Alessandro Margara

    

Misure alternative alla detenzione per i tossicodipendenti

Un’analisi dei meccanismi che spesso ne ostacolano la concessione

di Alessandro Margara

 

Fuoriluogo, 28 febbraio 2003

 

Come funziona il sistema delle misure alternative per i tossicodipendenti e alcooldipendenti? Male. Comincio a fare un po’ di conti sui tossici che si trovano in carcere. I tossici in carcere sono Circa 15.000, presenti mediamente in un giorno (secondo una valutazione approssimativa, si calcola siano il 27% della presenza totale).

Sostengo da sempre che la cifra è sottostimata: mentre pochi denunciano una condizione inesistente per fruire delle presunte agevolazioni, molti preferiscono restare anonimi: il tossico non gode di gran prestigio in carcere. Dei 15.000, 8.000 dovrebbero essere condannati definitivi. Quanti sono gli affidati in prova al servizio sociale dalla detenzione ai sensi art. 94 T.U. 309/90 (già 47 bis Legge penitenziaria), misura specifica per i tossici?

Nell’anno 2001 sono stati complessivamente, in Italia: 837 complessivi, di cui 405 a Nord, 191 al Centro e 241 al Sud (i casi "seguiti" nel corso del 2001, aggiungendo le nuove ammissioni ai casi pendenti sono invece 1.620 complessivi, di cui: 832 al Nord, 357 al Centro e 431 al Sud). Notate che le cifre - della presenza media giornaliera di tossici e delle misure alternative concesse - non sono omogenee: i 15.000, di cui 8.000 definitivi, sono una presenza media in un giorno, mentre le concessioni di affidamenti sono quelle succedutesi nel corso dell’intero 2001. Per confrontare dati omogenei bisognerebbe avere il numero dei tossici detenuti definitivi nel corso dell’anno: presuntivamente, dalla metà ai due terzi dei presenti giornalmente: cioè, da 12.000 a 14.000.

Conclusione: al di là di tutti i conteggi e della loro opinabilità, l’ammissione alle misure alternative funziona male se delle stesse fruiscono molto meno del 10% di coloro che potrebbero fruirne. Il che è grave, perché va ricordato che il sistema disegnato dagli artt. da 89 e 95 del DPR 309/90 privilegia, per tossici e alcooldipendenti, un’esecuzione della pena che possa consentire lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi.

Questo doveva essere favorito dalle misure alternative ad hoc, con attuazione dei programmi fuori dal carcere o - art. 95 - anche in carcere, ma in istituti appositi, idonei allo svolgimento dei programmi terapeutici. A tal fine, ai sensi art. 95, comma 2, si sarebbe dovuto provvedere "alla acquisizione di case mandamentali ed alla loro destinazione per i tossicodipendenti condannati con sentenza anche non definitiva".

Ma così non è accaduto. Nonostante l’avvio della costruzione di numerose strutture nuove nelle sedi delle vecchie case mandamentali, questo programma è fallito, sostituito in parte modesta dai cosiddetti istituti o sezioni a custodia attenuata, che raggiungono non più del 10% dell’utenza, anche se sovente con risultati apprezzabili.

Ma, specie in difetto del Circuito apposito indicato dalla legge, perché non riceve un impulso adeguato la ammissione alle misure alternative? Perché, e mi ripeto, il sistema funziona male. Manca intanto una presa in carico capillare al momento dell’arresto. Solo la prosecuzione o l’inizio di programmi metadonici, da avviare spesso a rapida conclusione. Dopo di che, se esiste il presidio penitenziario per le tossicodipendenze, questo interverrà più per la sostituzione del metadone con farmaci per sopire (letteralmente) anziché per affrontare i problemi. Eppure, ai sensi del comma 3 dell’art. 96 del solito DPR 309/90, il SerT. dovrebbe essere presente e operativo in carcere (questo sarebbe uno dei pochi effetti ribaditi dalla legge 230/99, che ha stabilito il passaggio del servizio sanitario penitenziario a quello nazionale).

Ma la presenza del Ser.T. è discontinua ed incompleta, impari al compito da affrontare. Non si approntano le risorse necessarie con riguardo alla dimensione quantitativa del fenomeno, ma si mettono a disposizione quelle esistenti, chiaramente insufficienti. Il coinvolgimento e l’offerta di programmi sarà eccezionale e porterà alle egualmente eccezionali ammissioni alle misure alternative (il 10-15% non è eccezionale?).

