capitale. Erano questi gli aspetti che i riformatori cercarono di eliminare. Cercarono di fare del carcere una punizione e non un feudo dei delinquenti. Queste limitazioni sono state parzialmente tolte solo negli anni ‘90, in seguito all’ondata di rivolte tra i detenuti russi. Siamo abituati a considerare il periodo chruscëviano come un "disgelo". All’inizio fu effettivamente così, ma gli anni successivi non si differenziarono molto da quelli staliniani.

 

La storia si ripete

 

Se poi guardiamo la cosa dalla prigione, sarà difficile vedere il vettore di sviluppo che di solito si traccia, in tutte le sue varianti: dallo zar ai bolscevichi, da Stalin a Chruscëv, dall’URSS alla nuova Russia. Se guardiamo tutto ciò con gli occhi dei carcerati, abbiamo davanti soltanto dei cicli che si ripetono con un’impressionante costanza: di tanto in tanto qualcuno cerca di riportare l’ordine, ma i suoi sforzi affondano nel groviglio della vita e il partito opposto, la comunità criminale, si prende la sua rivincita. C’era stata, questa rivincita, anche negli anni ‘30, cito in proposito Aleksandr Sidorov, che ha studiato dettagliatamente la storia del problema12: "Tutta la storia dell’"ordine criminale" dimostra che l’applicazione della legge e l’osservanza severa delle "norme" non dipendono innanzitutto dagli stessi membri del mondo criminale, ma dalle circostanze nelle quali dovevano agire i delinquenti di professione. E la situazione non era certo favorevole ai malavitosi.

Innanzitutto, i delinquenti erano costretti a vivere nelle stesse condizioni orribili e penose delle baracche, come tutti gli altri detenuti. Naturalmente loro, in quanto esperti veterani dei luoghi di pena sapevano adattarsi meglio di chiunque altro alla situazione, a spese degli altri gruppi di prigionieri e prendendosi il meglio del poco che c’era. Ma la scelta era piuttosto ristretta.

Nessuno aveva intenzione di fornire un vitto speciale ai delinquenti di professione, mangiavano lo stesso degli altri. Derubavano chi lavorava, questo è certo. Del resto anche così si poteva prendere ben poco, giusto una parte della razione. E in cosa consisteva la razione? Facciamo un esempio. Ai lavori di costruzione della tratta Cib’ju- Krutaja (ai lavori pesanti), lo zek che adempiva la norma riceveva 1 kg di pane nero al giorno (o meglio avrebbe dovuto riceverlo). Chi faceva gli altri lavori riceveva 600- 800 grammi. Se non si adempiva la norma si prendevano 300- 400 grammi. Nella cella di isolamento punitivo davano 200 grammi. La razione quotidiana dei trivellatori comprendeva anche 75 gr. di semolino e 11 di grasso. Agli altri operai andavano 60 gr. di semolino e 8 di grasso. La norma mensile di carne era 2 kg, e la carne era sempre carne salata, che il più delle volte era sostituita dal pesce. Come verdura davano rape da foraggio, più raramente crauti acidi. Per i detenuti non erano previsti burro, né olio, né latticini. Quanto ai pacchi per posta o portati a mano, meglio non sognarli neppure.

Secondariamente, i cekisti nella loro durezza, vedendo l’opposizione del "mondo criminale", si sono comportati come al solito, e senza far troppe cerimonie hanno riunito i delinquenti abituali nei cosiddetti Rur13 (compagnie a regime rafforzato). Di per sé queste compagnie esistevano già alle Solovki, per intimorire i detenuti. Ma questa esperienza tornò particolarmente utile nel periodo della "rieducazione attraverso il lavoro". I Rur venivano isolati dalla massa dei detenuti, ed erano costituiti esclusivamente di criminali. Il che voleva dire razione punitiva, baracche e tende non riscaldate: se vuoi sfacchina, sistemati, guadagna e mangia. Se non vuoi, crepa. Se lavori, dal Rur ti trasferiscono alle brigate normali…

