La detenzione domiciliare speciale

 

Donne e madri in carcere

 

Carcere femminile e carcere maschile

I reati delle donne

Le tossicodipendenti

Le immigrate e le nomadi

La maternità in carcere: una scelta difficile

Madri in carcere

Il carcere di Rebibbia - Roma

Il carcere di San Vittore - Milano

Il carcere della Giudecca - Venezia

Carcere femminile e carcere maschile

 

È una minoranza quella femminile nella popolazione carceraria (poco più del 4%), si tratta quindi di un problema qualitativo prima che quantitativo. Le donne pare, infatti, che abbiano maggiori problemi materiali e psicologici nella detenzione: la loro personalità e la loro sensibilità sono più complesse, soffrono per l’assenza di affettività, per la lontananza dai figli, dalla famiglia e dalla vita normale. Tendenzialmente le donne detenute hanno più sensi di colpa verso l’esterno e verso la famiglia che rimane fuori dalle loro quattro mura. Il dramma delle madri carcerate poi è uno dei problemi più gravi e non si risolve né se tengono con loro i figli né se li affidano alle cure di altri fuori dall’istituto carcerario. Nel 2001 in Italia erano 61 le donne detenute con bambini al di sotto dei tre anni e poiché le donne generalmente sono detenute per reati a bassa pericolosità sociale, si tende a ricorrere alle cosiddette misure alternative e si registra un uso più diffuso delle pene alternative.

Il carcere, anche il migliore, è comunque un luogo di grande sofferenza; la privazione della libertà è un dramma di cui non si può facilmente capire la portata: provoca crisi d’identità, rende impotenti, umilia, indurisce gli animi e crea un forte sentimento di rabbia contro la società. Il detenuto di solito è già in un circuito di emarginazione e le restrizioni del carcere aggravano una ferita sempre aperta. Per avere notizie dal mondo esterno e dai propri familiari bisogna aspettare il colloquio, possibile magari tra una settimana, mentre le giornate scorrono tutte uguali con lentezza esasperante. Se questo è il dramma di chiunque è in carcere, per la donna esso assume risvolti strazianti per lo speciale legame che unisce una madre ai propri figli, una particolarità non da poco, che si scontra con l’inadeguatezza del sistema carcerario modellato sulle esigenze maschili. Di fatto l’informazione sulle detenute è scarsissima. La mancata attenzione è in parte giustificata dal numero esiguo delle detenute, appena 2.369 (contro 52.906 detenuti maschi),; ma alla poca visibilità corrisponde una carenza di risorse e strutture specifiche.

Leggi che consentirebbero di fare di più e meglio ci sono, e se ne è parlato nei capitoli precedenti, ma, come spesso succede, esse sono contenitori di buoni propositi, che si prestano a interpretazioni soggettive e si scontrano con i limiti di strutture, risorse e inghippi burocratici. Le difficoltà riguardano tanto le detenute che i detenuti, anche se per motivi diversi: se la difficoltà per il carcere maschile viene soprattutto dal sovraffollamento e dall’aggressività che questo comporta, per le detenute il vero problema è la frammentazione dell’universo carcerario femminile. Secondo una completa ricerca empirica sul carcere femminile, "Donne in carcere" (ed. Feltrinelli), datata 1992 ma ancora attuale per molti aspetti, solo una minima parte delle detenute vive nei carceri femminili esistenti in Italia, che oggi sono 8 (Trani, Pozzuoli, Arienzo - Caserta, Rebibbia - Roma, Perugia, Empoli, Pontedecimo - Genova e Giudecca - Venezia), mentre il 77% è sparso nelle sezioni distaccate ( che oggi ammontano a 52 ma che all’epoca della ricerca erano 96 ) dalle carceri maschili, in gruppi esigui che stentano a raggiungere le 20 unità.

