La storia di Mirko

 

Un storia che fa pensare

 

Mirko era rumeno e aveva 19 anni quando si è suicidato nel carcere minorile di Roma, dove era arrivato dopo un giudizio quanto meno sbrigativo

 

Rivista del Volontariato, gennaio 2004

 

Mirko Zdrezaliu, 19 anni, rumeno orfano di padre e immigrato con madre e sorella a Pescara, non c'è più. È morto il 16 novembre, indotto al suicidio nel buio della disperazione di una cella del carcere minorile di Roma. Il giorno prima aveva subito uno sbrigativo quanto formalmente scorretto giudizio in udienza di convalida dell'arresto a L'Aquila. In pratica gli sono stati negati i diritti alla difesa, infrangendo codice e procedure penali, Costituzione, buon senso e spirito di umanità.

 

Solo in terra straniera

 

Si può giudicare una persona senza che questa abbia effettivo diritto alla difesa? Senza che possa parlare e difendersi nella sua lingua madre? Senza alcun approfondimento sulla sua situazione di vita e le sue effettive esigenze e negando ogni valore alla testimonianza degli assistenti sociali della Giustizia minorile e di un operatore dell'associazione di volontariato che lo conosceva?

Senza chiedersi chi fosse l'uomo che lo ha denunciato, insieme ad altri tre immigrati, probabili vittime di sfruttamento? E si potrebbe continuare con altri "senza". I "senza" dell'udienza di convalida dell'arresto si sommano ai "senza" delle opportunità per questi ragazzi, e può essere la fine. E per Mirko è stata veloce.

Dopo essere stato trasferito burocraticamente come un pacco postale a Roma e messo in isolamento senza alcun aiuto di tipo relazionale, il conforto dei connazionali (da lui richiesti), la presenza di un mediatore linguistico (per la sua difficoltà a parlare italiano), il colloquio con uno psicologo e la sempre più ridotta disponibilità di operatori qualificati - e non "custodialistici" - nelle prigioni di Stato, soprattutto in quelle per minori dove proposta pedagogica e sostegno psicologico dovrebbero essere strettamente connesse al trattamento. Il sentirsi solo, perso, non compreso, in una terza straniera e in un luogo indecifrabile e annientante gli è stato fatale. Si è impiccato con i lacci delle scarpe, nel cuore di una insonne notte autunnale.

 

Cosa può fare il volontariato

 

I fatti e le testimonianze raccolte parlano chiaro e gridano giustizia. Ne è coinvolta e testimone un'associazione che opera con merito in Abruzzo, svolgendo anche un lavoro con unità di strada proprio per agganciare ragazzi e ragazze alla deriva sociale e che aveva precedentemente conosciuto Mirko. Perché l'operatore dell'unità di strada non è stato sentito dal giudice e perché questo gli ha impedito di parlare con il ragazzo, disperato dopo la sommaria sentenza di custodia cautelare? È scattata così subito una lettera di denuncia dell'Associazione al direttore del carcere, al Magistrato di Sorveglianza, al capo dipartimento della Questura minorile di Roma, per segnalare i fatti, l'arbitrio giudiziale, la situazione del minore. Ma è stato inutile.

Cosa può fare di più il volontariato di fronte a questi casi? Vi sono istituzioni e burocrati della giustizia per cui il volontariato è utile e fa comodo quando è soggetto lenitivo dei bisogni dei reclusi, o funge da "ammortizzatore sociale", mentre non gli è di fatto riconosciuta la funzione di tutela, di soggetto critico e di proposta. Non deve intaccare la "sacralità" dei riti della giustizia o dei luoghi della detenzione. Dove va a finire allora la funzione culturale e il ruolo politico del volontariato, come dice la "Carta dei Valori"? Serve un nuovo patto con le istituzioni della giustizia?

Di certo occorre lottare per affermare un ruolo più incisivo, di collaborazione sì, ma non incondizionata. La garanzia di operare per l'interesse generale non è oggi - dopo la riforma della Costituzione - prerogativa esclusiva di alcuna istituzione e i cittadini devono essere "favoriti" in questa assunzione di responsabilità. Nel caso specifico, prima viene la persona con i suoi diritti inalienabili - che qualsiasi imputazione o detenzione non cancella - e poi l'esigenza della sicurezza sociale dei cittadini. Se non si preserva la prima si minaccia anche la seconda. Per stare all'attualità, è come voler perseguire la pace facendo la guerra.

Veniamo poi alla risonanza nazionale dell'evento luttuoso verificatosi nel carcere minorile. Solo quattro organi di stampa ne hanno parlato (Il Corriere della Sera, La Repubblica, L'Unità e Il Manifesto), mentre gli altri inzuppavano le loro testate nel pianto corale della Patria ritrovata di fronte alle spoglie di connazionali morti. Ed è proprio di fronte a questi nostri compianti morti per causa di guerra che diviene ancora più intollerabile la morte di questo ragazzo rumeno.

E poca importanza ha il fatto che glissasse sulle sue generalità, che si facesse considerare un minore, che fosse senza fissa dimora, che frequentasse, a sue "spese", i luoghi di sfruttamento nei dintorni di una stazione, che fosse un clandestino disperato. Non c'è più alcun progetto di vita da fare con lui, nessuna punizione redentiva da prescrivere, nessuna speranza di inserimento in questo nostro avaro Paese che dimentica il suo popolo di emigranti con le valigie di cartone (ben 7 milioni solo dal dopoguerra agli anni Settanta), perché non capisce cosa sia oggi il disagio giovanile e perché ha perso di vista la funzione educativa e inclusiva delle sue istituzioni.

 

Quale giustizia vogliamo?

 

Da una rilevazione del Centro per la Giustizia Minorile del Lazio è emerso che nel 2000 non più del 30% dei ragazzi sottoposti a procedimento penale ha avuto l'opportunità di parlare con un operatore dei servizi minorili che, nei casi più frequenti, è un educatore o un assistente sociale, mentre più raramente si tratta di uno psicologo, pur se è palese l'aumento dei ragazzi con disturbi di personalità, con psicosi sottostanti a gravi reati e problemi di dipendenza da sostanze e poliassuntori. I tagli della spesa nelle amministrazioni della giustizia, con la riduzione del personale più qualificato per il recupero dei detenuti, sono paradossalmente più evidenti nel clima di accentuata severità che caratterizza oggi l'approccio a qualsiasi devianza e quindi di facile ricorso alla carcerazione preventiva. Si vuole tornare agli anni Sessanta, epoca delle "istituzioni totali", dei riformatori, dei manicomi e quanto altro? Si vuole scaricare sul volontariato e la società civile che entra in carcere la responsabilità di garantire un volto umano alla giustizia? Non ci stiamo.

 

 

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