Noi non siamo totalmente d’accordo con le conclusioni di Solzenicyn sul fatto che gli urka14 si limitavano soltanto a "far finta di lavorare" e a sfruttare senza pietà gli altri prigionieri, col benestare dei cekisti. O per meglio dire, le cose stavano effettivamente così, e non avrebbero potuto essere altrimenti. Perché bisognava pure che i cekisti scrivessero nei loro rapporti che i loro sforzi "rieducativi" sui "criminali" avevano avuto successo! Perché innumerevoli istruzioni imponevano di dare fiducia ai delinquenti recidivi; perché i manuali sull’argomento (come quello di Ida Averbach, che Solzenicyn cita spesso) esortavano a "sfruttare le doti migliori dei delinquenti comuni": romanticismo, amore del rischio, amor proprio, per scatenare l’odio di classe contro kulaki e controrivoluzionari.

Però, prima di appoggiarsi al "gruppo dei malavitosi", l’amministrazione del lager doveva indicare precisamente ai delinquenti il loro posto. Certo, i cekisti dovevano appoggiarsi ai criminali, ma non a quelli indipendenti, che vivevano in base al proprio codice criminale, ma sui truffatori che accettavano le regole del gioco della "rieducazione". Tu riconosci di esserti riabilitato, di essere un "uomo nuovo", e l’atteggiamento nei tuoi confronti sarà diverso.

Fino a che la malavita non ha capito queste regole, e ha tenuto duro sui propri principi ("io sono un delinquente d’onore, e non ho mai tenuto in mano niente di più pesante di un portafoglio!"), i cekisti non hanno mollato la presa, finché non l’hanno piegata.

Eppure il GULag degli anni ‘30 era il feudo della malavita, dei criminali di professione. E non soltanto perché l’amministrazione dei lager puntava sui "socialmente vicini", c’era anche dell’altro: i criminali di professione avevano alle spalle una ricca esperienza carceraria, delle tradizioni, costituivano una "confraternita compatta" che sapeva abilmente imporre il proprio ordine nei luoghi di reclusione, e lo sosteneva con metodi crudeli ed efficaci…

Ben presto i gruppi malavitosi avevano acquistato un’influenza e un peso enormi nei lager. Capitava sempre più spesso che i detenuti si rivolgessero a loro per risolvere i propri conflitti.

A questo va aggiunto che i veri delinquenti autorevoli evitavano di collaborare con l’amministrazione, non accettavano mai incarichi direttivi, non lavoravano e vivevano esclusivamente sulle spalle degli altri detenuti. La maggioranza dei delinquenti più che lavorare, faceva finta…". Proprio questa forma di rivalsa divenne il punto di partenza dell’annientamento staliniano dei criminali durante la cosiddetta "guerra dei cani", seguito dalle riforme chruscëviane.

 

Correttezza formale e disinteresse per l’uomo

 

Torniamo alla polemica con l’amministrazione attuale del sistema penitenziario. Uno dei motivi che hanno portato alla polemica è stata la protesta dei detenuti sieropositivi di una colonia, per il fatto di dover vivere insieme agli altri. La storia del problema non è semplice. Qualche anno fa in molti penitenziari ci sono state agitazioni perché i sieropositivi vivevano insieme agli altri detenuti, che avevano paura del contagio e chiedevano di essere separati in tutto, fino nelle stoviglie e nei bagni15. La direzione della colonia penale aveva isolato dei settori speciali, dove aveva internato i detenuti sieropositivi. Passati due o tre anni la paura è venuta meno, e qualcuno ha cominciato a dire che i sieropositivi non vanno tenuti come dei paria, ma bisogna inserirli tra gli altri. Anche il nostro Centro si è adoperato perché in alcune colonie questo avvenisse. E abbiamo constatato il successo dell’operazione.

