Il bacio sul muro

 

La detenzione femminile raccontata da Francesca Mambro

 

In realtà, questa volta le Lettere dalla Giudecca riguardano un libro, Il bacio sul muro di Francesca Mambro. Un libro, scritto da una donna sulla vita in carcere, che ha suscitato un interessante scambio di opinioni via lettera tra la redazione maschile e la redazione femminile di Ristretti Orizzonti. Tema della "contesa": il punto di vista sulla detenzione femminile di un detenuto e la risposta delle donne che la condizione della detenzione la stanno vivendo sulla loro pelle.

 

La Redazione

 

Il bacio sul muro e altre storie

di Francesca Mambro

Sperling & Kupfer, lire 15.000

 

"Ho cercato di rimanere leggera, più leggera possibile", scrive Francesca Mambro, e con questa premessa ci dà la chiave di lettura per un libro che parla della detenzione femminile con toni decisamente insoliti, che non cerca la giustificazione o la pietà, ma raccoglie le esperienze "meno peggiori" in una sorta di manuale di sopravvivenza dello spirito alle privazioni che comporta il carcere.

Francesca Mambro è in carcere dal 1982, per reati di terrorismo e, nei diciotto anni trascorsi tra lo "speciale" di Voghera e di Rebibbia, ha incontrato compagne di ogni nazionalità e condizione sociale, stabilendo con loro una particolare forma di comunicazione, attraverso lo scambio del cibo.

Nel libro, ci sono soprattutto le storie di queste donne, in un intreccio di diverse culture e ricette, piatti realizzati con i pochi ingredienti consentiti dal regime carcerario e, spesso, con mezzi di fortuna: un manico di scopa che diventa matterello, due padelle sovrapposte che diventano un forno.

Lo scambio di assaggi delle varie ricette preparate tra le compagne diventa strumento di relazione affettiva, mentre la preparazione dei piatti più elaborati serve alle donne per esprimere la loro creatività.

Questo accade anche tra i detenuti uomini, dove però le occasioni per creare relazioni e cercare affinità sono più numerose: dallo sport, alla politica, sono possibili dei confronti, che determinano legami e antagonismi.

Non sono d’accordo, quindi, con l’autrice, quando scrive: "Il carcere è una struttura inventata dagli uomini per gli uomini e solo recentemente adattata molto sommariamente alle donne". Credo che le donne siano, nella maggiore parte dei casi, meno "attrezzate" degli uomini per sopportare la detenzione, a causa di una differente formazione culturale.

Il carcere in sé rappresenta soltanto una delle possibili condizioni estreme, nelle quali sono fondamentali le risorse personali e, in primo luogo, la preparazione a tutte le evenienze che la vita riserva.

Quelle donne che conoscono solo il ruolo di moglie e madre, perché ogni altro aspetto della relazione sociale l’hanno vissuto in maniera subordinata, incontrano sicuramente maggiori difficoltà durante la detenzione, separate dalle famiglie, o nell’impossibilità di crearsene una.

Alcune di loro, che provengono da contesti particolari, si trovano in condizioni migliori: le detenute politiche, come appunto Francesca Mambro, hanno ideali forti, a cui credere, con i quali misurarsi ogni giorno, da ridefinire, se il caso; le nomadi, appartenendo a una comunità che accetta "normalmente" alcune attività illegali ed il conseguente rischio del carcere, sono perlomeno sicure di non essere abbandonate dalla famiglia e di ritrovare affetti e ruolo sociale, al termine della pena.

Per le altre, le più numerose, "Corriere della droga, spacciatrici di borgata, signore che hanno ucciso il marito" (come le definisce l’autrice), la detenzione è veramente dura, peggiore che per gli uomini.

Traggo queste conclusioni anche perché ho potuto conoscere da vicino questa realtà, raccogliendo le testimonianze delle compagne della Giudecca e intrattenendo della corrispondenza con alcune di loro.

Ho incontrato atteggiamenti (inizialmente) di reticenza, un po’ per orgoglio, un po’ per la comprensibile diffidenza, e riscontrato un tono diverso tra gli scritti destinati alla pubblicazione e quelli "privati". Nei primi, alcuni problemi sono espressi chiaramente, anche sotto forma di denuncia: i processi viziati dal pregiudizio, le attività del carcere che funzionano male, le misure alternative difficili da ottenere, i rapporti spesso conflittuali con gli operatori. Nelle lettere personali, c’è invece un pudore evidente, che impedisce di riversare sul sottoscritto la mole dei guai che ognuna ha, ma comunque emerge sempre dell’insicurezza, e vero e proprio disorientamento, in alcuni casi.

Per stabilire una certa confidenza, ci vuole del tempo, ci vuole anche reciprocità, perché non sembri che io faccia lo psicologo a "caccia" di pazienti da assistere.

