Il carcere femminile 20 anni fa

 

Carcere della Giudecca, vent’anni fa, quando a fare le perquisizioni e i rapporti (ma pochi, pochissimi) erano le suore

 

Suor Gianna ci racconta un carcere diverso: dalla Superiora marescialla a Suor Karatè, erano le donne a gestire tutto.

Suor Gianna è "entrata in carcere" per la prima volta nel 1978, e si può dire che non ne è più uscita, anche se oggi si sente una "semilibera", perché è impegnata soprattutto all’esterno, nella Casa di accoglienza Giovanni XXIII° per detenute in permesso premio ed ex detenute.

L’abbiamo incontrata nella redazione della Giudecca, e ci siamo fatte raccontare tutto il possibile del carcere, com’era vent’anni fa. Un racconto pieno di energia e vitalità, e in qualche punto anche di una sottile nostalgia per un passato, che era duro, durissimo in galera, ma che aveva anche i tratti e la forza di una maggiore sincerità.

"Avevo 28 anni quando sono arrivata alla Giudecca, appena diplomata assistente sociale, con tanta teoria in testa e la voglia di cambiare il mondo. Lì ho trovato 20 suore, tutte molto anziane, e 4-5 vigilatrici penitenziarie, assunte di tre mesi in tre mesi: me le ricordo bene, con il loro grembiulino azzurro. Mi avevano detto che avrei dovuto dare una mano alle altre suore, e poi ben presto il carcere lo avrebbero preso in mano le laiche. In realtà tutto questo è successo solo nel ‘92, fino ad allora c’era la Madre Superiora, che aveva la funzione di maresciallo, e la Giudecca era l’unico carcere femminile italiano gestito interamente da donne e staccato dal Maschile.

 

I reati delle donne, quando ancora si facevano anni di carcere per aver abortito o per essere tossicodipendenti.

C’erano detenute con reati molto pesanti, omicidi, e poi quei sequestri di persona dove le donne erano state complici, avevano aiutato i mariti, portato da mangiare ai sequestrati. Venivano da tutta Italia, molte dal sud, e così i parenti arrivavano ai colloqui dopo viaggi estenuanti, e noi dovevamo cercare di dare un sostegno. Un’intera sezione poi era composta da ergastolane, anche perché Venezia era uno dei pochi Penali femminili esistenti allora. C’erano poi donne condannate per il reato di aborto, anche l’essere tossicodipendente allora era reato.

Eravamo noi suore a dover fare le perquisizioni all’ingresso. Io in realtà dicevo "Dammi le cose che non puoi tenere", e devo dire che in genere mi consegnavano tutto. Mi ricordo che una zingara si è sciolta i capelli, ed è uscito tutto l’oro che aveva addosso.

I rapporti disciplinari, anche quelli dovevamo farli noi, ma in realtà il nostro tempo lo passavamo in un lavoro improbo di persuasione e di contenimento delle tensioni: se le donne non rientravano in cella per protesta, anche noi stavamo fuori con loro fino alle dieci di sera, a parlare e a cercare soluzioni ai problemi. Certo, se una spaccava sedici finestre (è successo), allora si era costrette a fare rapporto, io ne ho fatti solo per le rotture di cose di proprietà dell’amministrazione, non certo per altre cretinate.

Per me i primi due anni sono stati durissimi, stare dentro senza diventare una di loro, ma anche senza essere una guardiana, era davvero difficile. La suora deve essere tollerante, amica, ma se devi far rispettare il regolamento solo col colloquio, il dialogo, il ragionamento, a volte è sfibrante.

Di giorno eravamo in due per sezione, una suora e una vigilante; di notte, due in tutto, con 150 donne. Sì, qualche volta mi è capitato di avere paura, ma raramente: una volta che una donna ha spaccato una bottiglia e fatto uno squarcio alla sua rivale, ho visto il braccio aprirsi, e dallo spavento mi è venuta una chiazza di capelli bianchi.