E tuttavia, in questo campo si è creata la situazione seguente: là dove i detenuti erano tenuti insieme secondo le direttive dall’alto, i detenuti comuni non temevano più il contatto con i sieropositivi (pur non essendone entusiasti), invece chi soffriva maggiore disagio per la convivenza erano gli stessi sieropositivi. Infatti questo voleva dire perdere tutti i vantaggi concessi loro, così che ad esempio, nonostante il malessere e la debolezza non potevano stendersi sul letto durante il giorno, perché il letto deve essere accuratamente rifatto. Nessuno di loro aveva diritto di farsi esentare dal lavoro, né aveva alcuna altra facilitazione. In pratica, l’amministrazione aveva cancellato il loro status speciale per comodità di gestione. E la cosa più interessante è che aveva usato il seguente argomento: bisogna liberare i sieropositivi dalla loro condizione di emarginati, perché questa, com’è noto, confina con quella di "offesi". Il tutto, naturalmente, a norma di legge. Questo è un esempio di "riforma progressista" preso dall’attualità.

Ma qui si vede sicuramente il vettore di un possibile cambiamento.

La figura di Lucezarov ispirerebbe simpatia non solo a un intellettuale ma anche ai detenuti di oggi. È quello che è, ma almeno è un "vero padrone". E se lui ha certi ideali, e per raggiungerli impone un ordine prima impensabile e mostruoso, almeno è chiaro che lo fa sinceramente. E che non si tratta dei comodi pretesti coi quali si sono coperti i riformatori più tardi. Davanti a questi "umanisti" Lucezarov ci fa una figura migliore. Il male della nostra epoca sta nel fatto che abbiamo disimparato a vedere le pecche degli "ideali" dei Lucezarov, è un lusso superfluo per noi. L’autore di Nel mondo dei reietti si sentiva disgustato dal fatto che si obbligassero i detenuti a togliere il berretto davanti ai capi. A noi moderni una cosa del genere non fa specie. È sorprendente leggere questo libro e trovarvi i primi giudizi "vergini" su fenomeni che più tardi sarebbero diventati routine, e nessuno più si sarebbe chiesto perché fossero così, per cui noi cerchiamo stancamente di eliminarne le conseguenze senza cercarne le cause.

 

La prigione rieduca?

 

Abbiamo dimenticato da tempo che la prigione di per sé contraddice la natura umana. Infatti ciascuno di noi segue nel corso della vita un certo sviluppo. A questo scopo deve disporre di una certa libertà, e anche di una certa responsabilità per dirigere in una certa direzione il corso della propria vita. Nel far questo noi tutti facciamo degli errori e poi cerchiamo di rimediarli. E chi ha pensato di mandare un uomo in prigione perché rimedi i propri errori, ha perso di vista il fatto che in condizioni di restrizione - e qualsiasi prigione è una restrizione e una limitazione - le chance di usare della propria responsabilità sono limitate.