Nella maggior parte delle sezioni non ci sono zone verdi e nel 10% non esiste neppure un cortile. Come è facilmente intuibile, tale dispersione delle detenute in piccole sezioni loro destinate è uno dei principali problemi legati alle condizioni di detenzione femminile, anche se molto spesso l’esigenza della vicinanza della detenuta al proprio luogo di residenza rende l’esistenza delle sezioni un male minore. Il problema è spiegato chiaramente dagli operatori del carcere di Trapani, i quali osservano: "Si ritiene importante l’eliminazione di sezioni femminili in istituti maschili. Tali sezioni, infatti, numericamente inferiori, corrono il rischio di essere un po’ dimenticate. I piccoli numeri, per altro, non consentono la realizzazione di progetti relativi a corsi scolastici o professionali, o progetti comunque mirati a "specificità femminili". "Per così poche unità, infatti, non è possibile fare programmi significativi e se qualche iniziativa c’è, è casuale, dettata dalla buona volontà di qualcuno e spesso lontana dalla vita della donna di oggi, come l’onnipresente corso di taglio e cucito. Il lavoro, che dovrebbe essere garantito e costituire un’altra grande risorsa di recupero, è poco e di scarsa qualità. Si tratta per lo più di attività interne al carcere come la manutenzione e i servizi domestici. La mancanza di lavoro all’esterno aggrava il già difficile cammino per ottenere la concessione di misure alternative, tanto che solo una minima parte delle detenute ne usufruisce. La donna detenuta dunque, si trova a vivere in un contesto maschile, in un’istituzione fatta dagli uomini per gli uomini. "Il carcere – spiega Donatella Zoia, medico dell’Unità operativa per le tossicodipendenze del carcere di San Vittore a Milano - è una struttura assolutamente maschile. Di questo ci si rende conto non appena si entra in qualunque carcere indipendentemente dalla "causa" che ci porta dentro. Non si tratta di una semplice sensazione. È la realtà del carcere, che si esprime nella struttura, nelle modalità di rapporto, nei colori e nelle regole e te ne rendi conto sia che ci entri come detenuta, che come operatore, che come volontario. Sei in un ambiente maschile, con modalità relazionali maschili, basate sul potere." È evidente che la detenzione per la donna è carica di una sofferenza diversa da quella maschile, una sofferenza legata all’essere donna, che si aggiunge poi a condizioni specifiche difficili da gestire, come l’essere madre, tossicomane, prostituta. Tale differenza e sofferenza nel vivere la detenzione è però tanto intuibile, quanto difficilmente esplicabile.

 

I reati delle donne

 

La tipologia dei reati commessi dalle donne elencati nella tabella qui di seguito, è espressione chiara del percorso di marginalità che spesso segna le loro vite, riportandole in carcere per brevi e ripetute permanenze: la violazione della legge sulla droga e i reati contro il patrimonio costituiscono, infatti, il motivo della condanna per la stragrande maggioranza delle detenute.

 

Donne condannate secondo il delitto (Situazione al 31 dicembre 2001)

 

Tipologie dei reati

Numero

%

Legge droga

1.862

34,4

Contro il patrimonio

1.198

22,2

Contro la persona

712

13,2

Ordine pubblico

389

7,2

Prostituzione

237

4,4

Fede pubblica

194

3,6

Legge armi

150

2,8

Contro amm.ne della giustizia

132

2,5

Altri reati

509

9,7

Totale

5.383

100,0

 

Fonte: Elaborazione Eurispes su dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

 

È presente tra le tipologie dei reati la voce prostituzione, pur non essendo incriminabile l’esercizio della prostituzione; si tratta, infatti di reati connessi a tale condizione, come il favoreggiamento e l’induzione; solitamente ne sono incriminate le immigrate africane o dell’Europa dell’Est e dei Paesi Balcanici. La condizione di emarginazione vissuta nelle società è caratteristica comune della maggioranza della popolazione detenuta sia maschile che femminile, ma il dato che emerge in maniera forte in quest’ultimo caso è la mancanza dell’elemento "violenza", della pericolosità sociale nei reati delle donne. La scarsa propensione al comportamento criminale, infatti, ha facilitato l’approvazione del disegno di legge sulle detenute madri anche per le pressioni del Consiglio d’Europa che, in merito al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, si era espresso già da tempo in favore di misure alternative alla detenzione: "Per una coerente strategia contro il sovraffollamento delle carceri, la privazione della libertà deve essere considerata come l’estrema misura e sanzione, e deve essere messa in atto solo quando la gravità del reato rende ogni altra sanzione inadeguata"; e ancora: "Per frenare l’inflazione della popolazione carceraria è opportuno, anzi indispensabile, aumentare il numero dei reati da punire con misure diverse dalla detenzione (quali le pene pecuniarie, il risarcimento delle vittime, gli arresti domiciliari), come è opportuno, anzi indispensabile, ricorrere più frequentemente di quanto si faccia oggi alla semilibertà, al rilascio sulla parola". Esaminando nel dettaglio i reati più frequentemente commessi dalle donne, emerge dalla tabella appena riportata come quelli contro la persona, considerati la misura più indicativa della pericolosità sociale, si attestino intorno al 13% dei delitti commessi, sia rispetto al 34,4% dei reati legati alla droga (dato che concorda con l’alto numero di tossicodipendenti presenti all’interno delle carceri italiane) e sia rispetto al 22,2% dei reati contro il patrimonio (furto, rapina, danneggiamento, truffa).

