La Doppia Diagnosi

 

Doppia diagnosi, evitiamo l’effetto della "porta girevole"

di *Ornella Senis

 

Difficoltà e prospettive negli interventi terapeutici rivolti agli utenti tossicodipendenti che presentano anche patologie psichiatriche. Storicamente il privato-sociale ha avuto e ha tuttora una posizione di rilievo nel trattamento delle tossicodipendenze, collaborando in maniera più o meno intensa e funzionale, anche a seconda di vari fattori con i SerT.

Negli ultimi tempi e in particolare negli ultimi 10-15 anni - ma importanti segnali premonitori in tal senso risalgono a diverso tempo prima - si è assistito a una sempre più evidente e progressiva trasformazione della popolazione dei tossicodipendenti, nel senso di un aumento della gravità dei quadri clinici anche e soprattutto per la sempre più frequente presenza di comorbilità psichiatrica ad essi associata, verosimilmente dovuta a fattori diversi.

Si è infatti sempre più affermato nel tempo il "poliabuso"e la"polidipendenza" da più sostanze, col risultato di aumentare esponenzialmente i danni e i rischi per la salute già di per sé connessi all’utilizzo di una sola droga. Inoltre rispetto alle droghe maggiormente in uso in passato (negli anni sessanta e settanta) si è verificato un incremento ragguardevole del consumo di tutte quelle sostanze – tra cui cocaina, amfetamine, acidi, ecstasy – in grado di favorire e persino scatenare, specie se assunte in combinazione tra loro, disturbi psichiatrici anche di notevole gravità.

 

Essenziale il lavoro di rete e l’integrazione dei servizi

 

Tutto ciò è stato vissuto (non senza comprensibili difficoltà) in prima persona dagli operatori del privato sociale, impegnati nel difficile compito della cura e del recupero dei soggetti tossicodipendenti, che si sono trovati gioco-forza a confrontarsi con questa nuova realtà emergente riguardante ad esempio l’utenza delle comunità di recupero.

Non a caso negli ultimi anni sono sorte sul territorio nazionale comunità terapeutiche del circuito del privato-sociale denominate per "doppia diagnosi", in quanto rivolte al trattamento residenziale di quei soggetti contemporaneamente affetti da un disturbo correlato all’abuso/dipendenza da sostanze e da un disturbo psichiatrico di asse I e/o asse II, per riferirsi ai criteri diagnostici del DSM IV (non entriamo qui nel merito di una complessa questione come quella della/e diagnosi e della primarietà vs. secondarietà del disturbo psichiatrico rispetto all’uso di sostanze).

È importante qui sottolineare molto sinteticamente come questi nuovi utenti, data l’elevata complessità delle problematiche sanitarie, sociali e spesso legali/giudiziarie che li accompagnano, siano molto impegnativi dal punto di vista del trattamento e della loro gestione, che inevitabilmente richiede la collaborazione di diverse risorse del servizio pubblico (SerT, S.S.M., Ospedali, ecc.) e del privato sociale (comunità residenziali, diurne, case-alloggio, strutture per "bassa soglia", ecc.).

In altre parole, a fronte di problematiche così complesse e onerose, diventa fondamentale ed essenziale un lavoro di rete che permetta, pur nel pieno rispetto delle competenze e delle autonomie delle singole agenzie, una reale e piena collaborazione dei diversi servizi impegnati nella gestione del caso, utilizzando quanto più possibile in maniera integrata le rispettive capacità e professionalità.

Infatti una presa in carico congiunta da parte del SerT, della Salute mentale e del privato-sociale permetterebbe di dare unicità all’ intervento riducendo al minimo il rischio di scindere l’utente come se la parte tossicomanica non andasse ad influire su quella psichiatrica e viceversa.

Come operatori delle comunità terapeutiche sentiamo di poter affermare che il lavoro in rete, importante durante tutta la fase di trattamento residenziale, diventa essenziale anche per la costruzione di un progetto terapeutico realizzabile, che possa anche prevedere la "gestione delle crisi" e delle acuzie psicopatologiche che, in qualsiasi momento del percorso, possono presentarsi sia per il fisiologico andamento altalenante di molte patologie psichiatriche sia per gli squilibri indotti dalle ricadute nell’uso di sostanze.

 

La difficoltà nel monitoraggio e valutazione del percorso terapeutico

 

Nella nostra esperienza, si osserva che il momento della crisi è un punto particolarmente delicato e di non facile gestione all’interno del percorso terapeutico e riabilitativo degli utenti in trattamento e che ha ripercussioni a vari livelli:

nel contesto comunitario, dove l’operatore è tenuto non solo a gestire la crisi del singolo (spesso coincidente con scompensi di natura psicopatologica), ma anche a garantire la tutela del gruppo dei pari avendo a disposizione strumenti che non sono propriamente quelli di una struttura sanitaria. Infatti la mancanza, ad oggi, di una convenzione che definisca i parametri e gli strumenti idonei per una struttura di "doppia diagnosi", costringe gli operatori del privato-sociale a non accogliere utenti considerati "troppo gravi", in rapporto alle risorse disponibili sul territorio;

nel territorio, poiché la mancanza di un lavoro di rete può fortemente compromettere il percorso terapeutico riabilitativo con il conseguente rischio di abbandono del progetto da parte dell’utente e, inevitabilmente, il ritorno a stili di vita e di abuso antisociali, potenziando il fenomeno cosiddetto "della porta girevole".

L’elemento di riflessione del lavoro degli operatori del privato-sociale è relativo ai criteri di valutazione dei progetti riabilitativi in ‘doppia diagnosi’: cosa significa concludere un percorso terapeutico per un paziente in doppia diagnosi? Qual è il livello di funzionamento sociale e di tenuta psicologica che ci si aspetta? Quali percorsi di reinserimento sociale e lavorativo può sostenere un utente con queste problematiche?

La risposta a queste domande porta alla definizione di indicatori per la misurazione e il monitoraggio dei percorsi terapeutici attivati quali, ad esempio: la definizione del grado di autonomia funzionale al quale può arrivare l’utente alla fine del percorso riabilitativo; l’allungamento dei tempi di astinenza durante e dopo l’inserimento in Comunità; la riduzione dei comportamenti antisociali; I’inserimento in progetti lavorativi che tengano conto delle reali potenzialità del singolo (borse lavoro, inserimenti protetti...); la prevenzione dal rischio di ulteriori ricadute attraverso la definizione di un’adeguata rete di supporto per l’utente in reinserimento, composta da riferimenti del pubblico e del privato sociale, che possano essere vissuti e utilizzati come forme di sostegno emotivo e operativo a breve e a lungo termine; il coinvolgimento, laddove possibile, del contesto familiare, affinché possa essere, in divenire, anch’esso anello della rete di supporto attivata.

In conclusione, il privato-sociale è oggi consapevole di essere un anello della rete allargata dell’intervento sui bisogni dell’utente, con una sua dignità e forza che, necessariamente, ha bisogno di supporto e collaborazione degli altri attori del mondo sociale e del mondo sanitario per dare risposte adeguate. Il lavoro terapeutico per gli utenti in "doppia diagnosi" non può essere, a nostro avviso, un aggregato di interventi specialistici, ma un’efficace collaborazione tra gli attori della rete nella definizione di un progetto comune.

 

*Ornella Senis è Coordinatrice dell’Area terapeutica del Centro di Solidarietà di Genova dove è presente la Comunità per utenti in "doppia diagnosi" Castore e Polluce.

 

 

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