Non saremmo tutti capaci di fare quel salto mortale psicologico che richiederebbe una revisione della vita in prigione. Più spesso si fa non una revisione della vita, ma di alcune sue forme limitate e di alcune abitudini. Per questo, l’esito della prigione non è quello di elevare l’autocoscienza, ma semplicemente di sviluppare determinate tecniche sociali: da "non ho cancellato bene le tracce" a, nel migliore dei casi "non ci avevo pensato bene, per questo non ho saputo dominarmi". Inoltre, la logica stessa della punizione carceraria prevede di togliere all’uomo la libertà e quindi la responsabilità. Più a lungo una persona rimane in queste condizioni, più queste condizioni sono regolamentate, minore è l’efficacia della punizione. La persona viene disavvezzata ad organizzare il proprio tempo, i propri piani. Nelle prigioni si svolge una lotta perenne fra i detenuti e l’amministrazione su ogni singolo dettaglio della vita quotidiana. I detenuti cercano di avere maggior libertà. L’amministrazione cerca di togliere loro la libertà, nel migliore dei casi per mantenere un certo ordine di routine, nel peggiore per punire. Gli argomenti dipendono dall’evoluzione delle due parti: può essere la comodità, il senso della misura, o la "legge"; per di più la comodità, per le diverse parti ha diversi significati, e lo stesso dicasi per la legge. E tuttavia si trovano sempre delle persone che hanno saputo fare ugualmente il già citato "salto mortale psicologico". Sono loro che in prigione riescono a sviluppare delle tecniche sociali di carattere più elevato, nella loro opposizione e collaborazione con l’amministrazione carceraria. Queste persone non si lasciano più scappare di mano il filo dell’esistenza e l’amministrazione è costretta a concedere loro una parte del proprio potere. Queste persone sono le vere autorità. Lo stile dell’epoca e della vita nella società libera imprime il suo marchio sullo stile della loro opposizione- collaborazione con l’amministrazione carceraria. Proprio per questo non ci sono, non c’erano né mai ci saranno leggi carcerarie "eterne", e di tanto in tanto il sistema di caste e i costumi delle prigioni cambiano. Per questo le carceri dove esiste un ragionevole equilibrio fra le autorità criminali e l’amministrazione si chiamano nere. Mentre quelle dove l’amministrazione cerca in un modo o nell’altro di mettere le mani su tutto, si chiamano rosse. Può darsi che sia uno storpiamento linguistico, dato che nell’antica Rus’ tradizionalmente krasnoe (rosso) voleva dire bello, elevato, mentre cërnoe (nero) voleva dire cattivo, infimo. Ma dietro a queste due parole stanno dei concetti veramente platonici, e nessun sofisma può impedire all’abitante della prigione di cogliere la sostanza della contrapposizione. Se poi nero e rosso nella simbologia russa si sono scambiati di posto, è colpa della storia.

 

L’ordine ideale e la sporca realtà

 

O magari non è una colpa ma una forma di saggezza. Infatti l’altra ipostasi di questa contrapposizione è il sogno di un bell’ordine – tentazione di tutti gli idealisti – contro la sporcizia della routine quotidiana, dove finiscono per impantanarsi tutte le tecniche sociali. E non mi arrischierei a dire quale delle due parti sia la meno simpatica. Lasciando da parte le mani grondanti sangue degli idealisti, vorrei notare che sono proprio la rigidezza delle "tecniche sociali" e l’indecifrabilità delle convenzioni carcerarie che impediscono agli uomini dell’altro mondo, cioè quelli che hanno sempre vissuto in libertà, di considerare in modo positivo i criteri carcerari. La legge del carcere ha anche un lato positivo, che spesso nasconde un’altra circostanza più importante: i semi di esperienza sociale elaborati dalle autorità criminali, che poi diventano "legge" sono molto più vitali dei ragionamenti astratti dei parlamentari che preparano l’ennesimo progetto di legge.

Sono così giunto ai motivi che un giorno ci hanno spinto ad abbandonare le sterili ricerche sociologiche ed etnografiche. Già da parecchi anni il motto del nostro Centro è: ridurre la popolazione carceraria. Il fatto è che la soluzione di questa semplice formula quantitativa corrisponde alla realizzazione della nostra idea di società russa. Non aspiriamo assolutamente ad eliminare le prigioni. Ma i tempi non sono ancora maturi e che difficilmente lo saranno entro breve. Oggi per la Russia è importante abbattere con urgenza il muro che di fatto divide la nostra popolazione in due diverse nazioni: quelli che sono stati dentro e i loro familiari, e quelli che non sono mai stati dentro. La delinquenza in Russia esiste, e può darsi che vada pure ad aumentare. Ma occorre abbandonare l’idea che la prigione sia un mezzo per liberarsi dalla delinquenza. La prigione è né più né meno che un costume sociale, un’istituzione di cui non si può fare a meno, ma che si può gradualmente cambiare. Inoltre riteniamo che la sua popolazione possa anche aumentare, infatti in piccole dosi questa punizione per molti può anche essere efficace. La cosa importante non è il numero dei detenuti, ma quanto tempo ciascuno trascorre privo di libertà16. La reclusione per lunghi periodi impedisce il reinserimento sociale. Questa gente viene espulsa una seconda volta dalla società, e soprattutto non si instaura un dialogo fra chi è stato in prigione e chi, per stupidità, potrebbe finirci. L’esperienza psicologica e sociale del pregiudicato non passa nel mondo di fuori. Gli uomini liberi non imparano dagli errori altrui, mentre ai pregiudicati non si dà l’occasione di conoscere l’esperienza della gente comune. Si verifica una doppia interruzione nella trasmissione delle tradizioni. E questo fatto è tanto più importante oggi che lo sviluppo della vita è molto più rapido, oggi anche i paesi più sviluppati dell’Occidente soffrono la stessa mancanza di tradizioni vive e capaci di sviluppo che facciano da punti d’appoggio. E così le prigioni, originariamente create per superare il caos della criminalità, nella loro forma attuale non fanno che aumentare questo caos.