 

Le tossicodipendenti

 

Rilevante è quindi il problema delle tossicodipendenti, che sono la maggior parte delle detenute, le quali hanno in genere pene detentive brevi ma nella maggior parte dei casi sono recidive: ciò significa che la popolazione carceraria cambia costantemente ed è difficile programmare qualsiasi attività di recupero. L’esistenza di poche carceri penali femminili fa sì che molte detenute dopo il processo siano trasferite in penitenziari lontano dal luogo di residenza della famiglia, con gravi conseguenze sia per il figli che per loro stesse.

La donna tossicodipendente con figli, specialmente se priva di terapia sostitutiva specifica, rappresenta un rilevante quesito terapeutico, sia per quanto riguarda se stessa al momento dell’arresto (astinenza) ed il bambino, sia per ogni ipotesi di piano terapeutico personalizzato. Ancora molto rare e distribuite disomogeneamente sul territorio, sono le comunità terapeutiche che accolgono madri con bambini e non sempre sono disponibili all’accoglienza per la scarsezza di posti a disposizione. Una sistemazione detentiva migliore ipotizzabile, laddove non fosse possibile applicare la pena alternativa, è presso le cosiddette Custodie Attenuate: questi sono istituti o sezioni penitenziarie con norme peculiari e regime di bassa custodia che favorisce una forma migliore di trattamento della tossicodipendenza.

"Altre soluzioni giudiziarie - commenta Sandro Libianchi - potrebbero essere rappresentate da una più estesa applicazione degli arresti domiciliari e dalla realizzazione di strutture protette fuori dal carcere. Una buona opportunità viene dall’approvazione e attivazione della legge n° 419/1998 che trasferisce alle Aziende sanitarie locali ogni competenza in materia di sanità in carcere". Si delinea quindi una positiva prospettiva con l’ipotesi di un opportuno intervento dei servizi materno - infantili nell’ambito di specifici Dipartimenti per la salute in carcere, volti a favorire l’attivazione della rete socio-assistenziale esterna e, inoltre, coinvolgendo specifiche altre professionalità (neuropsichiatri infantili, puericultrici e pediatri), si verrebbe a ridurre la quota di danno conseguente all’ambiente sfavorevole (insalubrità dei locali chiusi, malattie infettive, etc.).

Rispetto al problema delle tossicodipendenti, dunque, le misure alternative si configurano come uno strumento importante, poiché portano a ridurre o a evitare la carcerazione (si pensi, per contrasto, all’attuale stato di sovraffollamento di molte carceri italiane e allo stato di inattività in cui versa la maggior parte dei detenuti). La misura alternativa consente a queste persone di mantenere i contatti con i servizi e di utilizzare le risorse offerte dal territorio (borsa lavoro, cooperative sociali, corsi, Fondo Sociale Europeo). "Questo aspetto - sottolinea il Giudice Francesco Maisto - parrebbe risultare vantaggioso anche per i soggetti cocainomani che, avendo una scarsa consapevolezza del rischio e del proprio disagio, non si rivolgono personalmente ai servizi: il potere-volere accedere alle misure alternative può costituire un’occasione di aggancio alle strutture socio-riabilitative".

 

Le immigrate e le nomadi

 

Per le straniere, il secondo gruppo più numeroso tra le detenute, i già gravi problemi si moltiplicano: hanno difficoltà di lingua, vengono da situazioni di grande povertà, hanno lasciato a casa anche quattro, cinque figli per i quali sono spesso l’unica fonte di sussistenza, non fruiscono di colloqui e di permessi perché la famiglia è lontana, ma miracolosamente possono poggiarsi su una risorsa insperata: la solidarietà tra detenute, inesistente invece all’interno del carcere maschile. Si è notato infatti che anche i rapporti che le detenute instaurano fra di loro esprimono un modo diverso di relazionarsi all’altro: mentre i detenuti tendono ad essere generalmente "uniti" in grandi gruppi mantenendo allo stesso tempo un forte individualismo, le donne, in carcere come fuori, non vanno tutte d’accordo tra di loro, ma tendono a creare dei piccoli gruppi, anche di due, tre persone molto unite, con dei legami molto forti. Come gli operatori di alcune carceri confermano , anche i rapporti tra le detenute e le agenti di polizia sono diversi nel mondo femminile, molto spesso basati sul dialogo e sulle confidenze. Un diverso linguaggio, quindi, inteso come modo di essere.