 

Detenzione femminile e detenzione maschile a confronto

 

Penso invece che la detenzione femminile costituisca un mondo con caratteristiche specifiche, con problemi ed esigenze diverse da quella maschile, elementi da far conoscere alla società esterna, pur nel rispetto della riservatezza delle protagoniste.

Parlandone tra noi, potremmo anche cercare di vivere meglio i rispettivi problemi, se non possiamo forse risolverli.

Dal poco che si è scritto, sulla detenzione femminile, sembra che il disagio più grande sia costituito proprio dal "gioco dell’oca" citato dalla Mambro, dalla percezione del tempo che passa, mentre si è costrette all’inutilità, a stare ferme mentre il mondo va avanti.

Questo avviene anche tra gli uomini, naturalmente, però determina incertezze e timori più contenuti grazie alla diversa valutazione che noi abbiamo delle prospettive di ricostruzione della nostra vita.

Anche a cinquant’anni, volendo, un uomo può formarsi una famiglia, avere dei figli, oppure può cercare di affermarsi in campo professionale e ottenere ugualmente una buona integrazione sociale.

Per una donna, credo sia maggiore il rischio di legare la percezione del proprio valore personale alle caratteristiche fisiche, più che a quelle intellettive, e quindi di non credere a eventuali progetti, da realizzarsi dopo un certo periodo di carcere.

Questa concezione, decisamente antiquata, è tuttavia ripresa da una certa moda contemporanea che fa dell’immagine un autentico culto: la bellezza e la forza giovanili sono i valori più importanti, casomai da supportare (o da sostituire) con l’esibizione di ricchezza.

Evidentemente, noi non possiamo inseguire questi miti, per ragioni personali e sociali, perciò l’unica soluzione è quella di cercare di accrescere il nostro spessore culturale, puntando su di esso per giocarci le nostre possibilità di successo.

Del resto, in campo professionale non si richiedono più tanto le braccia, quanto i cervelli, ed anche nel rapporto sociale contano molto la sensibilità, l’intelligenza, la pazienza, la capacità di impegno: tante persone apprezzano queste cose e le ricercano.

Queste considerazioni sono in linea e, in parte, derivano da un concetto, contenuto nel libro di Francesca Mambro, che mi sembra molto importante: dopo essere sopravvissuti al carcere (ed alle vicende che l’hanno preceduto) si può guardare a se stessi ed al mondo da una nuova prospettiva.

Un punto di vista che permette di apprezzare le cose semplici, le stesse che prima ignoravamo, che consente di credere ancora nei sogni, ma senza la pretesa di vederli realizzati dall’oggi al domani.

 

Francesco Morelli

 

 

Il bacio sul muro "letto" dalle donne della Giudecca

 

E’ vero, quello che racconta Francesca Mambro è abbastanza reale, però lei, secondo noi, si sofferma poco sulle sofferenze emotive e fisiche, e invece sono queste le cose che sono più presenti nella nostra vita all'interno del carcere.

La prefazione di Furio Colombo ci da l’idea che il libro sia crudo e sofferto, ma leggendolo non lo abbiamo sentito così vicino alla nostra esperienza. Noi forse cercavamo nel libro le paure, le sofferenze che accompagnano i momenti della nostra giornata, l’assenza dei famigliari, del compagno, del marito, quello che si prova a non avere vicino chi ci ama. Francesca Mambro nel libro dà poco spazio a queste cose e si sofferma troppo su particolari che sono sì veri, ma non ti rimangono nel cuore.

In nessun punto del libro la vediamo cedere al rancore o alla rabbia, e questi purtroppo sono sentimenti che si provano in carcere. Come dice lei stessa, ha cercato di rimanere leggera, ma così rischia di diventare troppo superficiale.

Francesca ci racconta come si può vivere per anni tra isolamento, alta sorveglianza, traduzioni e incontri con il marito. Ogni giorno si inventa una ricetta, è quasi un aggrapparsi a questo rito quotidiano che permette a lei e alle sue compagne di sentirsi vive e imparare a conoscersi. Anche la domenica così assume un altro aspetto, che la rende un po’ meno vuota.

In carcere anche ottenere un piccolo oggetto in più, da tempo desiderato, è sempre una gioia, un motivo per fare festa, una piccola vittoria. Ed è vero che la più piccola cosa assume un aspetto di particolare importanza, quasi vitale per sopravvivere e per rendere la permanenza dentro più normale.

Iniziando a leggere, eravamo però anche curiose di conoscere la storia di Francesca Mambro, che è stata una terrorista di destra negli anni ottanta. Ci chiedevamo se la sua attrazione per un gruppo politico, soprattutto a vent’anni, era nata da una scelta ideologica, o piuttosto dal fatto che le era piaciuto uno stile di vita,un modo di parlare o di vestirsi, una atmosfera..

