Progetto "Narciso"

 

Droghe: per cocainomani a Bologna c’è Progetto "Narciso"

 

Progetto Uomo, 30 dicembre 2006

 

La forte crescita di disponibilità di sostanze stupefacenti sul "mercato", definendo quindi queste ultime per certi versi un prodotto di consumo, così come la percezione prevalente di queste sostanze, alcol compreso, come il "normale condimento" dei momenti di socializzazione e divertimento, portano a considerare da un punto di vista simbolico che il loisir è l’aspetto centrale del senso dell’uso delle stesse, riducendo a prima vista l’equazione tra uso/abuso di sostanze e sofferenza del soggetto, connotando quindi il consumo come un comportamento giovanile potenzialmente equivalente ad altri.

A fronte di ciò, però, molte di queste sostanze (cocaina in primis) sono in grado di creare un legame "additivo", un’anticamera di dipendenza psichica, estremamente forte, poiché il cervello difficilmente dimentica sostanze che "imitano" e intensificano i processi naturali del piacere. Ciò determina, ai miei occhi, la difficoltà di "gestire" queste sostanze, la loro scarsa "maneggevolezza".

Da questa angolazione assumo che, pure esistendo una linea di demarcazione nitida fra uso ricreativo di sostanze psicoattive e abuso, tra consumo e dipendenza, questo confine può essere posto esclusivamente in termini dinamici, nella consapevolezza che la persona può evolvere in un senso o nell’altro in maniera scarsamente pronosticabile. Su questo piano la scelta di campo da me agita è quella di un orientamento critico verso il consumo, e quindi di una rappresentazione dello stesso, pur se realistica, problematica.

 

La prevenzione possibile

 

Nell’ottica del cosa fare in termini di prevenzione si possono assumere modelli differenti, anche in base ai contesti in cui vengono posti in essere le azioni, e possono essere definiti diversi livelli in termini di obiettivi da raggiungere.

Riferendomi a un modello "olandese" si può assumere che la prevenzione primaria abbia come obiettivo principale quello di fornire informazioni ai consumatori o a coloro che sono contigui a essi in un’ottica di aumento della consapevolezza delle conseguenze.

Si può individuare una prevenzione secondaria centrata sulla trasmissione di modalità "più sicure" di consumare le sostanze, sulla capacità di fornirsi "assistenza" reciproca in caso di bisogno, enfatizzando, come dice un autore, che la droga può essere vista come un prodotto, qualcosa che può fare bene o fare male, ma non qualcosa in cui identificare se stessi.

Si può, infine, arrivare a un livello di prevenzione terziaria che agisca nei luoghi di consumo/abuso attraverso l’analisi chimica delle sostanze, che consenta di monitorare i rischi per i consumatori che le vogliono assumere e di pensare a modalità di riduzione del danno degli eventi che in questi luoghi possono presentarsi.

Rispetto a queste modalità d’intervento assumo con piena convinzione che la pragmaticità è un elemento cardine dell’efficacia di un intervento, ritengo quindi, nella schematicità di questa rappresentazione, che tutte queste azioni abbiano pienamente ragione di essere.

Un punto sul quale voglio articolare una riflessione, forse provocatoria, è che, sullo sfondo, mi sembra che sia visto come auspicabile una sorta di consumatore intelligente, che attraverso una giusta combinazione d’informazioni, di descrizioni del prodotto, di strategie per ottimizzare il consumo e le varie combinazioni sia sufficientemente responsabile di ciò che avviene e lo gestisca al meglio.

Sfortunatamente questo non è quello che riscontro nella maggior parte delle persone che incontro, persone che appartengono pienamente al target preso in esame, che studiano, lavorano e frequentano i luoghi d aggregazione giovanile, non certo le più emarginate della terra.

Gli aspetti "ordalici" delle loro condotte, di esposizione al rischio, di ricerca di piacere "totale", il loro connotarsi come sensation seekers mi appaiono in contraddizione con un’immagine di uso responsabile delle sostanze psicostimolanti e delle bevande alcoliche.