All’interno del carcere le detenute straniere sono spesso penalizzate, soprattutto sul piano dell’affettività e dei legami con la vita prima dell’arresto. La maggioranza di queste donne ha famigliari, figli e amici nel paese d’origine e si trova all’improvviso privata di qualsiasi contatto con questa realtà. Inoltre le condizioni di vita dentro il carcere sono peggiori per questa categoria di detenute: un esempio di questa situazione è dato dalla difficoltà di comunicazione a causa della diversità di lingua. Questa diversità impedisce a volte alle detenute di fare telefonate e di avere visite durante i colloqui, perché spesso l’istituzione non è in grado di controllare le conversazioni. Solo recentemente molti istituti penitenziari ricorrono ad interpreti, anche se non sempre è facile trovare persone in grado di comprendere alcune lingue e soprattutto alcuni dialetti.

Quasi inesistenti sono, inoltre, le possibilità di migliorare la condizione di detenzione attraverso la concessione del lavoro all’esterno: maggiori che per le italiane sono, infatti, le difficoltà che le straniere possono incontrare nel prendere contatti con un datore di lavoro e nel trovare, quindi, qualche possibilità di occupazione. Per quanto riguarda le nomadi, i problemi sono altri: per ragioni culturali, infatti, queste donne appaiono poco sensibili ad accettare aiuti che potrebbero, sia pure in minima parte, modificare il loro approccio culturale ai sistemi di educazione adottati.

In una ricerca di G. Biondi risalente al 1992 riguardante i figli dei detenuti, emerge che il gruppo delle detenute nomadi e straniere da lui analizzato si sia avvalso con una maggiore frequenza, rispetto alle altre detenute, della possibilità di avere il figlio accanto durante la detenzione. La scelta delle nomadi di avere un figlio in carcere, dipende dal fatto che, al di là dei vantaggi secondari che possono derivare da questa scelta, vi è la convinzione, non del tutto errata, che in carcere, specie d’inverno, i bambini molto piccoli stiano meglio e possano essere meglio accuditi ed assistiti con dei controlli sanitari che normalmente, in libertà, non vengono eseguiti.

 

La maternità in carcere: una scelta difficile

 

Maternità e reclusione sono due condizioni in conflitto fra loro e la seconda comunque sembra negare la possibilità alla prima di esprimersi se non in situazioni di estremo disagio. Queste condizioni di difficoltà legate alla carcerazione si vanno a sovrapporre a quelle sociali, ambientali ed affettive già presenti e dalle quali risulta oltremodo difficile potersi staccare.

Gianni Biondi, nella ricerca citata riguardo ai figli di detenute, ha rilevato i motivi per i quali le donne detenute avevano scelto di avere o non avere i bambino accanto. I dati sono raccolti nella tabella qui di seguito.

 

Ripartizione percentuale dei motivi indicati per i quali si è scelto

di avere o non avere il figlio accanto durante la detenzione 

Motivi per avere il figlio accanto

%

Motivi per non avere il figlio accanto

%

Impossibilità di affidamento all’esterno

38%

Non coinvolgimento nell’ambiente carcerario

32%

Migliore sviluppo affettivo

32%

Possibilità di affidamento all’esterno

17%

Crescita fisica/allattamento

27%

Migliore sviluppo affettivo

14%

Altro

3%

Mancanza di strutture idonee per il bambino nell’i.p.

12%

Altro

25%

 

Fonte: ricerca Gianni Biondi

 

Come si può osservare, il motivo più frequente per cui le donne detenute hanno scelto di tenere accanto a sé il bambino è rappresentato dall’impossibilità di affidare esternamente il figlio a terzi (38%); il motivo successivo riguarda lo sviluppo affettivo del bambino ed il suo bisogno di avere accanto la madre (32%). Da quest’ultimo motivo, Biondi desume che strettamente correlato ad esso è il bisogno della madre stessa di avere il figlio accanto durante il periodo di detenzione. Altro motivo riguarda la crescita fisica del bambino e i problemi legati all’allattamento dello stesso (27%). Per quanto riguarda invece i motivi che hanno determinato la scelta delle madri detenute a non avere accanto il bambino in carcere, osserviamo che il motivo che ha rappresentato una percentuale più alta (32%) riguarda il non coinvolgere il figlio nella situazione carceraria. Non a caso il motivo che segue si riferisce alla concreta possibilità di poter affidare il proprio figlio a terzi. Come terzo motivo è stato fornito lo stesso descritto dal gruppo di donne che hanno scelto di tenere con sé il bambino, e cioè per facilitarne lo sviluppo affettivo (14%).

