Francesco Maisto

 

Da consumatori a spacciatori

di Francesco Maisto

 

Fuoriluogo, maggio 2003

 

Ogni ulteriore accentuazione di quell’ibrido innesto tra penalità e terapia, già presente nella nostra legislazione sugli stupefacenti, rende quell’intreccio, non solo antistorico, ma anche distruttivo, perverso e criminogeno.

In questa linea di politica criminale si inserisce la recente proposta esposta a nome del Governo italiano dal vicepresidente Fini, alla sessione di Vienna della Commissione delle Nazioni unite per la lotta agli stupefacenti. Sul presupposto del "mutamento dell’atteggiamento dello Stato non nei confronti dell’ abuso ma dell’uso stesso", i cardini della nuova Legge dovrebbero essere:

  1. l’eliminazione "di fatto (del)la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti";

  2. la previsione che "la detenzione di sostanze stupefacenti al di sopra di una certa dose rappresenta un comportamento sanzionabile";

  3. la "sospensione della pena per la condanna fino a sei anni (sic!)" in virtù "dell’avvio di un percorso di recupero". È evidente l’ancoraggio al disegno di legge n. 1322, presentato il 10 aprile 2002 dal Sen. Pedrizzi di An, il cui fulcro è la riproposizione del parametro quantitativo della "dose media giornaliera" (dmg) (ovvero, "dose massima consentita" nella versione viennese), quale discri1nine per il processo e la sanzione penale prevista dall’ art. 73 del Testo unico sugli stupefacenti. La tentazione di imporre un criterio quantitativo mediante l’utilizzo delle parole magiche d’ occasione è stata ricorrente nella storia della legislazione italiana sulla droga di questi ultimi trent’anni.

Si cominciò con la "modica quantità", quale parametro di non punibilità dell’uso personale, secondo l’art. 80, il comma L. 22.12.1975, n. 685, che falli miseramente sul terreno del contrasto della criminalità falcidiando invece con la galera migliaia di giovani tossici, per la sua estrema genericità, mentre giurisprudenza minoritaria, ma eteroreferenziale, evidenziava la necessità di valutare, oltre il dato quantitativo, le proprietà tossiche della sostanza, la personalità fisico - psichica del detentore e il grado di tossicomania.

L’approdo della maggioranza del 1990 (L. 26 giugno 1990), n. 162, poi confluita nel Dpr 9 ottobre 1990, n. 309, detto Testo unico sugli stupefacenti) fu la dmg (da determinare, per l’art. 78, I comma, con decreto del ministro della Sanità - D.M. 12 luglio 191X), n. 186), quale parametro per l’applicazione della pena detentiva, sul presupposto autoritario e illiberale del divieto legale dell’uso personale. Ma già la Corte costituzionale (sentenza n. 333 del 10 luglio 1991, adita dal Tribunale di Roma il 12 ottobre 1990 insegnò, in relazione alla dmg, che la tecnicità e la scientificità dei criteri di riferimento per la determinazione della dose, non equivalgono a certezza, sicché l’erronea utilizzazione delle conoscenze tecniche del settore da parte dell’autorità amministrativa, comporta la disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo.

I guasti prodotti dalla dmg, sia sul versante giudiziario (ingolfamento della giustizia penale) e penitenziaria (sovraffollamento delle carceri), sia sul versante investigativo, per la facilità degli arresti dei "pesci piccoli", indusse lo stesso governo a emanare il decreto legge del 12 gennaio 1993, n. 3, nella speranza di porre qualche riparo con l’aumento della soglia di tolleranza penale, mediante la previsione delle sole sanzioni amministrative anche a chi, per farne uso personale, illecitamente importava, acquistava, o comunque deteneva sostanze stupefacenti in quantità non superiore al triplo della dmg, qualora fosse risultato che tale maggiore quantità corrispondeva alla dose individuale abitualmente assunta nelle 24 ore.

L’esito del referendum del 18, 19 aprile 1993 (Dpr 5 giugno 1993, n. 171) produsse non solo, sul piano formale, ma cogente tra le altre disposizioni del T.U., un effetto abrogativo dell’espressione - contenuta nell’art. 75, I comma - "in dose non superiore a quella media giornaliera", e prima ancora, del divieto di uso personale, ma ebbe altresì il significato sostanziale di sottrarre integralmente al circuito penale - criminale, il tossicodipendente, in quanto tale, anche se spacciatore. Si accoglievano cosi elementari principi di politica criminale che consigliano, in vista di maggiori risultati, una strategia diversificata di lotta al ciclo della droga, mediante la prevenzione generale e individuale, sul fronte dei consumatori, da una parte, e dall’altra, sul fronte criminale, azioni repressiva nei confronti della grande produzione e distribuzione, preferibili alle improduttive e desolanti (e troppo facili) attività di repressione del piccolo spaccio.

Ora, l’accentuazione della tendenza proibizionista contenuta nella proposta del governo, inevitabilmente eserciterebbe una forte spinta criminogena sul consumatore, legato ai maggiori costi indotti dal rimodellamento del mercato della droga trasformandolo in consumatore - spacciatore ed appiattendolo sul versante punitivo del traffico, con il conseguente aumento dei processi penali e delle incarcerazioni per un verso, e la riduzione dei servizi di recupero per altro verso, funzionalmente legati allo smantellamento dello Stato sociale.

E perché non si confondano lucciole con lanterne bisogna ricordare che ormai, il nostro ordinamento è orientato da criteri costituzionali generali e specifici della materia (i principi di offensività, di estrema ratio, di legalità, di effettività, di scopi della pena) che esigono il rispetto di principi fondamentali di giustizia penale preclusivi di criteri discriminatori meramente legati ai quantitativi di droga.

Proprio facendo tesoro di questi principi (Corte costituzionale 23 luglio 1996, n. 296), il Tribunale di Roma (18 gennaio 2000) nel cosiddetto caso Pannella ha evidenziato il pericolo derivante dalla condanna per fatti di maggiore entità per condotte di detenzione, acquisto da parte di consumatori "spesso giovani e indifesi" venuti a contatto necessariamente con coloro che si dedicano abitualmente allo spaccio per fine di lucro. Ancora una volta si confondono le parole d’ordine coi principi costituzionali.

 

 

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