Nella mia pratica professionale sposo pienamente la convinzione che per essere in relazione con loro devo assumerne il linguaggio, e che, con divertimento a volte, devo vestire dei panni "ambigui" nei quali il giovane possa parzialmente identificarsi rimanendo libero di differenziarsi da una figura adulta un pò simile e un pò diversa da lui; sono pienamente convinto che sia sensato porsi a volte in maniera contraddittoria per mantenere aperta una relazione.

Ritengo però importante veicolare anche messaggi che contengano riflessioni inaccettabili per un giovane: il fatto, riferendomi a studi molto recenti, che la cannabis possa essere elemento collaterale alle psicosi in alcuni casi in maniera significativa, il fatto che la neurotossicità della MDMA e simili sia oggetto di studio e susciti nella letteratura di riferimento assoluta preoccupazione, che la cocaina possa slatentizzare in maniera drammatica, in persone vulnerabili, quadri di gravità assoluta non sempre e automaticamente reversibili.

Tutto ciò nella ricerca di un difficilissimo equilibrio che consenta di continuare a ragionare e "spesso" a polemizzare, con divertimento, con giovani che rivendicano a pieno titolo il significato e il senso ricreativo del loro consumo di sostanze per come è percepito dall’interno dei loro gruppi.

 

Il Centro "Il Pettirosso"

 

Il Pettirosso è una cooperativa sociale che opera nella costruzione di programmi terapeutico/educativi all’interno del cosiddetto "privato sociale". Appartenente alla rete FICT (Federazione italiana comunità terapeutiche), è attiva dal 1985 e si è occupata prevalentemente di tossicodipendenza.

Nella sua graduale espansione, il centro è diventato sempre più un soggetto che sceglie e, al contempo, deve interloquire con il sistema dei servizi in base alla distribuzione delle competenze e delle risorse in materia di tossicodipendenza. Ciò ha determinato un’evoluzione che lo ha orientato verso la costruzione di un sistema di risposte multiple, ridefinendo quindi, parzialmente, il suo essere una comunità terapeutica residenziale. I sottosistemi e le risposte all’interno del centro rappresentano, in forma ridotta, la più ampia e generale complessità che ormai è il "problema" tossicodipendenza.

Uno sfondo decisivo a questo è il processo di evoluzione dei consumatori. Da un lato assistiamo all’invecchiamento di alcune fasce classiche di eroinomani, mentre dall’altro avanzano nuove tipologie, spesso più giovani, con stili di consumo e abuso centrate su una pluralità di sostanze. Si è reso così necessario assumere una fisionomia che potesse essere compatibile con questo nuovo tipo di soggetti, notando quanto questi non si riferiscano o si identifichino nei servizi classici del sistema pubblico/privato.

Da coordinatore di una realtà, quindi, che opera sempre più mediante progetti, siano essi sollecitati dai committenti pubblici o attuati in autonomia, mi sono dovuto orientare su una fortissima differenziazione dell’offerta e degli strumenti operativi. Ciò nella consapevolezza che, oggi, giovani assolutamente "sani" e "normalmente" inseriti, accettando la dilatazione della giovinezza fino ai 34 anni così come la pongono le ricerche lARD, vengono a contatto con svariate possibilità d’uso di molteplici sostanze in grado di modificare/ alterare il loro stato percettivo e mentale.

 

Il Progetto "Narciso"

 

Mi interessa, quindi, descrivere sinteticamente quali sono le attività che vengono svolte nel centro in cui opero rispetto a questa variegata tipologia di persone: il punto centrale da cui siamo partiti è stato quello di differenziare fortemente questa area da quella della tossicodipendenza "classica" per rispondere alla necessità di interventi che necessariamente si dovevano collocare in un’area intermedia fra la prevenzione e il trattamento.

