Sebastiano Ardita

 

Tossicodipendenza e carcere: intervista a Sebastiano Ardita (Dap)

 

Giustizia.it, 28 gennaio 2005

 

Tossicodipendenza e carcere. Su questa emergenza di grande attualità, la direzione generale del trattamento e dei detenuti ha realizzato un convegno di studi con l’obiettivo di analizzare e individuare nuove soluzioni di trattamento. Ne parla in questa nostra intervista, il direttore Sebastiano Ardita.

 

Quali sono oggi gli strumenti per affrontare i molti problemi legati al rapporto detenzione - tossicodipendenza?

La problematica delle droghe interessa gli strumenti dell’intervento penale sotto una duplice dimensione. Da una parte vi è la disciplina che regolamenta e sanziona l’utilizzo, la cessione e tutte le altre condotte legate alla diffusione degli stupefacenti. Dall’altra vi è la questione connessa alla punibilità del soggetto tossicodipendente, per qualsivoglia condotta penalmente rilevante commessa sotto l’influenza delle droghe.

I due aspetti costituiscono l’endiadi attraverso cui passa, sul piano della repressione penale, la questione della detenzione dei tossicodipendenti. In verità anche se essi potrebbero apparire ben distinti tra loro, tuttavia la realtà concreta risulta assai diversa: il "mondo della droga" infatti finisce per coinvolgere i tossicodipendenti richiedendo loro complicità e ruoli non irrilevanti sul piano della illiceità penale. E ciò complica ulteriormente il quadro. Infatti la legislazione italiana sugli stupefacenti, già a partire dalla metà degli anni Settanta, si è posta con atteggiamento di grande rigore nei confronti dei soggetti che svolgono un ruolo nella diffusione della droga, mentre d’altra parte risulta ispirata al recupero terapeutico e sociale dei soggetti che vivono la tragica realtà della dipendenza.

A fronte di ciò occorre tuttavia constatare come la situazione del tossicomane, che per sottostare ai bisogni della dipendenza commette reati collegati alla diffusione degli stupefacenti, non riceve una disciplina particolarmente differenziata sul piano delle norme di incriminazione e di quelle che disegnano percorsi alternativi al carcere, rimanendo ancorata alle regole generali che ispirano la materia.

 

Storicamente come si è evoluta la normativa antidroga?

Sul punto relativo alla scelta di criminalizzare le condotte connesse al mondo degli stupefacenti l’atteggiamento della legge italiana è progressivamente mutato. La prima normativa antidroga del 1954 procedeva ad una criminalizzazione generalizzata della detenzione delle droghe, senza porsi alcun problema di distinzione tra i soggetti utilizzatori e i detentori ad altro titolo. In tale prospettiva la situazione del tossicodipendente - quale soggetto affetto da una complessa condizione patologica - non veniva minimamente presa in considerazione.

Le legislazioni che si sono succedute hanno introdotto questa fondamentale distinzione, riconoscendo - a certe condizioni e ai soli fini penali - la non punibilità del consumo della droga. Esse hanno mantenuto tuttavia, in linea generale, una impostazione volta a reprimere tanto il commercio e la cessione a terzi della droga, quanto l’utilizzo per fini personali, da cui in ogni caso conseguono misure di carattere amministrativo. Tale scelta si è concretata in disposizioni che - fino al referendum abrogativo del 1993 -, in talune situazioni, hanno continuato a consentire la carcerazione per gli utilizzatori, sulla base di condotte di mera detenzione dello stupefacente. Ciò avveniva - dapprima in virtù delle disposizioni della l. legge 22 dicembre 1975, n. 685, e poi con il vigore del DPR n.309/1990 - avuto riguardo a detenzioni che eccedessero la "modica quantità" (l. n. 575/1975), ovvero per quantità superiori alla c.d. "dose media giornaliera"(DPR n. 309/1990), stabilita secondo quantitativi predeterminati, sulla scorta del fabbisogno medio per un soggetto abituale assuntore.