Se poi vogliamo credere alle statistiche (ho sempre delle riserve in proposito) dobbiamo rilevare che i casi di revoca di tali ammissioni dalla detenzione sono il doppio di quelli di revoca delle ammissioni alle stesse misure dalla libertà; e addirittura il quadruplo degli affidamenti ordinari (non per tossicodipendenti) dalla detenzione.

Ovviamente, si può pensare alla forte motivazione di uscire dal carcere che riduce quella di far buon uso della misura alternativa. Personalmente, credo a un discorso più complicato: si tratta in genere di casi con ripetuti fallimenti alle spalle, che sovente vengono da rigetti della istanza di ammissione avanzata da libero, ma che hanno imparato la strada per utilizzare le prassi di ammissione. Sono, quindi, i casi più problematici, ma anche quelli più "pratici" e attivi. Gli operatori dovrebbero pensare, ma per i limiti organizzativi non ci arrivano, ai tanti casi "silenziosi", che potrebbero essere agganciati più proficuamente.

Ma l’affidamento in prova in casi particolari può essere concesso anche senza passaggio dal carcere. Le cose vanno meglio? Mica tanto. Ripartiamo dai conti, mancando però dei dati di riferimento sul numero complessivo delle persone che potrebbero fruire delle misure alternative. Certo è che le ammissioni non sembrano molte. Nel corso del 2001 i nuovi affidati sono stati complessivamente 2.484, di cui 1.408 al Nord, 601 al Centro e 475 al Sud. I casi complessivamente "seguiti" nello stesso anno, aggiungendo anche quelli pendenti a fine 2000, sono stati 5.243, di cui 3.161 al Nord, 1.123 al Centro e 959 al Sud.

Le revoche delle ammissioni sono il 7,67%, la metà di quelle degli affidati tossicodipendenti dalla detenzione. Pur sempre quasi il doppio delle revoche degli affidati non tossicodipendenti, a conferma del maggiore rischio di insuccesso dei percorsi di riabilitazione dei tossici, un rischio, comunque, che non si rivela particolarmente elevato (dobbiamo infatti pensare che il 92,33% degli affidamenti si concludono bene).

Come si è detto, mancano i dati di riferimento. Ma certamente le istanze di affidamento avanzate sono un numero rilevante, elevate le percentuali di quelle respinte e soprattutto un gran numero di tali istanze finiscono nel gran mare delle giacenze in attesa di fissazione presso i tribunali di sorveglianza: in tutta Italia 75.000, equivalenti a due anni e mezzo di lavoro ai ritmi attuali (il punto esclamativo è d’obbligo)!

È un altro inconveniente grave: la intempestività delle decisioni, di cui è responsabile la inefficienza complessiva del sistema dei tribunali di sorveglianza (con qualche isola di efficienza, una discreta inefficienza diffusa e una grave inefficienza in alcune sedi, curata talvolta con l’uso tendenzialmente indiscriminato della inammissibilità, che è una cura peggiore del male), esclude in questa materia ogni reale efficacia di una misura alternativa tardiva. Naturalmente non si vuole parlare di un’inefficienza voluta, ma conseguente a inadeguatezze organizzative per il cui superamento poco è stato fatto.

Comunque, il fenomeno ha due aspetti: da un lato, la mancata presa in carico delle istanze, imputabile tutta al sistema dei tribunali di sorveglianza; dall’altro, le rilevanti percentuali di istanze respinte, per le quali, le responsabilità si dividono, in misura difficilmente quantificabile, fra gli stessi tribunali di sorveglianza e i servizi tossicodipendenze: i primi entrano nella valutazione dei programmi indicati dai servizi e che sono normativamente nella competenza degli stessi; i secondi indicano sovente programmi poco consistenti, al punto da renderli inattendibili.

Sia l’uno che l’altro disservizio non appartengono al destino cinico e baro, ma sono il frutto della mancanza dell’attenzione e della tensione (anche di questa a mio avviso) che questi servizi meritano.