Il Pettirosso ha così attivato, anche dal punto di vista organizzativo e di immagine, un settore che si presenta come centro di ascolto per problemi relazionali ed educativi, assumendo quindi la funzione di uno spazio di consulenza.

L’orientamento non è quello di ricostruire l’eziologia di queste situazioni, bensì quello di fornire strumenti e possibilità di comprendere il senso e il significato meno superficiale dei propri comportamenti.

Volendo evidenziare, sinteticamente, gli aspetti significativi di queste pratiche, ne rilevo tre centrali:

la motivazione a costruire una relazione non è assolutamente implicita nelle presunte condotte disfunzionali;

la posizione che viene assunta nella relazione con queste persone schematizzando, non è quella clinico-paziente, ma è orientata a un counselling "informale";

gli obiettivi dei percorsi, la definizione per così dire "contrattuale" del processo non possono essere posti all’inizio ma devono essere negoziati con le persone stesse e i loro familiari.

Circa gli aspetti motivazionali, che sono il focus centrale delle azioni, il counselling deve agire come promotore, dall’interno della persona, di una prospettiva di auto riflessione e conseguentemente di orientamento verso il cambiamento. In questo senso, come è ormai ritenuto condivisibile dai più, le caratteristiche personali di chi pone in essere questo tipo di attività sono rilevanti ai fini del risultato.

L’atteggiamento comunque nel processo di elicitazione delle motivazioni e di rinforzo al cambiamento non può essere "confrontazionale" direttivo, bensì procedere con modalità di ascolto riflessive, empatiche che restituiscano selettivamente e, possibilmente, amplino le incongruenze percepite dalle persone.

Altro aspetto centrale, soprattutto con i giovani, e prevalentemente costruttivo, è quello di individuare una rete di interlocutori interni ed esterni alla famiglia che possano avere la valenza di rinforzo positivo del processo/percorso che si sta costituendo.

È assolutamente evidente che, in situazioni in cui l’aspetto psicopatologico risulti preoccupante, questo tipo di attività debba essere integrata con interventi clinici e/o farmacologici opportuni, rimanendo però convinti che questi ultimi non possano essere sostitutivi delle azioni che vengono proposte su un piano relazionale/esperienziale.

In questo senso l’aspetto di tali attività è di totale orientamento alla costruzione di una rete significativa in termini relazionali e di possibilità di attivazione di un proprio percorso di crescita personale.

Le dimensioni e le aree tematiche del counselling offerto devono essere orientate verso tutte le aree della vita nelle quali siano percepite difficoltà o curiosità, e assolutamente non esclusivamente in quelle inerenti il consumo/abuso di sostanze stupefacenti. In questo senso è estremamente rilevante un’attitudine "pedagogica", ovvero una capacità di spiegare e favorire cambiamenti consapevoli attraverso l’apprendimento e la sperimentazione di nuove modalità comportamentali.

Nell’esperienza fino a qui svolta, il fatto di fare entrare nei percorsi proposti più aspetti della propria vita relazionale, affettiva, scolastica, lavorativa, e di affrontarli con modalità simili ai training di apprendimento di abilità, è sembrato migliorare in maniera significativa la ritenzione e l’adesione ai percorsi proposti, sia di tipo preventivo che di tipo terapeutico.

All’interno di questo settore d’intervento vengono assunti come parametri rilevanti: l’intensità della relazione; la ricerca di aumentare la frequenza degli incontri; il coinvolgimento significativo di figure familiari o comunque in grado di esercitare un’influenza costruttiva sulla persona; l’utilizzo di strumenti di taglio psico educativo; la prevalenza di un approccio cognitivo comportamentale e quindi estremamente mirato; l’apprendimento di informazioni rilevanti per comprendere i fenomeni legati all’uso di sostanze e a promuovere la comprensione del significato personale del consumo; l’acquisizione di familiarità con i gruppi di auto aiuto; il fatto di essere (se interessati) monitorati attraverso il test delle urine; l’orientamento alla sobrietà (ovviamente questa non può essere posta come premessa iniziale alla relazione ma come obiettivo a cui tendere).