Ne consegue che abbiamo da una parte le autorità criminali, per le quali la vita in prigione è una forma di carriera, e l’esperienza elaborata è una forma di specializzazione. Dall’altra, abbiamo una società infantile, che non è capace di concentrarsi sulla soluzione di nessun problema, perché ogni volta le manca l’ingrediente principale, la serietà.

Il nostro scopo è quello di unire a tutti i costi queste due metà, la prigione e il mondo libero. A questo proposito sono utili le visite frequenti alle prigioni, e non è importante con quale scopo, ma importa il fatto stesso di trasmettere nuove informazioni e aiuto per impedire che il processo di imbarbarimento proceda oltre. A questo proposito sono utili anche le mostre che abbiamo organizzato, grazie alle quali chi è in libertà viene a conoscenza di ciò che accade nelle prigioni. Sono utili anche le trasmissioni radiofoniche, che permettono a chi è fuori e a chi è dentro di sentirsi parte di un unico spazio culturale, permettono di avere ricordi comuni. E, infine, sono utili le nostre pubblicazioni, che offrono un taglio vivo delle realtà giuridiche, che permettono a chi è in prigione di spianare la strada verso la libertà, e a chi è libero di comprendere e sentire cosa voglia dire combattere la chimera della giustizia russa. Ce la faremo? O finiremo anche noi in quell’eterno circolo vizioso che appare dal libro di Mel’sin, per cui si ripresenta ciclicamente la stessa situazione degli anni ‘30, e degli anni ‘60? Esiste un vettore che porti fuori dal circolo vizioso? Questo vettore c’è anche oggi. Cito ancora da Mel’sin: "Il nostro bravo tenente Lucezarov, basandosi su elementi puramente esterni, poteva tranquillamente credere che il mondo carcerario nelle sue mani si evolvesse e rifiorisse, poteva credere di anticipare i tempi o almeno di non restare indietro rispetto alle più recenti teorie della criminologia; ma io, che talvolta ho avuto la rivelazione delle più nascoste profondità dell’animo criminale, vedevo la faccenda con più chiarezza, e ho constatato con una fitta al cuore che con questo regime tremendo non si è ottenuto niente di sostanziale, niente di buono… Ho visto che tutti questi ordini minacciosi, le marce, le grida di togliere e mettere il berretto, in pochi giorni erano diventati un’abitudine per il detenuto, che eseguiva tutto macchinalmente, senza che queste cose gli provocassero la minima paura o la minima sofferenza. Qualsiasi detenuto assicurava di essere pronto a togliere e mettere il berretto tutto il giorno, purché non lo infastidissero con altri sistemi per lui più sostanziali… Del resto, cosa volete aspettarvi da una persona che ha un concetto assolutamente atrofico della propria dignità personale, del diritto e dell’umiliazione? Peggio, da una persona alla quale voi, rappresentanti dell’intelligencija (nella persona delle autorità e dei funzionari) avete cercato di sradicare il più possibile, anziché sviluppare questi concetti? Per queste cose può soffrire soltanto un intellettuale, ed effettivamente posso affermare positivamente che negli anni in cui ho vegetato nella prigione di Selaj, delle centinaia di detenuti che vi sono passati, si sono sentiti oppressi da questo aspetto della vita carceraria non più di due o tre intellettuali, che come me avevano avuto la disgrazia di finire ai lavori forzati".