La completa declassificazione repressiva, - dall’ambito della sanzionabilità penale a quello della disciplina amministrativa - delle condotte di utilizzazione dello stupefacente, a prescindere dalla quantità detenuta, si è avuta solo a seguito dell’accoglimento della proposta referendaria del 1993.

A seguito della introduzione del nuovo regime conseguente al referendum si è notevolmente ridotto lo spazio di incidenza dei casi di detenzione di soggetti tossicodipendenti in applicazione del testo unico sulle droghe.

Tuttavia il problema dei tossicodipendenti detenuti per violazioni di tale legge non è affatto superato, per via della punibilità degli apporti, anche se marginali, che essi sono in grado di fornire alle articolate organizzazioni che gestiscono il commercio della droga - il più delle volte costretti dal bisogno di procurarsi il denaro da impiegare per il consumo proprio.

La dimensione e la frequenza di tali apporti, e la loro collocazione in ambiti operativi gestiti in forma di criminalità organizzata, possono talvolta integrare la partecipazione alle associazioni di cui all’art. 74 del DPR n. 309/1990, quando assumano i connotati di una condotta funzionalmente rilevante per l’operatività delle medesime organizzazioni. Il ricorrere di una tale ipotesi di reato - introdotta per anticipare la tutela penale rispetto a condotte in grado di rendere massivi la diffusione ed il consumo delle droghe - espone il partecipe a gravissime sanzioni penali.

Se lo scopo di tale disciplina è all’evidenza quello di scoraggiare ogni tentativo di industrializzare la produzione ed il commercio della droga, gli effetti sono altresì costituiti dal determinarsi di lunghe carcerazioni, in ragione di condanne ben più consistenti di quelle irrogabili per la partecipazione alle associazioni di tipo mafioso, e che trovano pari solo nelle pene irrogate per la commissione dei più gravi delitti di sangue.

 

Oggi quindi non c’è più repressione per i tossicodipendenti. Ma se sono in carcere, condannati per altri reati, come si fa a curarli e rieducarli?

La coesistenza della condizione di tossicodipendente e della partecipazione alle associazioni di cui all’art. 74 D.P.R. n. 309/1990, è purtroppo conosciuta nella esperienza processuale di contrasto a tale pericolosa forma di criminalità organizzata, e provoca riflessi di enorme gravità nella dimensione penitenziaria. Essa, per via delle lunghe detenzioni che viene a provocare, si pone oggettivamente da ostacolo alla individuazione di percorsi alternativi al carcere, e scarica sul sistema penitenziario l’onere di individuare un trattamento che tenga conto della condizione di disagio e di dipendenza che preesisteva al reato. Ciò deve comportare uno sforzo di adattamento di un condizione, la tossicodipendenza, di per sé del tutto incompatibile rispetto a trattamenti di tipo sanzionatorio repressivo.

La cura e la proposta rieducativa del tossicodipendente reo vengono pertanto a collocarsi in una dimensione terapeutica e riabilitativa, e devono spesso "prendere atto" del reato come il precipitato di quella condizione di disagio, astraendo dalla quale - il più delle volte - verrebbe meno per il soggetto ogni ragione di porsi al di là della legge penale.

E dunque il concetto stesso di "rieducazione", rispetto alla condotta antisociale che si sostanzia nel delitto, necessita di una capacità di riflessione e di autodeterminazione delle proprie condotte che presuppongono il totale affrancamento da tutte le logiche della dipendenza fisica e psicologica.

Le finalità medesime della pena detentiva sono connesse a questa capacità di scelta circa il percorso trattamentale che viene proposto al soggetto.

La tossicodipendenza va allora prioritariamente trattata - in ambiente penitenziario - come una condizione patologica complessa nella quale convergono tanto aspetti di patologia psichiatrica, quanto problematiche di dipendenza fisica. Senza contare, nello stato di detenzione, le frequenti complicazioni di ordine sanitario (dovute frequentemente a deterioramenti di natura organica, e a patologie infettive).