Non meno rilevante (12%), infine, è la mancanza di strutture idonee per il bambino all’interno dell’istituto penitenziario: come abbiamo già accennato e come vedremo nel prossimo capitolo, infatti, uno dei più rilevanti problemi per i bambini che fino ad ora hanno vissuto i primi anni della loro vita in un carcere, è stata la mancanza, scarsità e poca organizzazione ed efficienza di strutture come gli asili nido. La scelta della donna di poter tenere il figlio in carcere con lei appare più complessa di quanto possa sembrare ad una prima superficiale osservazione e non è riconducibile alle sole situazioni sociali e/o affettive. In realtà, in una situazione così carente di punti di riferimento affettivi non è facile per una donna scegliere se tenere con lei il figlio in carcere durante la sua detenzione o se affidarlo a terzi. Non sempre tale decisione infatti appare la scelta più idonea per lei e per il figlio. Le variabili caratteriali, relazionali e ambientali sono così numerose e complesse che la ricerca di una soluzione più idonea appare alla detenuta come una "falsa scelta". Biondi riporta il commento di una detenuta che si sente "in trappola" per la scelta che è costretta a fare: "…sei chiusa dai due lati, come scegli hai la sensazione di sbagliare per te, per lui, per loro. Sinceramente non so cosa sia veramente più egoistico, se tenerlo accanto, proteggerlo o affidarlo ad altri con il timore che quando esci non ti riconosca, ti rimproveri, sia difficile riprendere il contatto con lui; e questo non solo per quanto puoi soffrire tu, ed è tanto, ma per quanto comunque soffrirà lui". Anche un gruppo di "nidiste" del carcere di Roma sottolinea che ha avuto modo di osservare quanto sia difficile e doloroso fare questo tipo di scelta: "…se da una parte chi sbaglia è giusto che paghi, dall’altra è giusto che le colpe di queste madri ricadano sui figli? Come può essere la crescita di un bambino tra le mura di un carcere, con la sua mamma, sì, ma senza stimoli, senza un figura maschile di riferimento?", "…se mi capitasse di essere arrestata per qualche motivo preferirei gli arresti domiciliari. Ma se dovessi farmi il carcere, senz’altro vorrei con me i miei figli. Non sarà il massimo come ambiente ma la mamma è insostituibile. E più il bambino è piccolo più l’abbandono incide". Nel carcere molte volte l’affidamento a terzi sembra quasi la rinuncia ad un futuro rapporto col proprio figlio; il sistema di comunicazione presente all’interno dell’istituto penitenziario spinge la detenuta ad avere generalmente una visione negativa del mondo esterno; lei stessa tende a vedersi come debole rispetto ad un’istituzione, rispetto ad un sistema complesso con molteplici sottoinsiemi non sempre così chiaramente comprensibili e dove l’aggressività e le situazioni di violenza non sempre sono la conseguenza logica di precisi episodi.

Nei colloqui che Biondi ha tenuto con alcune detenute (e che sono stati il materiale su cui ha lavorato per effettuare la sua ricerca) è emerso da parte di queste donne il timore di perdere il ruolo di madre affidando il figlio a terzi, ruolo che se delegittimato, sarebbe molto difficoltoso recuperare una volta in libertà.

 

Madri in carcere

 

Esistono in Italia diversi gruppi ed associazioni che da anni si occupano del problema delle madri con figli dentro ma anche fuori dal carcere, per cercare di dar loro un sostegno e aiutare i bambini ad avere una vita serena nonostante le difficoltà che la vita all’interno dell’ambiente carcerario comporta o che il distacco dalla figura materna ha creato. In diverse città (e non solo in quelle qui citate) esistono o sono in progetto delle case famiglia, ovvero delle strutture residenziali di tipo familiare per le detenute e i loro bambini, che consentono alle detenute che possono usufruire di misure alternative alla detenzione, di uscire dal carcere e vivere con i loro figli in un ambiente protetto ed adeguato. Il controllo relativo all’esecuzione delle misure alternative è garantito dall’Amministrazione Penitenziaria, mentre la struttura, il finanziamento e la gestione operativa sono assicurati dal Comune. Le potenzialità di queste strutture non si esauriscono nella dimensione alloggiativa. Gli obiettivi della casa famiglia, infatti, sono: aiutare la donna a ricostruire un percorso di autonomia individuale, attivare occasioni e risorse che facilitino la formazione e l’inserimento sociale e lavorativo, sostenerla nel recupero dei legami affettivi e familiari e nel rapporto con il figlio, assisterla nell’assolvere alle incombenze burocratiche legate alla sua situazione giudiziaria. Pertanto, la gestione della casa deve essere affidata a personale professionalmente esperto e con una forte motivazione individuale. Come l’intervento, anche gli spazi e gli arredi della casa famiglia devono essere pensati e realizzati per accogliere mamme con bambini, garantendo sia la necessaria privacy che adeguati spazi per il gioco e per la socializzazione, sia interni che esterni alla struttura.