È assolutamente evidente che tra quelli che finiscono oggi in prigione c’è un maggiore senso di dignità personale. E tuttavia il vettore non sta in questo, infatti anche questa dignità viene facilmente vinta, e la sottomissione viene ridotta a un uguale automatismo. Il vettore sta in altro. Oggi le forme esteriori per umiliare hanno perduto l’attualità di una volta – i Lucezarov hanno fatto il loro tempo e si è concluso ormai un certo ciclo. Il risultato è che al contrario oggi ci troviamo di fronte a un’insistita correttezza formale nei rapporti fra i condannati stessi, o fra l’amministrazione e i condannati. Oggi quelli che stanno in prigione vengono spezzati a un livello più profondo: oggi sono costretti a "togliere il berretto" davanti a un discorso e a schierarsi con questo o quel sistema di idee. Ecco perché negli anni ‘70 è diventata così profonda la spaccatura che separava i caproni dai giusti. Ecco perché oggi, dopo gli anni ‘90, sta maturando una nuova forma di autorità. Adesso già si dice che anche i caproni possono essere giusti, e si trovano delle autorità che giocano a scacchi con dei degradati. Negli anni ‘90, i giusti criteri si sono appiattiti fino a diventare un’ideologia, gli imbecilli che stanno in alto mandano gli Omon nei lager per "raddrizzare" della gente che spesso ci è finita senza neanche aver commesso un crimine; in questa situazione qualsiasi ideologia non è che l’ennesima maschera, di cui tutti vogliono disfarsi appena l’hanno provata. A cent’anni di distanza, l’automatismo non riguarda più il mettere e togliere i berretti ma l’indossare queste maschere. Sarà il tempo a mostrare come questo si rifletterà sulla struttura sociale delle colonie penali. Per ora abbiamo un ventaglio limitato di esperienze regionali.

Note

 

  1. L. Mel’sin, V mire otverzennych. Zapiski byvsego katorznika (Nel mondo dei reietti. Appunti di un ex galeotto), San Pietroburgo 1899.

  2. Ossia dei malavitosi universalmente riconosciuti come capi. ndt

  3. Nel gergo carcerario russo vengono chiamati galli gli omosessuali passivi, che appartengono alla casta inferiore del collettivo carcerario, del quale pure fanno parte i cosiddetti offesi, i carcerati più avviliti, che non sanno farsi valere, e quelli sudici. Tutte queste categorie non hanno confini precisi, anche se in certe colonie vengono distinte una dall’altra. Questi gruppi vengono tenuti insieme e su di essi pesa l’obbligo di svolgere i lavori più spiacevoli. L’appartenenza a uno di questi gruppi è definitiva, e non si dà il caso che qualcuno passi ad un’altra casta. Viceversa, chi si è reso colpevole di qualche grave colpa può essere retrocesso nel gruppo degli offesi o dei galli. Il rito di passaggio è definito con la parola "degradare" perciò tutte queste categorie vengono solitamente indicate col termine degradati. Spesso nell’ambiente dei degradati c’è un capo, che risponde davanti alle autorità dell’organizzazione del lavoro o addirittura dello stile di vita del suo gruppo. In alcune colonie esistevano delle corporazioni professionali di galli, dirette da un gallo- capo, in genere una persona con doti direttive. Talvolta si trattava di autorità declassate. La casta dei degradati è comparsa nelle prigioni russe solo negli anni ‘60. Tuttavia anche nel periodo precedente nelle carceri si aveva un atteggiamento di disprezzo verso i deboli e i sudici. Nel periodo prerivoluzionario questa gente faceva parte della cosiddetta teppaglia. Per quanto riguarda gli omosessuali passivi, nell’ambiente dei criminali c’è sempre stato un atteggiamento negativo nei loro confronti, ma poiché fino agli anni ‘60 le leggi del mondo criminale non si erano diffuse a tutta la comunità carceraria, non esisteva una posizione omogenea al riguardo, e non sono sempre stati degli emarginati.