Nel momento in cui i nuovi padroni della legge (chiamarli legislatori mi sembra eccessivo) pensano a riesumare indirizzi abbandonati da decenni e a ridare fiato alla punizione come soluzione magica dei problemi, mi sembra che il compito essenziale attuale sia quello di difendere la reale operatività del sistema di aiuto e di sostegno agli interessati, nato in questi anni, per coinvolgerli nei percorsi di soluzione dei loro problemi: e tale difesa passa dall’impegno nel costruire la reale efficienza del sistema stesso, analizzando le inadeguatezze e studiandone il modo di superarle.

Parlano le comunità

 

Misure alternative per tossicodipendenti e comunità terapeutiche: un’associazione privilegiata, si potrebbe dire, visto che molti tribunali di sorveglianza accettano solo programmi che prevedono la permanenza in comunità. Non tanto per ragioni di logica terapeutica, di cui i magistrati non si intendono, quanto perché la comunità avrebbe il pregio, agli occhi dei giudici, di offrire maggiori possibilità di sorveglianza. È una logica di commistione fra mandato terapeutico e di controllo che sta stretta a quelle comunità che credono davvero nel recupero delle persone. Al convegno di Mantova dello scorso dicembre, organizzato da Forum droghe, Fabio Scaltritti, di S. Benedetto al porto di Genova, e Achille Saletti, di Saman, hanno parlato di questi problemi e di altri ancora. Achille Saletti sottolinea il clima di regressione culturale, che fa sì che le misure alternative vengano concesse più difficilmente e con programmi più limitativi.

Ma c’è un altro aspetto: in carcere si concentra l’area dei tossicodipendenti in stato di grave disagio sociale e anche psichico. Per queste persone, che spesso non hanno né casa né lavoro, la comunità rappresenta la risposta "tuttofare".

"Negli ultimi anni - dice Scaltritti - c’è una maggiore richiesta dalle carceri perché le comunità accettino persone considerate ingestibili. Ci sono sempre più casi di disagio psichico e non sanno dove mandarli". Proprio per cercare di fronteggiare questa situazione, la comunità Saman ha avanzato un progetto per convenzionare tre strutture specifiche per la cosiddetta "doppia diagnosi" (persone con diagnosi sia di tossicodipendenza che di disturbo psichiatrico) di tipo residenziale ma proiettate sul territorio.

In generale, la regressione culturale si avverte sin dalla definizione del programma, che fondamentalmente è stabilito dai tribunali, e non dalle agenzie terapeutiche. Ai magistrati sta soprattutto a cuore che sia rispettata l’astinenza e che i test delle urine siano negativi. In caso contrario, incombe il rischio di tornare in carcere, alcuni anzi stabiliscono una "regola": al secondo test positivo c’è la revoca della misura alternativa (è quanto succede a Mantova, denuncia un’operatrice sociale).

"Da noi non c’è la revoca automatica dell’affidamento, però questo viene sospeso in attesa di decisione e la persona rientra in carcere. E la reincarcerazione è devastante", denuncia Scaltritti. Che punta il dito su un’altra disfunzione del sistema, quello dei tempi: quando un detenuto tossicodipendente chiede l’affido, in caso favorevole il magistrato stabilisce la sospensione della pena e la persona entra in comunità.

Ma la decisione definitiva circa l’affidamento viene presa dal tribunale di sorveglianza in camera di consiglio, e questo può avvenire anche sei, otto mesi dopo. E a volte ci vogliono altri due o tre mesi prima che arrivi la notifica del provvedimento, e solo allora scatta il periodo previsto per il programma.

Ma nel frattempo è passato più di un anno invano e molti tossicodipendenti dicono: "Se fossi rimasto in carcere, adesso avrei già scontato la mia pena...". In questa situazione i percorsi terapeutici sono difficili, bisognerebbe cercare di evitare il ricorso al carcere. "Molti in galera non ci finirebbero se solo avessero una difesa decente - commenta amaro Achille Saletti – e gli extracomunitari, adesso così numerosi, non hanno nemmeno diritto al gratuito patrocinio".