Certo, le detenute erano più violente di adesso, perché non c’erano i benefici, non c’era niente da perdere. Ma finché lavoravano tutte, non c’erano stati grandi problemi, quando il lavoro non c’è stato più, con l’ozio sono cominciate le baruffe e le tensioni. Le celle allora erano chiuse, tranne per due ore al mattino e due al pomeriggio. Come chiudevi la cella, loro cominciavano a suonare con le richieste più diverse. Non avevamo più gambe per correre a vedere cosa volevano, allora a un certo punto abbiamo detto: "Lasciamole aperte, facciamo una prova". Paradossalmente, aver ottenuto le celle aperte ha significato che poi magari dormivano tutto il giorno, e comunque non chiamavano più. Mangiavano tutte in refettorio, con i coltelli normali. Ogni tanto ne spariva uno, allora c’era la perquisizione generale, che facevano gli uomini, e finivano per disfare il carcere. Noi generalmente agivamo con la persuasione, cercavamo di convincerle che era meglio farlo riapparire, il coltello, se non volevano avere tutte le loro cose rovesciate e messe a soqquadro. Poi hanno ritirato tutti i coltelli e dato quelli di plastica.

 

Le prime tossicodipendenti facevano la spola tra carcere e ospedale.

In quegli anni si sapeva poco di tossicodipendenza, mi ricordo che le prime tossicodipendenti facevano la spola tra carcere e ospedale, ma quando erano in ospedale firmavano per essere riportate in carcere. In un certo senso, in carcere stavano meglio, avevano un aiuto. Mi tornano in mente giorni e notti passati in infermeria, a passeggiare su e giù per il corridoio con ragazze che stavano male, che vomitavano, che erano in crisi di astinenza, e farmaci non ce n’erano, c’eravamo noi che cercavamo di far loro coraggio. E c’era suor Karatè: era una suora infermiera, che quando una donna era in crisi e dava in escandescenze, sapeva come prenderla, era forte e capace di intervenire a bloccarla prima che si facesse del male. Una vera risorsa, direi, piuttosto di intervenire coi manganelli.

Ho visto anche tante donne uscire a fine pena e poi tornare in carcere dopo poco, ed è sempre un’angoscia veder rientrare una donna per recidiva; tante tossicodipendenti invece non sono più rientrate perché sono morte. Arrivavano dentro che avevano diciotto - venti anni, poi di nuovo, dentro e fuori, finché non capitava che l’amico, appena uscite, dava loro la roba, e morivano per overdose. Per molte, neanche tentare di ricostruirsi una vita "normale" mettendo al mondo un figlio le ha salvate. Il fatto è che anche per chiedere aiuto devi essere forte, non è facile, e se invece pensi di poter essere autosufficiente sei rovinata. E poi c’è da dire che in quegli anni finivano in galera solo per aver usato droga, non per avere commesso altri reati, e allora la situazione era ancora più dura da accettare.

 

Poi sono arrivate le politiche, e con loro è iniziata una serie di riflessioni sul carcere.

Poi sono cominciate a entrare le politiche, loro avevano l’ideologia di rovesciare il sistema, rosse, nere, bianche, tutte intelligentissime, si organizzavano la giornata studiando. Le tossicodipendenti, per esprimere il loro disagio, partivano e spaccavano, con le politiche invece è iniziata una serie di riflessioni sul carcere.

C’è da dire che tutto quello che le donne in carcere oggi hanno di un po’ più decente è anche il risultato di certe lotte di allora, che ora forse si apprezzano poco, perché è difficile capire il valore di certe cose, se non hai fatto niente per conquistartele.

Le politiche hanno avuto un ruolo importante: erano capaci di scrivere, di studiare, di mettere insieme le idee di tutte. Vorrei dire che mi hanno fatto cambiare sette volte la pelle: il fatto è che, se come me incontri una persona in isolamento, e stai ore a parlare, viene fuori la profondità della vita, c’è questa comunicazione forte di storie, di problemi, di paure. Succedeva poi che uscivano all’aria, e si incantavano davanti a un fiore: arrivavano spesso dal supercarcere di Voghera, tutto cemento, e si ritrovavano alla Giudecca, per lo meno con un po’ di natura a disposizione. Chi era dentro per reati politici aveva comunque in sé il valore della giustizia. Adesso la violenza è senza senso, loro coltivavano almeno degli ideali. E in fondo avevano l’idea di cambiare il mondo, e hanno pagato duramente, si sono rovinate la vita a vent’anni.