  4. I criteri carcerari o giusti criteri sono la concezione di come debba correttamente organizzarsi la vita nel carcere. Solitamente questa concezione viene elaborata dai membri della malavita e intuitivamente viene riconosciuta giusta da tutti gli altri. Capita che anche la direzione del carcere la ritenga giusta. In tali casi la prigione era definita "nera".

  5. Per il significato di queste espressioni, vedi la nota precedente e più avanti nel testo. ndt

  6. Che in diversi periodi è stato l’ente direttivo degli organi di sicurezza e dei luoghi di pena. ndt

  7. V. Abramkin, V. Cesnokova, Tjuremnyj mir glazami politzakljucënnych. Ugolovnaja Rossija. Tjur’my i lagerja (Il mondo carcerario visto dai detenuti politici. La Russia dei detenuti. Prigioni e lager), Mosca 1993. ndt

  8. Così vengono chiamati nell’ente carcerario i condannati e gli inquisiti.

  9. Membri di gruppi mafiosi e bande criminali. ndt

  10. I detenuti che accettavano di prendere il posto di altri con condanne maggiori, assumendone l’identità. ndt

  11. Comparvero in quel periodo le colonie a regime differenziato: comune, severo, rafforzato e speciale. Inoltre in Russia non smisero mai di esistere le prigioni "chiuse", ossia non colonie, ma prigioni con celle chiuse. Questo tipo di punizione è sempre stato il più severo, per questo nelle prigioni chiuse finivano sempre i criminali più pericolosi e più invisi alle autorità. Dalla fine degli anni ‘70 furono create delle prigioni chiuse speciali per la rieducazione dei criminali abituali. La più famosa è il "Cigno bianco" a Solikamsk (regione di Perm’).

  12. F. Ziganec (pseud. di Sidorov), Velikie bitvy ugolovnogo mira (Le grandi battaglie del mondo criminale), inedito. ndt

  13. In russo: Roty usilennogo rezima. ndt

  14. Nel gergo carcerario del XIX secolo, qualsiasi criminale di professione. ndt

  15. Del segreto professionale dei medici in Russia non c’è neanche da parlare. Con la minaccia costante che scoppino epidemie di tubercolosi un simile "segreto" non farebbe che aumentare il rischio di contagio (com’è noto l’HIV innestato sulla tubercolosi produce nuove forme resistenti ai farmaci), e poi, considerando il sistema illegale di comunicazione esistente nelle prigioni russe, sarebbe praticamente impossibile tenere nascoste cose simili.

  16. Diminuendo la durata delle condanne, il numero complessivo dei detenuti sarà inferiore: se vanno in prigione le persone condannate a 5 - 7 anni, nello stesso tempo si troveranno nelle colonie anche quelli che ci stanno da 1, 2, 3 e 4 anni. Avendo invece condanne da 2 mesi a 2 - 3 anni, anche aumentando il numero dei condannati, la popolazione diminuirebbe.

 

L’autore

 

Andrej Borisov, nato nel 1967, di formazione insegnante di economia politica, dal 1999 è collaboratore del Centro consultivo per la riforma del diritto penale. Si occupa anche delle colonie per minorenni.

 

L’articolo

 

L’articolo, curato in particolare per la traduzione in lingua italiana dall’Associazione Russia Cristiana (R.C. Edizioni s.r.l., via Tasca 36, 24068 Seriate BG - tel. 035.294021), è stato pubblicato sulla Rivista Bimestrale "La Nuova Europa" n. 6 (318) del novembre - dicembre 2004.

 

 

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