 

Il carcere di Rebibbia - Roma

 

A Roma si è affrontato concretamente il problema delle madri detenute con figli che, uscite dal carcere, non hanno un posto dove andare. La legge Finocchiaro, infatti, sembra non aver preso in considerazione il fatto che le madri detenute che sono nelle condizioni di poter usufruire della detenzione domiciliare speciale, nella maggior parte dei casi non hanno una famiglia pronta ad accoglierle né tanto meno una casa in cui poter vivere con i loro figli. È stata creata qualche anno fa una struttura che risolve, anche se solo per poche donne, questo problema: è una casa di accoglienza (una casa famiglia) creata a Roma nel territorio della V circoscrizione (Via Nomentana), nata proprio per venire incontro a questo bisogno. Sono a disposizione, all’interno della casa, alcuni posti per area della detenzione e altri per donne non carcerate che si trovano in particolari situazioni di bisogno. La casa è stata istituita dal Comune di Roma su proposta della V circoscrizione e con i fondi offerti dalla Commissione delle Elette al Consiglio Comunale. Inizialmente la casa ha funzionato solo per l’accoglienza diurna e solo in un secondo momento si è aggiunto il pernottamento delle detenute; la casa - che è ubicata nell’ambito di un centro polivalente - accoglie detenute in permesso semestrale e si occupa dell’inserimento nel territorio circostante dei loro bambini. La casa, inoltre, può essere un punto d’appoggio anche per le donne in permesso premio che non sanno dove andare o non possono tornare nelle loro case.

Fino ad ora sono state accolte solo donne in permesso premio mentre è difficile che la Direzione femminile del carcere vi mandi detenute in attesa di giudizio perché questo esigerebbe una sorta di presidio di polizia intorno allo stabile mentre lo sforzo è quello di non farne una succursale del carcere ma una realtà diversa. La Direzione femminile del carcere invia alla casa le detenute che sono state giudicate e che usufruiscono di una misura alternativa; le donne vengono ospitate con i loro figli anche se hanno superato il terzo anno di vita.

 

Il carcere di San Vittore – Milano

 

Anche a Milano era stata prevista una struttura simile alla casa di accoglienza funzionante a Roma, e invece ci sono sei bambini rinchiusi loro malgrado nel carcere di San Vittore, che avrebbero potuto vivere con le loro mamme detenute in una nuova casa tutta per loro e che si devono accontentare di un grande stanzone blindato con giochi donati dai privati, le sbarre del carcere che fanno ombra dalle finestre e una cucina per farli sentire in famiglia.

Il Comune di Milano aveva promesso, anzi già finanziato e iscritto a bilancio, la ristrutturazione di un ex asilo in Via Zama per accogliere le mamme carcerate con i figli minori fino a tre anni. Ma all’improvviso i 1,5 milioni di euro circa previsti per le opere di riqualificazione dell’edificio sono stati accantonati: la nuova sede non si farà perché il progetto è fallito per mancanza di fondi.

Il direttore del carcere, Luigi Pagano, durante il sopralluogo dei consiglieri comunali al carcere di San Vittore, ha chiesto di prendere di petto la questione, che danneggia soprattutto bambini innocenti. L’ex asilo abbandonato visto da fuori è in ottime condizioni, e ristrutturato accoglierebbe le mamme che sono rinchiuse nelle carceri di San Vittore, Opera e Monza.

Un’Associazione che merita di essere menzionata e che opera  a Milano dal 1985, è l’Associazione Gruppo Carcere Mario Cuminetti che svolge attività culturale in carcere per creare un collegamento fra carcere e città. Il Gruppo prende il nome dal suo fondatore, Mario Cuminetti, teologo, saggista e operatore culturale, impegnato per il rinnovamento della società e attento, in particolar modo, ai problemi degli emarginati.

L’Associazione si occupa da cinque anni del rapporto fra genitori detenuti e figli, formando un gruppo, "Bambini senza sbarre", che lavora su questo tema. L’intervento di questa associazione, condotta da volontari del Gruppo, professionisti nel campo psicologico, pedagogico e legale, si configura con l’obiettivo primario rappresentato dal mantenimento della relazione figlio-genitore durante la detenzione e la promozione della responsabilità genitoriale.

Il percorso di sviluppo dell’intervento di questa associazione sul tema della relazione genitori/figli ha visto diverse fasi, ognuna delle quali ha contribuito a individuare e strutturare più precisamente un’attività che ha come finalità il mantenimento del legame figlio-genitore detenuto e che oggi sta vivendo un momento di particolare vivacità.

