Merci da sballamento

 

Merci da "sballamento"

 

Quante carceri "attraversa" un detenuto nella sua vita, quanti trasferimenti forzati, quanti disagi per i famigliari

 

"Sballamento" nel gergo carcerario è il trasferimento, non richiesto e non gradito, di un detenuto da un carcere a un altro.

Sull'origine di questo termine si possono fare, più che altro, delle ipotesi: imballare e sballare sono verbi che danno l'idea di spostare non tanto una persona, quanto piuttosto una merce, e senza tante delicatezze e riguardi. Ogni detenuto ha, nella sua storia carceraria, un gran numero di sballamenti, spesso di notte, senza preavviso, con l'ansia di dover di colpo rivoluzionare il suo modo di vita, le amicizie, l'organizzazione delle sue giornate.

Ne abbiamo voluto discutere nella redazione femminile della Giudecca, perché di solito di "sballamenti" si parla troppo poco, e invece si tratta di momenti fra i più difficili della quotidianità carceraria. Nelle carceri si viene di solito sballati perché la Direzione dichiara uno stato di sovraffollamento, e a farne le spese sono per lo più, come racconta Cristina, "quelle che stanno un po' sulle palle".

Le modalità dello sballamento sono le più diverse: a Licia è capitato di essere "sballata" in pigiama, senza neppure il tempo per vestirsi, con le ragazze della cella che le hanno preparato in fretta e furia la borsa, e poi di restare parcheggiata nel "blindo" per ore sotto il sole; a Elena è toccato viaggiare in manette in un aereo di linea dalla Sardegna; più o meno tutte, poi, hanno viaggiato nella "periodica", un vagone speciale con le celle che viene agganciato a un treno normale. Il bagaglio che hai in dotazione è costituito dai "ministeriali", grossi sacchi tipo zaino; ne puoi portare due per un totale di 10 kg di merci, che nessuno, di solito, ti aiuta a trasportare.

Se poi, durante il trasferimento, hai bisogno di andare in bagno, le condizioni sono quasi sempre avvilenti: capita che non ti tolgano neppure le manette, o che addirittura sfilino dai cardini la porta del bagno per tenerti sotto costante e assoluto controllo.

Quando arrivi al carcere di destinazione, è come dover ripartire da zero: se hai iniziato un percorso di reinserimento dove eri prima, ora devi ricominciare tutto da zero, avere a che fare con una nuova educatrice, cercare di capire i meccanismi del nuovo carcere, ricostruirti quel minimo di vita di relazione che ti permetta di sopravvivere. I primi tempi li passi a "leccarti le ferite", poi ti guardi intorno e cerchi di far ricorso a tutte le tue risorse per scavarti una nuova "nicchia" e trovare riparo dopo lo scombussolamento del trasferimento. Nel frattempo, i tuoi parenti si trovano a subire l'ennesimo disagio: se lo sballamento è stato improvviso, capita anche che arrivino al carcere per il colloquio i famigliari di un detenuto e si sentano rispondere che il figlio, o il marito non è più lì. E capita che inizi così, anche per loro, una specie di triste sballamento, una nuova difficoltà nella vita già sufficientemente disastrata dei "parenti dei detenuti".

 

Lo sballamento di Licia

 

Licia è sbarcata da poco alla Giudecca, dunque il suo ultimo sballamento se lo ricorda ancora bene: "Mi chiamo Licia, sono una ragazza triestina arrivata qui a Venezia dal carcere di Udine: quando mi hanno chiamato in matricola, per dirmi che partivo e dovevo essere pronta il giorno dopo per le nove, sono rimasta impietrita. In poco tempo era il secondo trasferimento, ormai pensavo di rimanere a Udine e di poter realizzare un programma per l'affidamento, perché ho ancora tante cose in sospeso; poi c'era la mia cella, la sentivo mia, perché tappezzata da poster e disegni miei, e poi per le mie compagne.