In queste condizioni occorre approfondire il problema di quale sia oggi il senso del ricorso alla sanzione della detenzione in carcere per i reati commessi da tossicodipendenti, sia dal punto di vista della funzione di prevenzione che si intende attribuire alla sanzione penale, sia da quello della corretta imputabilità delle condotte, alla luce delle attuali conoscenze, con riguardo all’indagine sulle effettive capacità di consapevole determinazione del soggetto al momento della commissione del reato.

 

Curare o punire. Qual è l’obiettivo?

Nel passato più recente è stata posta la questione circa la necessità di approfondire gli studi sul tossicodipendente detenuto, al fine di esplorarne le problematiche da un punto di vista scientifico e criminologico. Oggetto di tali studi sono state le possibilità di recupero e di cura diverse dal carcere, e si è così introdotto, anche nel nostro paese il dibattito se sia più utile e necessario alla società curare i tossicodipendenti ovvero punirli, ed in che misura entrambe le finalità possano essere conseguite congiuntamente.

Questi approfondimenti sul piano culturale hanno prodotto una risposta anche sul versante della disciplina normativa. L’istanza laica e solidaristica, che sta alla base del moderno ordinamento giuridico, ha profondamente mutato l’atteggiamento dello Stato nei confronti dell’assuntore abituale di droghe, convertendolo - almeno sul piano delle intenzioni programmatiche - dalla prospettiva della mera repressione, a quella dell’intervento sociale sanitario e preventivo.

A parte il superamento della generalizzata punibilità per mera detenzione, con la introduzione di un discrimine per l’utilizzatore, - cui si accennava più sopra - la riforma del 1975 aveva infatti significativamente abrogato la contravvenzione prevista dall’art. 729 del cod. pen. con cui era autonomamente punito l’abuso di sostanze stupefacenti. Tale disposizione contenuta nel codice Rocco inquadrava la problematica dell’uso delle droghe all’interno della questione sanitaria - significativamente collocandola tra le contravvenzioni concernenti la polizia sanitaria.

L’approccio repressivo sotteso alla disposizione risultava volto ad infrenare condotte volontarie di danno alla propria salute, evitando altresì possibili comportamenti di emulazione e la conseguente diffusione di abitudini in grado di nuocere alla salute pubblica. Tutto ciò avveniva non essendo presente all’epoca del Codificatore una emergenza di sicurezza sociale minimamente paragonabile a quella dei giorni nostri, tanto con riguardo alla commissione di delitti da parte di tossicodipendenti, quanto con riferimento alla diffusione di connesse patologie di natura infettiva.

 

A questo punto come tutelare l’interesse pubblico?

L’abbandono della dimensione marcatamente repressiva nella lotta alla droga ha dovuto fare i conti, nei tempi moderni, anche con la necessità di fare fronte alla moltitudine di delitti ed alla conseguente grave minaccia che il fenomeno ha prodotto nei confronti dell’ordine, della sicurezza e della salute pubblica.

In realtà, dopo le modifiche apportate alla legislazione del 1954 ed al codice Rocco, - sulla (non) sanzionabilità del consumo - la tossicodipendenza è oggi, isolatamente intesa, una condizione sostanzialmente indifferente per il diritto penale, poiché né essa, né la assunzione di droghe che vi sta alla base, di per sé costituiscono rispettivamente condizione o condotta che integrino estremi di reità. Inoltre neanche le condotte delittuose "diverse" commesse in costanza dello stato di tossicodipendenza, e delle acute alterazioni psicosomatiche che essa comporta - specie in presenza delle c.d. crisi di astinenza - ricevono una diversa valutazione nel giudizio di responsabilità penale, fatta salva l’applicazione dell’art. 95 per i casi di accertata cronica intossicazione da sostanze stupefacenti tale da potere influire in modo totale o parziale sulla capacità di intendere e di volere del soggetto, secondo le regole generali - dettate dagli art. 88 e 89 del cod. pen. - cui detto articolo fa espresso richiamo.