È evidente che queste modalità si sono inizialmente difficilmente integrate con la nostra strategia operativa di base e con la nostra storia di centro di solidarietà. Dopo cinque anni, comunque, queste aree di intervento sono pienamente inserite nella nostra prassi presso la sede dell’accoglienza.

Segnalo anche, pur se infrequente, l’utilizzo in forma breve (tre mesi) di interventi residenziali quando se ne presentino le motivazioni. Questo utilizzo della residenzialità si è tuttavia gradualmente dimostrato necessario in situazioni in cui la compulsività e il craving o la conflittualità familiare non apparivano gestibili altrimenti.

In qualche misura concedendomi, presuntuosamente, la possibilità di delineare una fisionomia a servizi di questo genere, riterrei una buona pratica che presentassero al loro interno tre possibili livelli di intervento: counselling individuale, familiare, gruppale eventualmente orientabile in senso preventivo (secondario/terziario), percorsi più strutturati in senso ambulatoriale/diurno ad alta frequenza di incontri e multimodali sul piano dell’offerta di servizi, possibilità di interventi di tipo residenziale su obiettivi mirati e di durata contenuta.

In conclusione, sottolineo come a partire da ricerche come quella proposta in questa riflessione, sia assolutamente necessario pensare e progettare attività e pratiche che si occupino di questa realtà, non nella percezione di una "gioventù bruciata", ma di una situazione che reclama l’attenzione soprattutto di chi lavora nei servizi di cura alle persone. In questa cornice di riferimento si inserisce il progetto Narciso.

Il progetto Narciso è destinato ai consumatori di cocaina puri. È attivo dall’ottobre del 1999 presso la sede dell’accoglienza del Pettirosso di Bologna e vuole definirsi come un programma ad ampio spettro di offerta e di modalità proposte per agire sia in senso preventivo sia come trattamento di recupero vero e proprio. Da questo punto di vista lo strumento centrale degli interventi è quello di un counselling multimodale ad alta intensità e frequenza. Le direttrici principali degli interventi sono motivazionali, comportamentali e orientate a costruire un significato consapevole ai propri comportamenti legati all’assunzione di sostanze stupefacenti.

È evidente che l’atteggiamento di chi opera in questo settore è pienamente coerente con l’appartenenza a una comunità terapeutica e quindi gli elementi dell’empatia, della solidarietà, del sostegno tra pari, e un atteggiamento, per certi versi non orientato alla clinica, ne sono la cornice di riferimento. È importante, però, sottolineare che gli strumenti posti in essere sono ad alta professionalità.

In quest’ottica si costruisce un’analisi funzionale dettagliata dei comportamenti legati al consumo di sostanze stupefacenti, si ricostruisce in maniera dettagliata l’elemento desiderio (craving) negli aspetti individuali in cui si manifesta nelle persone; la modalità tecnica è quella di orientare verso la consapevolezza e quindi, elicitare motivazioni interne alla persona orientate al cambiamento. In questo senso quello che viene praticato è un ascolto riflessivo/selettivo che restituisca e ampli le incongruenze che possono esserci fra la percezione di sé e i propri comportamenti.

In quest’ottica sono estremamente importanti le attività orientate alla sperimentazione/apprendimento di modalità differenti di comportamento nelle differenti aree della vita. Tale componente è prevalentemente pedagogico-educativa piuttosto che clinica, essendo centrata sull’apprendimento. Vengono quindi svolti training centrati su un apprendimento individualizzato che consenta di migliorare le proprie abilità a livello relazionale, di problem solving e di capacità di risposta assertiva in situazioni difficili.

Nel corso di questi anni sono state seguite con questa modalità 85 persone comprese fra i 26 e i 53 anni che, in tutta onestà, hanno costituito per me la fonte primaria di apprendimento e di consapevolezza degli elementi specifici che questo, pur se eterogeneo, target manifesta.

 

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