 

Le zingare allora erano una tribù.

In quegli anni c’erano sempre venti - trenta zingare, ma erano diverse, erano una tribù, stavano continuamente insieme, si sedevano per terra e mangiavano anche insieme. Erano le uniche che andavano all’aria pure d’inverno, e io con loro.

Credo che se fossi stata una zingara, sarei finita anch’io in carcere, per omicidio probabilmente: del marito… Quanta rabbia per i mariti zingari: io lo dico sempre, alle donne, se non cambiate voi, anche i vostri figli saranno così. Il fatto è che la corsa ai soldi c’è anche lì, nel loro ambiente, una volta vivevano con la vendita dei cavalli, adesso la sola forza lavoro sono le donne che vanno a rubare. Le nomadi parlano con te, ti dicono la verità solo quando sono assolutamente sicure che non le tradirai. Ma ne ho vista solo una fare la scelta di andarsene dal clan per salvare i suoi figli: io non sarei riuscita ad essere così coraggiosa.

 

Eravamo come spugne pronte ad assorbire tutto: tensione, dolore, rabbia.

Ho visto donne, dopo mesi di isolamento, sbattere la testa contro il muro dall’angoscia, ma se c’era qualcuno che entrava in cella e stava lì con loro, allora è diverso, allora nascevano anche delle amicizie. Era come se io dicessi loro: non posso fare niente, ma sto qui con te, ci sono.

Ho tanto ascoltato, questo sì, perché bisogna essere come spugne, devi assorbire tutto, tensione, dolore, rabbia, sai che non ce l’hanno con te ma devi assorbire anche la loro rabbia. E devi avere però degli spazi per te, perché altrimenti, per difenderti, diventi dura. Ricordo che, dopo due anni lì dentro, un giorno mi è successo che non volevo più tornare, ho cominciato a girare intorno al carcere, sono andata a San Giorgio, a Sacca Fisola, e non ne volevo più sapere, poi ho incontrato un frate che conoscevo, e che mi ha detto: "Vieni, ti accompagno io". E sono rientrata. Ma ogni tanto andavo al Lido, a buttarmi in acqua per non perdere la testa, per fare un po’ di "igiene mentale".

 

Io preferivo gli anni ‘80, c’era più sincerità, più senso del gruppo.

Il problema oggi per le donne in carcere è avere una motivazione, un obiettivo da raggiungere. Io glielo dico sempre, provocatoriamente, a ognuna di loro: o ti muovi e fai qualcosa per organizzarti la vita, o finirai a marcire in galera. Per noi sarebbe più comodo lasciarle dormire sempre, ma io preferivo gli anni ‘80, quando le donne erano più rissose, ma erano anche vivacissime, piene di voglia di inventare, di lottare. Erano capaci di mettere su uno spettacolo teatrale facendo tutto da sole, scrivere il testo, recitarlo, dirigere i lavori, allestire le scenografie e creare dal niente i costumi. E c’era più senso del gruppo, anche, erano molto solidali, se decidevano di aiutare una compagna, tutto il carcere si mobilitava. Il beneficio di una era il beneficio di tutte, oggi ognuna pensa per sé. E poi allora erano molto sincere, a me dicevano dritto in faccia che ero la serva dello Stato, e io rispondevo che ero la serva loro… I rapporti personali erano veri, quando invece sono ritornata nel ‘94, dopo che ero stata lontana per un certo periodo, ho visto che ognuna adesso deve presentarsi bella, buona, e non può più essere se stessa. Mi ricordo una ergastolana che diceva che allo psicologo "mi ghe conto cueo che el vol lu" (tradotto dal dialetto veneziano: gli racconto quello che vuole lui). Con noi era diverso, noi non eravamo né giudici né altro, a noi raccontavano davvero tutto.

 

L’intervista è a cura di Ornella Favero e della redazione della Giudecca

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