Orbene, va riconosciuto che sarebbe alquanto problematico, dal punto di vista politico-criminale e da quello sistematico, procedere a scelte legislative di attenuazione - men che mai di esclusione - della responsabilità penale per i reati commessi sotto la condizione di tossicodipendenza (anche se limitatamente ai casi indotti da c.d. crisi di astinenza). Non di meno può sicuramente affermarsi, da un lato, la difficoltà di ricomprendere concettualmente le condotte frutto dell’assunzione tra le c.d. actiones liberae in causa; dall’altro la problematicità di dimostrare di volta in volta, nel caso della cronica intossicazione, lo stato di assente o diminuita capacità conseguente dalla condizione clinicamente accertata di tossicodipendenza.

Tali difficoltà, riconosciute con evidenza anche dal Legislatore, hanno indotto quest’ultimo a rinunciare a soluzioni speciali per la tossicodipendenza sul piano della deroga alla disciplina generale sulla imputabilità, facendo sì che la giurisprudenza dei giudici della cognizione affrontasse volta per volta nel caso concreto le questioni seguendo le regole generali, con l’unica eccezione costituita dalla "cronica intossicazione".

Per altro verso lo stesso Legislatore ha tentato, nel terreno della esecuzione penale, un difficile, lento e progressivo recupero sui caratteri differenziali che presenta la sanzione criminale rivolta a persone che la tossicodipendenza ha reso incapaci di qualsivoglia controllo del proprio corpo e delle proprie azioni.

Le soluzioni adottate riguardano in modo particolare i condannati tossicodipendenti, pur essendo concepite, in linea più generale, per tutte le categorie di condannati. Invero esse si collocano all’interno di un sistema sanzionatorio sempre più destinato a divenire enunciatorio della pena applicata, e per certi versi virtuale, se si raffronta il numero effettivo dei condannati, con quello ben più esiguo di coloro che vengono poi realmente sottoposti alla esecuzione penale.

 

Ma ha senso parlare di un sistema di esecuzione alternativo al carcere?

L’urgenza e l’attualità degli interventi normativi, volti alla costruzione di un sistema di esecuzione alternativo al carcere, risultano più che mai pressanti se è vero che nel nostro sistema penitenziario sul totale della popolazione detenuta aggirantesi intorno alle 56.000 unità, è stato possibile recentemente rilevare e classificare, circa 15000 soggetti tossicodipendenti, ovvero persone che hanno avuto esperienze non sporadiche di consumo e dipendenza dalla droga. E quasi una metà di costoro, stimabili in 7.200, sono trattenuti in stato di detenzione per reati esclusivamente attinenti al mondo degli stupefacenti, in grande prevalenza per fatti di cessione qualificabili come episodi di lieve entità.

A tali numeri va aggiunta la quota considerevole di soggetti tossicodipendenti i quali hanno in corso di esecuzione provvedimenti giudiziari che dispongono l’ affidamento in comunità, quale misura alternativa alla detenzione, e che ammontano a circa 3.600.

Questi numeri danno esattamente la misura di come la repressione, con metodi di diritto penale, del commercio degli stupefacenti finisca inevitabilmente con il travolgere, in buona parte, anche i tossicodipendenti, benché essi siano i soggetti che per primi la legge intenderebbe tutelare con la lotta al mercato della droga.

 

Come possiamo definire tra tanti distinguo i detenuti tossicodipendenti?