Ne Il bacio sul muro Francesca sceglie di non raccontare nulla di tutto questo, i suoi sono racconti belli, scritti però per dimostrare il valore che hanno le culture diverse nella vita del carcere, o come lei stessa dice: "Una storia dell’amicizia tra chi vive dentro un carcere, un’amicizia che cresce cucinando, con pochi ingredienti e tanta fantasia, su un fornellino". Racconti, ai quali lei aggiunge ricette dei paesi di provenienza delle sue compagne, cercando di rimanere leggera, più leggera possibile e tenendosi alla larga dalla politica.

 

Claudia, Patrizia, Marianne

 

 

Ma come sono davvero le donne in carcere?

 

Ho letto l’articolo che ha scritto Francesco riguardo al libro di Francesca Mambro e la mia femminilità mi ha fatto riflettere un po’ sul "come si sentono le donne in carcere!".

Francesco ha descritto noi donne come "donne tutta casa". Può anche essere, ma io personalmente non ne sono tanto convinta, vista la mia esperienza: da cinque anni rinchiusa qua dentro. Pensa! proprio oggi sono cinque anni da quando mi hanno arrestata.

Cinque anni fa ho visto i miei piccoli, cinque anni fa tenevo la mia bambina in braccio e le cantavo la ninna nanna. Ma son passati cinque anni ed io sono sempre qui e soffro sempre di più per loro, anzi adesso più che mai, i bambini sono cresciuti e cominciano a capire le cose, curiosi chiedono della loro mamma e del loro papà.

Si sentono abbandonati e sentono il distacco, e anche tu, mentre parli con loro al telefono, ti accorgi che sono molto distanti, non per i chilometri, ma nell’affetto.

Allora senti come un pugnale freddo che entra nel tuo cuore! Che cosa puoi fare? Piangi un po’ e ricomincia la giornata come se non fosse successo niente.

Analizzando le "chiacchiere" tra compagne di sezione emerge sempre lo stesso problema che ci accompagna da secoli. Le responsabilità che una donna ha da "libera", all’interno degli istituti penitenziari non cambia. Indipendentemente dalla nazionalità, dal ceto sociale, dal reato, il "male comune" è quello di una preminenza dei problemi dei famigliari. Non ce ne vogliano i nostri "compagni di sventura", i nostri uomini, ma loro dimostrano nella stragrande maggioranza, attraverso la corrispondenza, che la cosa essenziale all’interno di un carcere per loro è assicurarsi le sigarette ed il quartino di vino, magari anche lavorando.

Certamente anche per noi donne i "vizi ed i capricci" esistono, tuttavia ci accontentiamo:

 

di piccole cose a bassissimo costo o dei prodotti regalati dalle riviste (come profumi o rossetti);

non buttiamo niente nella spazzatura, così una maglietta usata la ammoderniamo, le facciamo cambiare aspetto, forma, misura e ridiventa di moda;

la nostra principale ossessione è quella di risparmiare per inviare dei soldi ai nostri figli.

 

La responsabilità dei nostri cari è ciò che ci dà maggior forza per portare avanti qualsiasi progetto. Inutile dirlo, il carcere può cambiare le persone sotto tanti aspetti, ma non influisce nel farci perdere la "tradizionalità" di essere donna, sposata o no, responsabile non solo di se stessa, sempre premurosa verso il compagno o l’amico, verso i genitori ed i parenti prossimi che tartassiamo di posta per sapere soprattutto come stanno di salute e raccomandare loro di stare molto attenti all’influenza dell’anno in corso, che è e sarà sempre più "cattiva" di quella dell’inverno precedente. Siamo sempre vigili in tutto, "dirigiamo il traffico" pur essendo ristrette in una struttura che non cambierà… non cambierà il nostro modo di vita, i nostri principi di vita, i nostri obiettivi per il futuro. Non sarà neppure la detenzione che ci farà dimenticare il ruolo di madre con mille attenzioni verso i figli, ai quali non faremo mancare nulla di tutto quello che, dall’interno dalla struttura, possiamo offrire loro. D’accordo abbiamo commesso uno sbaglio, lo stiamo pagando con la condanna, siamo sicuramente colpevoli di qualcosa, ma non vogliamo crescere i nostri figli in un ambiente come il carcere, questo no. Indipendentemente dalla nazionalità, dal ceto sociale, dal reato, ogni bambino è sempre innocente.

 

La forza per lottare e poter sopportare questo carcere è la rabbia. E noi donne siamo molti forti da questo punto di vista, perché siamo molto più legate ai famigliari e ai nostri uomini, e viviamo la separazione con rabbia.

Poi lottiamo molto. Io una donna, in carcere, non la vedo tutta casa, la vedo tutta diversa. Perché il più delle volte se è finita dentro non era perché voleva fare "palacinke" (crèpes) al marito, bensì per qualcos’altro, per le sue (nostre) fantasie e il desiderio di cambiare vita, certo anche sbagliato, ma indirizzato sempre a dare di più ai suoi cari, a farli stare meglio.

Invece l’uomo? La prima cosa che ha in mente qual è? Tutto il contrario di noi donne, la carriera e i soldi.

 

Svetlana

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