Questo è dovuto principalmente al suo essere sempre più radicato all’interno del contesto del carcere, e quindi sul territorio, ma anche al suo essere in relazione con Relais Enfants Parents di Parigi, la Fondazione olandese Bernard van Leer e Eurochips, l’organismo di rete europea di cui oggi "Bambini senza sbarre" fa parte.

L’incontro con il Relais ha permesso di avere una conferma delle idee guida dell’associazione italiana e di scoprire che le reciproche esperienze stavano sviluppandosi parallelamente, senza sapere l’una dell’altra, ma portando avanti sostanzialmente pratiche simili sostenute da obiettivi analoghi, con le differenze dovute al diverso contesto socio politico e all’entità dell’esperienza (che per i francesi risale a più di un decennio prima). Da quell’incontro è nato uno scambio di esperienze che nel tempo si è rafforzato.

Uno degli aspetti più dolorosi dovuti alla detenzione - chi opera in carcere ne è costantemente testimone - è proprio quello della separazione dalla famiglia ma soprattutto dai figli. Per molti detenuti separarsi dai figli significa non solo una separazione ma una vera e propria sparizione, e questo è particolarmente rilevante per i detenuti padri. E non solo dal figlio, ma anche dalla rete sociale di riferimento, la scuola, i servizi sociali e tutti i soggetti coinvolti nella sua storia genitoriale. Sparizione che per il figlio significa anche perdita di punti di riferimento, di radici, di storia personale con cui fare i conti, quando non anche emarginazione e discriminazione sociale che porta spesso a ripetere lo stesso percorso di carcere. I numeri indicano che degli 800.000 figli di detenuti in Europa 43.000 sono italiani e di questi il 30% segue la strada della detenzione. In questo scenario "Bambini senza sbarre" cerca di muoversi anche in una prospettiva di prevenzione sociale, nel tentativo di interrompere un destino di carcere che pare ripetersi nei figli in modo inesorabile.

"Bambini senza sbarre" opera all’interno del carcere con un’azione che da esso entra e esce continuamente: parte dal genitore detenuto per allargare il proprio intervento all’esterno ai soggetti coinvolti (famiglia, scuola, servizi) avendo al centro l’interesse del bambino, del figlio.

Pur nella consapevolezza che gli obiettivi sono ambiziosi, in sé e anche rispetto alle forze disponibili, gli operatori di "bambini senza sbarre" affermano che la loro attività, sviluppandosi, continua a precisare meglio e a confermare alcune ipotesi di lavoro da cui sono partiti.

Prima fra tutte è che il mantenimento del legame con il genitore è un diritto del figlio e un diritto-dovere del genitore. Questo significa operare nel campo dei diritti ma su un piano delicatissimo e privato come quello degli affetti. Ma gli affetti per essere rispettati richiedono uno spazio e un luogo adeguati, spazio fisico e mentale, e qui entrano in gioco il carcere con tutte le sue mura interne ed esterne, e la società fuori del carcere, con le mura del giudizio, del pregiudizio, del rifiuto. Il pregiudizio principale da affrontare è il mascheramento della verità del carcere al figlio. Questo è un portato della cultura dominante fuori dal carcere, ma anche un ostacolo interiore del genitore detenuto, ostacolo lacerante e che viene vissuto drammaticamente.

Il lavoro di "Bambini senza sbarre" è un lavoro di mediazione con l’esterno, mediazione che assume un’importanza, un ruolo e un’efficacia quando, superata la resistenza iniziale della rete esterna al carcere, essa venga accolta.

Il punto di partenza con cui viene svolta l’attività dell’associazione è la constatazione del dramma dei bambini per i quali non si può e non si deve prescindere dalla relazione con i loro genitori, sapendo che l’esperienza centrale su cui lavorare è la separazione, violenta e subita, e le difficoltà individuali successive di adattamento ad un diverso contesto affettivo.

L’intervento si sviluppa attraverso l’individuazione di un percorso di accompagnamento del figlio e del genitore nella loro esperienza di separazione e di necessità di mantenimento della relazione. Il bambino infatti non può crescere senza una relazione parentale fondamentale, per questo è necessario tentare di recuperare, quando è possibile, la relazione spezzata dalla detenzione.

In questo percorso di accompagnamento, scelto ed individuato insieme al genitore detenuto, viene dato ampio spazio al lavoro di sostegno del genitore e del bambino prima e dopo il colloquio, momento centrale per il mantenimento della relazione.