I tentativi di classificare i detenuti assuntori di droghe sulla base del processo di interazione tra la condizione di dipendenza e l’azione criminale, hanno consentito in dottrina di distinguere tra tossicodipendente- criminale - inteso quale soggetto nel quale è prioritario il rapporto con la droga e prevalente il momento della dipendenza, tanto da essere indotto alla commissione di reati spinto dalla necessità di procurarsi i mezzi economici che gli consentano nuovi acquisti di stupefacente - e criminale-tossicodipendente - ossia soggetto, già appartenente al mondo della delinquenza, il quale fa ricorso alla sostanza vietata per motivazioni diverse dal primo ( non ultima la necessità di mantenere una condizione di esaltazione psico-fisica che gli renda più agevole ed "incosciente" la commissione di reati), e comunque che non delinque in funzione del bisogno di procurarsi la droga.

Parimenti in dottrina si è soliti distinguere tra i fenomeni delittuosi posti in essere dal tossicodipendente come espressione di criminalità diretta e quelli frutto di criminalità indiretta (v. Bruno F., Aspetti sociologici e criminologici delle tossico-dipendenze, in: Città, crimine e devianza, n. 3, 1980).

Sotto la prima categoria vengono ricomprese le azioni delittuose commesse sotto l’influsso diretto delle sostanze stupefacenti. Si tratta di condotte determinate dalla condizione di intossicazione, che da un lato attenua o elide i processi volitivi del soggetto, dall’altro determina un incremento della impulsività e della aggressività, fino a spingerlo alla commissione di gesti marcatamente antisociali.

Nella seconda categoria vengono invece ricondotte le azioni criminali che trovano la propria origine nel bisogno del tossicodipendente di procurarsi la droga. Si tratta per lo più di piccoli reati che vedono autori soggetti sottoposti ad una condizione di forte dipendenza, per lo più eroinomani, ovvero di reati operati contro le leggi antidroga vigenti.

Studi ulteriori hanno inteso classificare i soggetti già strutturati nelle attività delinquenziali e che effettuano un uso secondario di droghe ( facendo uso per lo più di cocaina, anfetamnine ed alcool, nonché delle più recenti droghe sintetiche) come soggetti farmacodipendenti, riservando la categoria dei tossicodipendenti a quei soggetti rispetto ai quali la commissione del reato è strumentale rispetto alla propria condizione di dipendenza psico-fisica.

Come si vede dunque la struttura delinquenziale preesistente è un elemento di distinzione fondamentale per la comprensione dei processi di motivazione che conducono al delitto ed alla assunzione di stupefacenti, e servono a ricostruire un percorso etiologico tra i due fenomeni, in assenza del quale tanto il giudice della cognizione, quanto più quello della esecuzione penale, si troverebbero sprovvisti di quei fondamentali elementi di giudizio che risultano in grado di dare un senso alla sanzione che si viene concretamente ad irrogare (o eventualmente a quella alternativa che si intende disporre in sostituzione della prima).

Non v’è dubbio, infatti, che il divario motivazionale che spinge al delitto gli appartenenti a queste due categorie di soggetti non può restare senza conseguenze sia dal punto di vista della dimensione giudiziale che da quella penitenziaria.

 

La questione della tossicodipendenza si trova a metà tra la questione criminale e l’emergenza sociale?

Le problematiche da ultimo introdotte pongono la questione della tossicodipendenza a metà tra la questione criminale e l’emergenza sociale. L’istanza solidaristica ed il superamento delle impostazioni di carattere etico, nelle scelte legislative di criminalizzazione e repressione delle condotte antisociali, trovano il loro momento di sintesi in uno degli aspetti più rilevanti nella normazione del nostro stato di diritto, che da sola è in grado di offrire spunti e risposte sulle prospettive di una possibile modifica della disciplina sugli stupefacenti: la funzione di prevenzione della sanzione penale rispetto alle esigenze della moderna società laica e pluralista.

Invero il concetto di modernità, richiama innanzitutto il superamento della dimensione simbolica del processo penale, inteso nel passato come luogo ove venivano stigmatizzati i comportamenti socialmente deviati e come strumento attraverso il quale, diffondendo nella collettività il carattere afflittivo delle sanzioni irrogate, lo Stato effettuava nei confronti di cittadini l’opera di dissuasione dal compimento dei delitti.