Pregiudizi e carenze

di Roberta Balestra, del Ser.T. di Trieste

 

La situazione delle carceri nella nostra regione, il Friuli Venezia Giulia, è simile a quella nazionale: la popolazione detenuta regionale è di circa 800 persone; di queste la metà è straniera ed un terzo tossicodipendente. Le condizioni di vita interna agli istituti sono scadenti, con problemi quali quello dell’assistenza sanitaria carente e della mancanza di continuità assistenziale, che mettono tra parentesi il diritto alla salute e alla cura. A causa dell’insufficiente personale educativo-trattamentale, l’accessibilità ai programmi educativi, di socializzazione, riabilitativi, è quasi nulla.

Uno studio analitico compiuto dal Dipartimento tossicodipendenze di Trieste ha messo in evidenza che, ciò nonostante, la magistratura di sorveglianza concede negli anni sempre meno affidamenti in prova e sempre più semilibertà e detenzioni domiciliari.

È evidente una diffidenza/paura verso misure alternative più ampie e responsabilizzanti. Il rifiuto viene spesso motivato con la pericolosità sociale, che viene desunta dal fascicolo e quindi dalla storia pregressa piuttosto che dalle relazioni sulla condotta recente. È un circolo vizioso, per cui la persona non si libera mai del proprio passato più ingombrante, anche in presenza di reali cambiamenti. L’affidamento ordinario poi è raramente concesso a persone con storia di tossicodipendenza, per le quali viene disposto il controllo tossicologico obbligatorio o una misura alternativa più restrittiva.

Una questione che meriterebbe una maggiore attenzione e discussione è quella dei criteri di monitoraggio dell’andamento dei programmi di affidamento in prova. Infatti a tutt’oggi per il magistrato l’unico indicatore valido e significativo per la valutazione di efficacia degli interventi è il referto tossicologico. Anche la singola positività agli oppiacei o alla cannabis può pregiudicare la misura alternativa. È una lettura che rimanda a un orizzonte di riferimento ristretto e superato, per cui bisogna applicare la norma a scapito di considerazioni più globali, di valutazioni "a tre": magistrato, Servizio delle dipendenze, CSSA (Centro servizio sociale per adulti).

Per sua peculiarità, il lavoro terapeutico è complesso, comprende molteplici interventi e va valutato tramite indicatori tarati sui singoli aspetti del programma e sugli obiettivi prefissati. Ad esempio, indicatori come il grado di collaborazione, la continuità, la capacità di svolgere un’attività scolastica o lavorativa, la qualità delle relazioni familiari ed extrafamiliari, possono valorizzare i percorsi intermedi, spesso sottovalutati e misconosciuti, nonostante rivestano un’importanza cruciale. Solo alla luce di una valutazione più ampia, l’eventuale referto tossicologico positivo acquista la reale rilevanza.

Oggi, comunicare al magistrato un referto positivo rimanda a un estenuante esercizio di buona e convincente scrittura, poiché l’operatore è chiamato a relazionare e commentare il test. Si confida nella clemenza del giudice, che ha totale discrezionalità e decide in base a proprie idee e convinzioni pregiudiziali. La ricaduta, anche saltuaria, viene vissuta con allarme eccessivo, non come uno tra i sintomi di possibile disagio personale.

Tutto o niente. Chi si cura seriamente non si fa e chi si fa dimostra di non curarsi. Con questo sistema di riferimento sono stati messi in discussione programmi e risultati importanti, raggiunti nel corso di anni di lavoro, infliggendo sanzioni del tutto incongrue e per questo incomprensibili, inaccettabili. L’inaccettabilità è pericolosa, perché spinge la persona ad atteggiamenti di rivolta, di rinuncia e di depressione. Per coerenza interpretativa, dovrebbe essere messa in discussione l’efficacia dissuasiva e rieducativa del carcere, quando la stessa persona ritorna in carcere più volte. Ulteriore motivazione di rigetto della misura alternativa è la presunta "strumentalità" della richiesta. Ora, anche se sussistesse la strumentalità, si è sempre detto che ogni occasione di contatto col servizio allude a una possibilità reale di cambiamento e di nuova intrapresa. Anche se la motivazione prevalente (e neanche così incomprensibile!) è evitare il carcere, si deve rischiare e mettersi in gioco, con offerte terapeutiche di valorizzazione, di aiuto, di senso. Quale autorità può presupporre di sapere a priori? Con quale diritto può coartare le possibilità di scelta?.

 

 

 

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