Avevamo molto affiatamento tra noi: i nostri ritmi, lavorare, giocare, scrivere. Dico la mia cella, perché quando sai che ci devi stare per un bel po', te la crei come fosse una casa, per viverci nel modo più decente possibile.

Udine non offre nulla, è un edificio vecchio e fatiscente, per non parlare della pulizia: tre docce la settimana, per tre minuti, perché ci sono solamente tre ore di tempo e se arrivi ultima la doccia proprio non la vedi. L'aria poi, si chiama aria uno spazio di cinque metri quadrati tra le immondizie, lì dove ti stendi magari per fare quattro chiacchiere.

Da lì sono partita alla "Fantozzi": ammanettata, piena di bagagli, sono montata nel blindo, sino alla stazione ferroviaria di Cervignano, dove ci aspettava il treno chiamato "periodica": si parte sempre di sabato, quando ci sono i trasferimenti, o meglio sballamenti.

Partite alle nove, siamo arrivate alle 12.30: dimenticavo, con me è partita anche una ragazza di Verona, di nome Anna. Dopo venti minuti sono arrivati gli agenti di Venezia a prenderci, siamo saliti su un piccolo battello, con il mare molto agitato, e abbiamo impiegato circa venti minuti per sbarcare alla tanto sospirata Giudecca.

Arrivate subito in matricola, di nuovo foto, impronte, la perquisizione, le solite, tristi cose burocratiche di quando arrivi in un nuovo carcere, dopo di che passi in infermeria e devi starci finché la comandante, il direttore e l'educatrice non ti fanno il primo colloquio, questa è la prassi, poi scendi in sezione, assieme alle altre ragazze.

Dopo due giorni deprimenti in infermeria, mi hanno chiamato per assegnarmi la mia cella: una sensazione strana, tutto così grande, tanta gente, io sono stata messa alla cella due grande, siamo in nove ragazze, tutte con le proprie storie, e all'inizio è stata dura per me che, abituata a stare al massimo con due persone, mi sentivo improvvisamente estranea e confusa. Poi mi sono abituata, ma quello che mi sembra ancora strano è stare in una cella aperta dalle otto di mattina sino alle otto di sera, come è qui alla Giudecca: ho quasi quella sottile sensazione di libertà, perché posso girare dove voglio, posso andare, sempre con discrezione, in cella di qualche compagna a prendere un caffè e a chiacchierare. Abituata a carceri chiuse, per me è quasi uno sballo".

 

Piccole proposte per "sballare" in modo più umano

 

Quando una persona "normale" si appresta a fare un viaggio, c'è tutto un rituale che sta intorno alla partenza: grandi fasi di preparazione "spirituale", liste di oggetti di prima necessità da non dimenticare assolutamente, acquisti dell'ultima ora, ripensamenti. Il trasferimento dello "sballato" è invece il trauma di un viaggio non preparato, di bagagli non fatti, a volte di tragici annunci dati di notte, quando qualcuno si trova di colpo dirottato in posti come gli O.P.G., piccola, innocua sigla che nasconde l'ignoto dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario.

Facciamo, per lo meno, delle piccole proposte perché il detenuto, da merce da sballare, si trasformi in persona da trasferire:

che si venga avvisati di uno sballamento in modo decente, da operatori consapevoli del fatto che è un trauma viaggiare da un carcere all'altro, lasciando anche quel poco che si è riusciti a costruire in fatto di rapporti umani e di vita sociale;

che non si interrompa il percorso di reinserimento, così faticoso che certo non ha bisogno di ripartire ogni volta da zero;

che venga davvero applicata la legge, là dove prevede che il detenuto debba essere per quanto possibile avvicinato al luogo dove vivono i suoi, anche perché i viaggi dei famigliari per andare a trovare i loro cari in carcere sono una fatica, un costo e una pena che non si sono certo meritati.

 

A cura di Ornella Favero

 

 

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