Con specifico riguardo alla tossicodipendenza, nel passato l’azione di repressione delle condotte è stata principalmente incentrata sullo scopo di porre un freno alla diffusività di comportamenti socialmente contrari a principi di morale e sanità pubblica, tanto da meritare la riprovazione popolare.

L’effetto di retribuzione della pena criminale conseguiva perciò la sua funzione di stigma ed al contempo operava in funzione dissuasiva erga omnes, tralasciando quali potessero essere i percorsi individuali del condannato, dopo il suo rientro nel mondo libero, e le eventuali conseguenze, anche indirette, sul piano della convivenza sociale.

Una tale impostazione non solo non appare più coerente con la attuale situazione, - che ha visto la crescita del fenomeno in forma epidemica e la sua manifestazione anche all’interno di nuclei familiari appartenenti a ceti più abbienti - ma soprattutto risulta in conflitto con quelle che sono le direttrici, non più solo nazionali, di prevenzione dei reati nell’interesse della collettività, sulle quali si orienta il moderno diritto penale.

Se è vero che gli strumenti della investigazione e della repressione dei reati - benché volti alla ricostruzione di fatti accaduti - devono oggi sempre più rivolgersi al futuro e non al passato, e dunque impedire nuovi vulnera per la collettività, l’attenzione al mondo della tossicodipendenza deve abbandonare ogni contenuto di riprovazione e sostanziarsi in percorsi di integrazione sociale.

Peraltro alla presenza massiccia di espressioni criminali complesse, operanti con modalità e metodi di puntuale organizzazione, può farsi fronte solamente con l’indagine e la repressione delle origini del delitto, ossia con il contrasto alle aggregazioni che nel crimine trovano la propria ragione d’esistere. Rispetto a tali organizzazioni la condizione del tossicodipendente abbandonato a se stesso e sottoposto a misure detentive di tipo indifferenziato - come già si è avuto modo di affermare - si presta ad uno sfruttamento ulteriore che da solo costituisce un moltiplicatore del fenomeno criminale che si intende combattere.

 

Qual è l’offerta del sistema carcerario?

La ordinaria condizione carceraria, non solo non risulta idonea a produrre un effetto di dissuasione nei confronti del soggetto tossicodipendente che ne patisce gli effetti (fallimento della funzione di prevenzione speciale); ma neanche funge da elemento di dissuasione per gli altri soggetti tossicodipendenti che, rispetto al delitto, ricevono impulso alle proprie motivazioni dalla necessità economica di fare fronte ai bisogni indotti dalla devianza primaria. Essi stessi prim’ancora sono caduti nella devianza - sfidando le proibizioni all’uso delle droghe - per la voragine di disadattamento sociale nella quale si agita la loro esistenza (fallimento della funzione di prevenzione generale).

Se pertanto le esigenze di sicurezza sociale impongono l’adozione d misure che pongano la società al riparo dalle condotte antisociali di chi vive la realtà della dipendenza, e se tra queste misure dovrà per forza di cose - per i reati più gravi - essere previsto anche il carcere, la detenzione dei tossicodipendenti non potrà essere vissuta in modo analogo a quello degli altri detenuti; perché altrimenti le speranze di adesione ad un progetto di socializzazione diverrebbero velleitarie e prive di contenuti realisticamente apprezzabili.

La funzione della pena potrà iniziare ad avere momenti di adesione con quanto previsto dal dettato costituzionale solo allorquando la presa in carico del detenuto-tossicomane sarà multidisciplinare: sanitaria-psicologica-risocializzante. E per ottenere ciò dovrà essere il carcere ad offrire, sia pure con ritardo, quell’intervento di integrazione sociale che è mancato per operare la prevenzione dei reati.

 

 

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