Sono inoltre previsti gruppi d’incontro periodici con i genitori, concepiti come momenti di riflessione, di sensibilizzazione e di sostegno nel mantenimento del ruolo genitoriale e della relazione con i figli. A tali incontri partecipano i volontari dell’associazione ed anche medici, avvocati, giudici, rappresentanti istituzionali e psicanalisti il cui contributo nell’ambito del lavoro svolto dall’associazione è molto utile.

Per le madri detenute, in particolare, la direzione di San Vittore si è resa disponibile ad agevolare gli incontri domenicali con i figli con modalità e spazi più idonei.

 

Il carcere della Giudecca – Venezia

 

Il carcere di Venezia è uno dei pochi in Italia ad essere dotato di un asilo nido che è strutturato abbastanza bene: "c’è una grande sala – spiega Giuliana, una delle madri detenute che offre la sua testimonianza - dove i bambini "potrebbero" giocare e la cucina dove le mamme cucinano i pasti per loro". La sezione nido di Venezia però non è funzionante come probabilmente era stato previsto quando è nata: è un reparto in cui dovrebbero alloggiare solo le mamme con i bambini, ma a causa del sovraffollamento e della struttura edilizia dell’istituto, nel "nido" vengono effettuati pure gli isolamenti giudiziari, quelli punitivi e sanitari.

Anche a Venezia il progetto di una struttura di aiuto, sostegno e accoglienza per ex detenute era stata elaborato e promesso alle detenute, ma i risultati purtroppo non si sono ancora visti. Nel 1998, in occasione della Festa della donna, si è tenuta all’interno della Casa di reclusione della Giudecca un’assemblea delle detenute alla presenza del ministro Fassino, dei rappresentanti degli enti locali, della Provincia, del Comune, dei Consigli di quartiere del centro storico, dei presidenti e dei rispettivi consiglieri di amministrazione delle IPAB del Comune di Venezia, dei dirigenti o dei presidenti dell’ex Amav, Actv, Ater e del Consorzio Venezia Nuova. All’incontro le autorità si sono assunte impegni precisi per sviluppare il lavoro per detenute in semilibertà, in affidamento o a fine pena, indispensabile per il reinserimento nella società. È stato sottolineato con forza che il lavoro è importantissimo, soprattutto a fine pena, per evitare di ricadere negli errori precedenti. Fortunatamente nel Nordest e nel Comune di Venezia trovare lavoro non è un grosso problema neanche per le ex detenute.

Tutti coloro che sono intervenuti hanno ribadito che, oltre al lavoro, per una detenuta a fine pena è importantissima l’abitazione, perché con un salario di circa 800 € è assolutamente impossibile trovare un’abitazione, visti gli attuali prezzi di Mercato. Oggi un primo risultato si è ottenuto per le semilibere o le detenute in permesso straordinario durante la detenzione con l’apertura di una casa di accoglienza della Caritas, la casa di accoglienza Giovanni XXIII, un impegno portato avanti e risolto dall’ex patriarca di Venezia Cardinale Cè.

La casa di accoglienza risolve un problema importantissimo, quello di avere un ristoro, necessario soprattutto durante le fredde giornate invernali o quelle afose d’estate durante i permessi da trascorrere in città, con l’assistenza delle suore. Inoltre, questa casa di accoglienza è un punto d’appoggio anche per le famiglie, italiane o straniere (che vivono dunque lontano dal carcere) delle detenute, quando vengono in visita per i colloqui o i permessi delle detenute stesse. Rimane però totalmente irrisolto il problema dell’abitazione soprattutto per le ex detenute.

I presidenti delle IPAB si erano impegnati a risolvere questo problema in modo graduale, in tempi ben definiti. Le detenute durante la Festa della donna dell’8 marzo 2002 non hanno avuto alcuna risposta in merito, ne dai presidenti dell’IPAB, né dagli assessori sociali del Comune e della Provincia.

Come si vede dall’analisi di queste tre realtà, Roma, Milano, Venezia, gli sforzi e le richieste di aiuto per cercare di migliorare le condizioni di vita di madri e figli, dentro e fuori, prima e dopo il carcere sono forti e pressanti, ma purtroppo non di immediata realizzazione; interventi legislativi come le leggi Gozzini e Simeone - Saraceni prima e la legge Finocchiaro poi, ci sono e costituiscono sicuramente un passo in avanti; quello che manca è la realizzazione concreta dei progetti che si accompagnano necessariamente a queste leggi e che nascono dalla volontà di dare una svolta e una risoluzione ai problemi che scaturiscono dalla difficile vita che conducono madri detenute e figli.

 

 

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